8. L’ITINERARIO INTELLETTUALE
8.1 Abbiamo affermato nella sesta sezione che ciò che non termina è la parola; che cosa intendiamo dire con questo? Semplicemente che non si dà l’eventualità che una parola non rinvii sempre necessariamente a un’altra, e che pertanto non possa isolarsi la parola dalle parole, cioè dalla struttura in cui è inserita e per cui esiste. Non può nemmeno pensarsi la parola senza altre parole, poiché nel momento in cui la penso la penso attraverso un discorso, e quindi attraverso altre parole. Ciascuna parola dicendosi muove verso un’altra parola, e in questo muoversi è possibile cogliere la direzione delle parole, direzione che non è prevedibile né gestibile perché queste altre parole, dicendosi, effettuano quella precedente e da questa sono prodotte. Questa direzione è propriamente ciò che mi costituisce cioè, letteralmente, vado nella direzione del mio discorso, delle parole del discorso in cui mi trovo.
8.2 Intendiamo con "itinerario" il procedere lungo questa direzione che mi costituisce. Ma posso non procedere lungo questa direzione, e a quali condizioni? Se non potessi procedere altrimenti allora non potrebbe porsi la questione, quindi evidentemente è possibile, ma a quali condizioni?
8.3 Riprendiamo un esempio proposto nelle pagine precedenti, nella proposizione 5.7, dicevamo così: "Supponiamo che affermi x. Dicendo x faccio esistere x nella parola, facendo questo mi trovo di fronte a qualcosa che prima non esisteva, ma che esiste adesso. Supponiamo ancora che la proposizione p che afferma x produca la proposizione q come suo significato, cioè come ciò che fa esistere p. Allora, per dirla rapidamente, dicendo p faccio q, e facendo q faccio esistere p". La x indica ciò che intendo dire, la proposizione p la proposizione che la dice, quindi ciò che di fatto dico, e la proposizione q ciò che faccio dicendo p che dice x". Nulla vieta di pensare tuttavia che dicendo una cosa questa sia esattamente ciò che dico e ciò che faccio, che cioè questi tre aspetti siano di fatto uno solo. E in effetti non sono né isolabili né prescindibili, dicendo una cosa accadono tutte e tre, ma se considero che ciascuna parola dicendosi non faccia null’altro che esprimere qualcosa che si suppone fuori dalla parola, allora ciò che intendo dire, cioè la x, non sarà altro che una sorta di emanazione della cosa che intendo dire. La teoria dell’emanazione ha avuto un certo successo in quanto risolve il problema di stabilire da dove venga ciò che si dice, consentendo di eliminare la parola in quanto atto costitutivo degli umani per relegarla a semplice strumento di espressione. È un’operazione che ha mantenuto fino a oggi buona parte della sua portata, se si considera che comunque continua a pensarsi che la ricerca scientifica, per esempio, sia la via per la conoscenza della realtà delle cose attraverso la scoperta delle leggi che le governano e secondo cui si muovono, considerazione, sebbene molto accreditata, non per questo meno bizzarra. La questione può porsi in termini molto semplici: o le cose sono accessibili alla conoscenza oppure non lo sono, e se non lo sono allora le cose sono soltanto una produzione della parola, non essendoci nessun altra via per poterne dire e quindi saperne. Se le cose fossero accessibili alla conoscenza attraverso che cosa lo sarebbero? Quale criterio potrebbe renderne conto? E quale criterio potrebbe essere utilizzato per stabilire il criterio attraverso il quale avverrebbe il renderne conto? Questione antichissima, che tuttavia mantiene la sua attualità così come la mantiene la struttura del linguaggio che ci impedisce di stabilire la conoscenza se non come procedura linguistica, per cui la conoscenza non può accedere ad altro se non a ciò che essa stessa, in quanto atto linguistico produce. Con questo stiamo soltanto dicendo che la conoscenza, al pari di qualunque altra procedura linguistica, indica solo ciò che sto facendo, in questo caso stabilire che le regole linguistiche instaurano un certo elemento x che "conosco", come un elemento che procede dal gioco linguistico che sto praticando, e che è acquisito attraverso lo stesso gioco linguistico. Acquisirlo è prendere atto che si sta dicendo, prenderne atto è trovarsi a dire che x procede da y o da qualunque altra cosa il gioco linguistico in cui mi trovo imponga nella combinatoria che si sta producendo.
8.4 Possiamo considerare a questo punto che la conoscenza si ponga come l’acquisizione di proposizioni che quelle precedenti consentono di stabilire, e cioè un modo di arricchire il numero di proposizioni che il linguaggio consente di produrre. Cosa non da poco, se si considera l’eventualità che la maggiore ricchezza di proposizioni costruite coincida con la maggiore ricchezza di colui che le acquisisce, in quanto potrà disporre di un numero maggiore di rinvii, qualunque sia l’elemento che si sta ponendo, non trovandosi così nella necessità di credere che ciò che ha incontrato sia il solo rinvio possibile e pertanto necessario e in questo modo considerarlo un elemento indipendente dalla parola, come se fosse una garanzia della parola, il suo referente necessario o, come dicevamo prima, un’emanazione dell’oggetto.
8.5 Considerare la teoria dell’emanazione comporta una riflessione su quanto viene dato per acquisito dal discorso religioso, che per definizione accoglie la teoria dell’emanazione come l’unica in grado di rendere conto dell’esistenza delle cose. Si avverte qui una notevole prossimità tra il discorso scientifico e il discorso religioso, entrambi hanno la necessità di pensare che qualcosa esista necessariamente fuori dalla parola, e pertanto che questo qualcosa sia conoscibile non soltanto attraverso la parola (sarebbe in questo caso inevitabile il considerare qualunque cosa come un effetto, una produzione della parola), ma conoscibile perché la cosa esiste di per sé, e esistendo si impone alla conoscenza, o alla coscienza che è la stessa cosa (se parlo della conoscenza allora ho necessariamente coscienza della conoscenza, se no non potrei saperne in alcun modo, e se ho coscienza come lo so se non ne ho nessuna conoscenza?). In questo modo, sia il discorso scientifico sia il discorso religioso non potrebbero giustificare la propria esistenza senza la teoria dell’emanazione, che consente di mantenere la certezza che qualcosa esista fuori dalla parola, e che quindi non sia dipendente dalla parola. La teoria dell’emanazione afferma, è costretta ad affermare che la parola termina, deve avere un termine, perché se non lo avesse allora nulla sarebbe certificabile, nulla potrebbe essere creduto, né la scienza né la religione, qualunque essa sia, considerando che, forse, sono la stessa cosa.
8.6 Che la parola non termini rimane la condizione stessa dell’esistenza della parola, se terminasse allora ci sarebbe almeno una parola che non rinvia a nulla, e che quindi si arresterebbe alla "cosa" che dice, non potendo nulla su di essa salvo l’enunciarla. In questo caso ciò che si dice non potrebbe non essere creduto vero, cioè esistente, poiché non esisterebbe più nulla a cui questa parola potrebbe rinviare. Detta l’ultima parola, qui si attesterebbe la conoscenza, certa, a questo punto e non confutabile. Per fede, naturalmente.
8.7 Ma tutto questo ha altri risvolti. Infatti l’itinerario di cui stiamo parlando non porta alla conoscenza delle cose, della loro realtà o verità, non conduce cioè a una visione del mondo o a un metalinguaggio che dovrebbe meglio esprimere le cose o dare loro una dignità che non avrebbero ma che attenderebbero da qualcuno. Le cose si danno in ciò che dico, non altrove, e pertanto qualunque cosa accade per una connessione, un rinvio che mi consente di aggiungere altre parole, altre proposizioni, tenendo conto che nulla di quanto si va dicendo è necessario tranne il constatare che le sto dicendo, e che non c’è nessun altro motivo per considerarle al di là del fatto che si stanno dicendo e dicendosi fanno qualcosa che mi interroga, e interrogandomi impongono altre proposizioni che andranno ad aggiungersi a quelle precedenti, impedendomi di attribuire a qualcuna di queste una maggiore o minore attendibilità, in quanto non è questo il criterio che opera in ciò che sto dicendo.
8.8 Come parlare allora? È possibile dire qualcosa se nulla è più legittimato di altro a dirsi, se qualunque cosa dica questa è soltanto un elemento che consente ad altri di dirsi per potere proseguire a parlare? Ma allora parlare non significa assolutamente nulla? Forse non è questa la questione, quanto piuttosto domandarsi che cosa ci stiamo chiedendo domandandoci queste cose. Che senso hanno? Parlo, e domandarmi da dove vengono le parole non mi porterebbe da nessuna parte, salvo il condurmi a dirne altre. Ma queste altre parole che si aggiungerebbero dicono pure qualcosa. Se affermo che dicono qualcosa allora qualcosa fanno, un senso lo hanno e così pure un significato. Se mi domando queste cose, se posso farlo, allora esiste un senso e così pure un significato, se non esistessero infatti non potrei dire nulla di tutto questo, non disponendo né di termini per farlo né di una struttura in cui inserirli, per cui nulla funzionerebbe e non si darebbe nulla. Non posso chiedermi se è necessario che le parole abbiano un senso, se me lo sto chiedendo, è perché ce l’hanno.
8.9 Ciò che posso domandarmi è qual è il senso che si sta producendo in ciò che dico, vale a dire qual è la direzione in cui si sta muovendo il discorso in cui mi trovo. Se parlando con il tale voglio dirgli qualcosa, (questo qualcosa sia x), allora gli dico qualcosa, (e questa sia p), dicendo faccio qualcosa, produco del senso, delle connessioni, delle implicazioni, dei rinvii ad altro che sono prodotti dal dire p nell’intendere dire x (e tutto questo sia q), allora, producendosi q dicendo p che dice x, mi trovo di fronte a questa q che è altro tanto da x quanto da p, ma la q che si è prodotta dicendo mi dirà propriamente che cosa ho fatto dicendo p (che dice x), e quindi mi dirà anche che cos’è x, dal momento che non ho nessun altro elemento per potere stabilire che cosa sia x se non ciò che si produce come effetto del dirla. Non so che cosa sia x, cioè non so che cosa ho voluto dire, quale cosa ho detta finché non è detta, solo allora, producendosi q, posso sapere qualcosa di questa x, cioè di ciò che ho inteso dire.
8.10 Ma se intendo dire x, come posso non sapere che cos’è o di che cosa si tratta? Non potrei dirla in nessun modo, e quindi occorre che sappia già che cosa intendo dire. Ma se anche lo sapessi soltanto dopo che ho detto qualcosa, allora ciò che mi ha consentito di giungere a dire una x precedente mi consente anche di sapere qualcosa di questa x, e quindi, quando intendo dire x, comunque la si voglia considerare ne so già qualcosa, necessariamente.
8.11 Questa è un’obiezione legittima, che merita di essere considerata. Abbiamo detto che soltanto producendosi q posso sapere qualcosa di x, quindi posso sapere di x. Sapendo di x attraverso q, questo qualcosa che so costituirà ciò che mi muoverà a dire una y che intenderò dire nel prosieguo del discorso. Dunque intendo dire y, ma che cosa so di questa y esattamente? Per saperne qualcosa devo trovarmi a dirne e quindi a produrre un’altra proposizione, chiamiamola z, che mi dirà che cosa ho fatto dicendo z che dice y. A questo punto so qualcosa di y. Ma torniamo all’obiezione precedente considerandola più attentamente. La questione centrale dell’argomentazione è se so che cos’è x prima che questa x si dica, cioè prima che si produca la q che mi consente di saperne qualcosa. Il fatto che x si dica, comporta necessariamente che sappia che cos’è x oppure no? Se si, allora la x che intendo dire e la x che dico sono la stessa cosa. Allora so x perché la combinatoria in cui si è detta ha prodotto del senso, e quindi so che cos’è x. Ma questa x è stata prodotta da ciò che ha prodotto la proposizione q, e pertanto il senso sarà quello che la proposizione q impone. Ora, come so che ciò che intendo dire, cioè x, è la stessa x che ho intesa dalla proposizione q? Per saperlo devo dire la x, ma dicendola si avvia lo stesso processo attraverso il quale si produce un’altra proposizione che mi dirà che cosa ho detto dicendo x, e pertanto non mi sarà possibile accedere alla x che ho intesa precedentemente, non potrà non trasformarsi nel dirla ancora, e sarà necessariamente un’altra cosa. Occorre distinguere, come in parte abbiamo già fatto, tra il significato, cioè la procedura che mi consente di potere usare il linguaggio, e il senso, cioè ciò che si produce come effetto dell’uso del linguaggio, cioè altre parole. Perché qui il significato non dice propriamente nulla, salvo porre una regola per l’utilizzo del linguaggio, come dire che il significante "matita", di per sé non significa nulla anche se ha un significato, cioè un rinvio che è una procedura per potere proseguire a parlare, per cui quando dico "matita" non faccio ancora nulla salvo enunciare una procedura linguistica. Un lessema, o un iposema seguendo la denominazione di Lucidi, esiste in quanto è un significato, una regola per giocare il gioco del linguaggio. Diciamo anche che esiste un significato ma che non possiamo significarlo, cioè che non possiamo farlo funzionare, non possiamo applicarlo a se stesso, come ciascuna procedura linguistica.
8.12 Quanto abbiamo affermato fino a qui dice che non c’è possibile gestione o familiarità con la parola, ma che ciascuna volta mi trovo a confrontarmi con qualcosa che non avevo previsto e che, per la prima volta, occorre che consideri. Ma il considerarla che cosa comporta se non l’accogliere ciò che si sta dicendo nel mio discorso, e quindi accogliere le proposizioni che si producono e che mi mostrano altro rispetto a ciò che stavo dicendo o pensando di dire?
8.13 Qui si affaccia una questione di notevole interesse, perché a questo punto occorre considerare che cosa sia ciò che dico di sapere ma che non so dire. È possibile che sappia qualcosa ma allo steso tempo non lo sappia? Che cosa so esattamente, in questo caso? E soprattutto che cosa intendo con "sapere"? È evidente che il significante "sapere" mostra qui due differenti accezioni, poiché sono altrettanto certo di sapere qualcosa quanto di non sapere dirla; il mio grado di certezza non è minore, è soltanto differente il criterio che utilizzo per il significante "sapere". Tuttavia pare che il tentativo sia quello di ricondurre la prima accezione di "sapere" alla seconda, quella per cui so e so anche dire ciò che so. Ma cosa intendiamo dicendo che so dire ciò che so? Che posso aggiungere altri elementi a quello che considero, in modo tale che possa pensare che questi ultimi procedano dal primo consequenzialmente, cioè siano da questo deducibili qualunque sia il criterio che mi trovi a utilizzare. Allora dire che so, ma che non so dire ciò che so, comporta che non sappia aggiungere nessun elemento che possa accogliere consequenzialmente a quello considerato. Se per esempio dico che so che una certa questione ha una soluzione, ma non so dire quale, che cosa sto dicendo? E come lo so che ha una soluzione? Posso sbagliarmi? Che cosa mi sto chiedendo con questo?
8.14 Dunque posso dire che una certa questione ha una soluzione ma non so aggiungere nessun elemento consequenziale a questa affermazione. A questo "sapere" non segue nulla. E se la condizione per potere dire che so fosse proprio quella per cui a questo sapere non segua nulla? In effetti, se a questo sapere seguisse qualcosa allora potrei dire questo qualcosa, e quindi non potrei dire che "so" nello stesso modo, potrei dire di sapere e dire ciò che so.
8.15 Ma "so" soltanto ciò che posso dire? Parrebbe di si, che sappia cioè soltanto ciò che sto dicendo che so, nulla di più, eppure la sensazione è che sappia qualcosa di più, ma che questo qualcosa sia inaccessibile al dire. Abbiamo detto di una sensazione, un termine che occorre precisare perché forse è la questione centrale in ciò che andiamo dicendo. In effetti che sappia senza sapere dire è una sensazione. Che cosa comporta parlare di sensazione, che cosa intendiamo con questo termine? Una sensazione può dire ciò che avverte? Se lo dicesse sarebbe ancora una sensazione oppure no? Riflettiamo meglio. Se dico che sento caldo, lo sto dicendo evidentemente, ma sto dicendo il calore che sento o la "sensazione" che mi stia accadendo qualcosa, in questo caso il sentire caldo? Ma il "sentire" di cui è fatta la sensazione posso dirlo oppure no, posso trasformare il calore che sento in parole, e quali, e saranno proprio il calore che sento o saranno altro? Ma non sento nessun calore fuori dalla parola, non posso sapere nulla fuori dalla parola, non potrei neppure chiedermi se sento qualcosa oppure no, e pertanto dire che sento il calore fuori dalla parola non significa assolutamente nulla. Allora se sento il calore perché mi trovo nella parola, allora "sento" qualunque cosa perché mi trovo nella parola, e quindi che abbia la sensazione di sapere qualcosa posso dirlo per le stesse condizioni.
8.16 La sola cosa che possiamo dire della sensazione è che sia un’attesa delle parole che possano, consequenzialmente, aggiungersi al significante "so", parole che non conosco evidentemente, ma la sola cosa che so con certezza è che non possono non esserci. La questione è che so che non possono non esserci non perché conosco quali parole seguano questo "so", ma perché so che ciascuna parola costruisce un’altra parola, in questo senso so che non può non esserci, perché sono preso continuamente nelle parole che si dicono. Dire che so ma che non so dire ciò che so vale allora ad affermare che si avverte l’esigenza di costruire altre parole, conseguenti al "so" che le parole precedenti hanno prodotte. Per il momento nulla più di questo.
8.17 L’itinerario intellettuale di cui in queste pagine ci stiamo occupando è indicato anche dal modo in qui ci stiamo occupando di queste questioni, vale a dire il procedere tenendo conto che ciò che si dice procede da ciò che precede in modo consequenziale. Consequenziale perché qualunque cosa dica questa non verrà da nulla, ma da ciò che precede nel modo indicato più sopra, per cui tale itinerario sarà costruito dalla consequenzialità delle cose che si vanno producendo. Ma quale consequenzialità, poiché posso intendere qualunque cosa con questo termine. Si tratta di precisare che la consequenzialità di cui stiamo parlando non è altro che la deduzione da cui siamo partiti considerando che sto parlando, e che non posso non farlo, sarà consequenziale allora tutto ciò che non può non dirsi, tutto ciò che non può non accogliersi nel discorso, nel senso che non può negarsi. Ma non tutto è necessariamente consequenziale, molto di ciò che si dice non lo è affatto, almeno nell’accezione appena indicata. Non per questo deve essere eliminato naturalmente. Si tratta soltanto di tenere conto (e di potere farlo soprattutto) che ciò che si sta dicendo non è affatto necessario, pure essendo una produzione linguistica non è necessario, quindi è negabile. Dire che qualcosa che si sta dicendo è negabile comporta che non potrà darsi l’assenso a questa cosa, qualunque essa sia, in quanto non sarà in nessun modo provabile, ma non soltanto, anche perché la stessa nozione di provabilità non potrà trovare alcun criterio su cui reggersi. Allora a queste condizioni potrò anche confrontarmi con ciò che sto dicendo in quanto produzione del mio discorso, qualunque essa sia, e non pensare che il mio discorso sia soltanto la manifestazione di una realtà extralinguistica, ma anzi, pensare che non lo sia affatto, e che pertanto ho sempre la totale responsabilità di ciò che dico.
8.18 La responsabilità dunque. Dicendo di essere responsabile di ciò che dico affermo che ciò che il discorso in cui mi trovo produce non ha altro referente se non ciò che lo precede, e dicendo questo mi trovo a considerare che qualunque cosa possa immaginare fuori dal discorso in cui mi trovo questa mi costringerà a pensare che anche questa considerazione non è fuori dal discorso in cui mi trovo, e così via all’infinito, e pertanto che non posso uscire dal linguaggio. Se non posso uscire dal linguaggio allora non c’è discorso che possa farsi o pensarsi che possa agganciarsi a qualcosa che non sia, di nuovo, il mio discorso. Non c’è via d’uscita salvo, come detto in precedenza, compiere un atto di fede, allora potrò sicuramente credere qualunque cosa o il suo contrario, sarà sufficiente che non mi chieda perché sto credendo, o se ciò che credo sia vero oppure no, perché allora incontrerei l’eventualità di considerare quale criterio debba utilizzare per credere, accorgendomi che il credere è soltanto una procedura stabilita dalla credenza che qualcosa possa darsi fuori dalla parola, e nulla più di questo.
8.19 Abbiamo illustrato in queste pagine un modo di confrontarsi con il discorso, un modo forse insolito, ma le considerazioni fatte nelle sezioni precedenti ci impediscono di fare altro da ciò che stiamo facendo e cioè accogliere mano a mano ciò che si va facendo in ciò che si dice. Ma accogliendo questo, accolgo anche necessariamente che in quanto va dicendo, il discorso in cui mi trovo, non può appellarsi a null’altro se non a se stesso per reperire un senso, qualunque esso sia.
8.20 Consideriamo che la parola non termini, in questo caso non si darà la possibilità che qualcosa possa, a maggior titolo di qualunque altra, affermarsi come vera o reale, e quindi ciò che dico dovrà sempre confrontarsi con un altro elemento che interviene nel mio discorso come ciò che "significa" ciò che vado dicendo. Se dico una qualunque cosa, di fronte all’eventualità di pensare che questa cosa che dico sia vera, sia cioè fuori dalla parola in quanto esistente di per sé, potrò considerare che non sto facendo nulla se non tengo conto di ciò che si produce in ciò che dico, e non sto facendo nulla perché se non mi accorgo, cioè se non tengo conto di ciò che si produce in ciò che dico, allora questo "qualcosa che si produce" non si produce. Non è propriamente un gioco di prestigio, ma soltanto la considerazione che perché qualcosa possa darsi nella parola occorre che la dica, e che dicendola ne accolga l’esistenza in quanto parola, e non in quanto altro dalla parola. Per quanto detto nelle pagine precedenti non possiamo dire che qualcosa esista prima di essere detta, e quindi non posso dire che qualcosa si produca comunque, affermare questo non significa nulla, non posso utilizzarlo in nessun modo, posso soltanto crederlo.
8.21 A che scopo credere? Se credo posso credere qualunque cosa, quindi ciò che mi pare, posso credere che sia giusto credere, che sia indispensabile credere, posso credere che le cose abbiano un significato che le trascende, posso credere anche che non sia così, posso credere che le cose esistano per motivi imperscrutabili, posso credere che esistano motivi imperscrutabili, insomma, se credo, lo stesso credere mi legittima a credere qualunque cosa o il suo contrario.
8.22 Non è del tutto escluso che abbiamo forniti degli elementi e degli strumenti per potere cessare di credere, se così sarà stato, allora avremmo ottenuto un risultato straordinario, se così non sarà stato, non importa. Sarà stato comunque straordinario l’avere considerate le cose che si sono considerate e quindi l’averle poste nella parola. Poiché non si è trattato in effetti di compiere un atto di cui potere dire che sia stato utile per qualcosa o per qualcuno. L’idea che possa darsi qualcosa di meglio non ci interessa, non sappiamo che cosa è meglio, non sappiamo da che cosa salvarci e neppure in quale direzione procedere. Stiamo procedendo, questo solo possiamo dire, e stiamo procedendo avvalendoci di un criterio che non è né migliore né peggiore di qualunque altro, è soltanto non negabile dalle regole e dalle procedure linguistiche, quelle stesse che ci hanno consentito di fare queste considerazioni.
8.23 Ma è praticabile quanto siamo andati dicendo? Tutto ciò che è stato pensato negli ultimi tremila anni non va in questa direzione, non considera quasi nulla di tutto questo, essendosi stabilito sulla certezza che la parola non sia arbitraria e che non lo sia ciò che la parola indica, e chiamando questo la realtà delle cose. Eppure si dà qualcosa di non arbitrario, e cioè il fatto che sto parlando, questo mi si impone, che lo voglia oppure no. Si è trattato di considerare questo fino alle estreme conseguenze, cioè non dando nulla per acquisito, nulla al di fuori di ciò che si dice e che non può non dirsi, se si parla.
8.24 Ciò che abbiamo chiamato Sofistica è il praticare quanto abbiamo detto fino a qui, e cioè il non potere non tenere conto, in ciascun atto di parola, che non è pensabile alcun altro elemento fuori dalla parola per potere muoversi, pensare e fare. Praticare questo vale a incontrare nella parola ciò per cui e in cui esisto. E considerare che qualunque altro modo possa pensare, questo mi ricondurrà sempre alle parole con cui lo sto dicendo, e quindi pensando.
8.25 La Sofistica è l’atto di parola nelle sue estreme conseguenze, cioè l’atto di parola in quanto gesto attraverso cui qualunque cosa esiste. Con sofista intendiamo chi accoglie la parola e tutto ciò che questo comporta, vale a dire l’acquisire quanto la parola instaura e produce dicendosi, non potendo non considerare che ciò che la parola produce sono altre parole, e che queste altre parole non possono produrre se non altre parole e così di seguito, sempre cogliendo in tutto questo l’aspetto estremo, cioè la non mediabilità dell’atto di parola, il suo accadere tanto imprevedibile quanto inarrestabile, non derivabile né significabile fuori dalle sue stesse procedure. Questo comporta che se voglio sapere quello che dico, quello che sta accadendo mentre dico, devo necessariamente proseguire a dire aggiungendo altre parole, poiché soltanto queste produrranno il significato di ciò che dico, diranno che cosa sto dicendo. Non cercandone quindi il significato altrove se non in ciò che dico avrò sempre e inevitabilmente in ciò che sto dicendo la sola risposta possibile a qualsiasi domanda possa porsi nel discorso in cui mi trovo. Non essendo la risposta altro che il rinvio di ciò che sto dicendo a ciò che si dirà. Questo non significa che creda la risposta, dice soltanto che l’accolgo come elemento linguistico, che mi interroga ulteriormente, che mi costringe a proseguire. In questo senso abbiamo detto che la parola non termina, come constatazione della struttura della parola che accolgo come tale, cioè in quanto atto di parola.
8.26 Portando il discorso scientifico, che è oggi il discorso occidentale, alle sue estreme conseguenze, questo si dissolve, si dissolve necessariamente ma questa dissoluzione non è un gran guaio, anzi, c’è l’eventualità che questa dissoluzione comporti la possibilità di potere accorgersi di ciò che si fa parlando, e cioè accogliere la responsabilità di ciò che si dice. Se racconto qualcosa o dico qualcosa o esprimo un giudizio, qualunque esso sia, allora posso pensare che le cose che dico rappresentino uno stato di fatto che è fuori dalle cose che dico, le mie parole saranno allora soltanto segni delle cose, cioè mostreranno le cose. L’esistenza delle cose in quanto tali è sempre stata necessaria per garantire che la parola non vaghi sospesa nel nulla. Che cos’è "la cosa"? Ciascuna riflessione intorno alla cosa ha data questa per acquisita, come fuori dalla parola. Cosa intendo dicendo fuori dalla parola? Intendo dire questo, che la parola non la modifica, non la trasforma, può dirla, può enunciarla, può dirla bene, può dirla male ma non può toglierla, perché esiste di per sé. Ciò che inincominciamo a considerare è l’eventualità che non sia affatto così, e cioè non tanto che la cosa non esista fuori dalla parola, non soltanto questo, ma che fuori dalla parola non potrei neppure chiedermi se esista oppure no, la questione non potrebbe porsi in nessun modo. E allora posso dire che esiste lo stesso? E come, e con che cosa? Cosa sto dicendo a questo punto dicendo che esiste? L’esistenza esiste di per sé oppure no? Cosa dico dicendo che qualcosa esiste?
8.27 Stiamo sempre più delineando la questione del sofista. Se tutto questo conduce, o può condurre all’impossibilità strutturale di credere, allora in questo senso si tratta di un percorso senza ritorno, cioè non ci saranno più né si daranno più le condizioni perché sia possibile credere una qualunque cosa o il suo contrario. Che non ci siano più queste condizioni non è cosa da poco, perché indica non tanto che non crederò più a questo o a quest’altro, ma che non potrò credere. Perché tornare indietro varrebbe qui la possibilità di credere qualcosa, ma come posso credere qualche cosa se colgo, quindi constato immediatamente e inevitabilmente che questa cosa non è provabile, non può dirsi né darsi come vera, e quindi rimane assolutamente opinabile. È qualcosa che dico, che posso accogliere, che posso considerare, che posso intendere, posso ascoltare, posso svolgere, interrogare, ma non credere. Questo è proprio barrato. Ma c’è questa eventualità: immaginiamo di trovarci di fronte a una affermazione, una qualunque, a questo punto la posizione che si assume generalmente è quella di domandarsi se è così o non è così, dicendo che cosa con questo? Do il mio assenso oppure no? Se lo do allora confermo che è così, che è vero, se non lo è, se non lo do, allora dico che non è vero, posso anche trovarmi nel dubbio naturalmente, ma non mi porterebbe molto lontano, perché il dubbio che cosa mi dice? Semplicemente che devo ancora stabilire quale delle due sia vera oppure no, ma muove comunque dalla necessità che una delle due lo sia necessariamente. Oppure nessuna, ma allora un’altra sarà vera da qualche altra parte, cioè comunque occorre che ce ne sia una vera, non importa dove né perché, perché in caso contrario non potrei dubitare, infatti dubiterei di che? Ora, che io dia il mio assenso oppure no cambia poco rispetto alla struttura che andiamo considerando, in entrambi i casi muovo da un’idea e anche da un criterio che mi dice che do il mio assenso a qualcosa che ritengo vera e quindi da quel momento è così. Supponiamo invece che io non solo non dia il mio assenso ma neanche non lo dia, nel senso che non mi si ponga affatto la questione di sapere se questa cosa sia così oppure no, se ciò che mi viene detto costituisce una prova oppure no, se cioè devo necessariamente credere questa cosa oppure no, perché se è provata vera e riconosco la validità di questa prova allora non posso dire che non sia vera. Allora dunque supponiamo che questa cosa che viene affermata non mi chieda più il consenso o il dissenso, semplicemente si ponga come un elemento che interrogo, non per sapere se è vero o falso, perché so già che non potrà provare né l’una cosa né l’altra, lo interrogo per sapere che cosa ha da dire, che cos’altro può aggiungere. Provare che una cosa è vera è in un certo senso pensare di avere trovata l’ultima parola, e poco importa che questa sia provvisoria, perché si immagina che ad un certo punto possa darsi quella ultima, effettivamente ultima. Ma qui ci interessa la struttura, non ciò che si crede in quanto tale. Dunque interrogare un elemento è lasciare che questo elemento si inserisca nella parola e, inserendosi nella parola produce altre parole, produce altri significanti. Se immagino che sia vera allora è così, ma una volta che ho stabilito che è così la questione è chiusa, se ho creduto questo. Posso invece trarre moltissimi elementi da questa cosa lasciandola dire, in quanto la inserisco nel discorso che mi riguarda e la considero. Cosa produce allora, quali altre questioni apre, dove mi porta? La questione dell’itinerario si configura qui come il percorrere questa serie di connessioni, di rinvii, perché qualunque cosa trovi nel mio discorso mi interroga, mi si impone come interrogazione. Perché se un’affermazione non è né vera né falsa, né può essere né l’una né l’altra, allora è un significante in prima istanza, un elemento linguistico che in quanto tale dice, dice provocando un rinvio, provocando altri significanti e cioè costringendomi a proseguire a dire. Ed è esattamente questo che segna, per così dire, l’itinerario, il trovarsi a proseguire a dire lungo questo percorso. Se credo che una cosa sia necessariamente in un certo modo allora cesso di interrogarla, se credo che un criterio di verifica sia quello necessario, questo criterio sarà creduto e quindi tutto ciò che crederò continuerà a confermare questo criterio e a verificarlo. Altro è ovviamente considerare questo criterio come una procedura linguistica, ma allora questa procedura non sarà più ciò che mi consente di raggiungere la verità o di orientarmi in quella direzione, non può farlo perché esclude la possibilità che possa darsi la possibilità che possa darsi la verità, letteralmente, ma mi dice unicamente che è una procedura perché io prosegua a parlare, fatta soltanto perché il discorso non si fermi, questo solo possiamo dire, tutto il resto è totalmente arbitrario, cioè possiamo crederlo oppure no, a piacere. Dunque il discorso continua a prodursi, a produrre se stesso, ma fa soltanto questo? O fa altro, più nobile e più degno? Possiamo dire che intanto mi consente di farmi questa domanda, che non è poco tutto considerato. E consentendomi di fare questa domanda che altro consente? Consente di aggiungere altri elementi. Sembra non soltanto che consenta questo, ma imponga questo in quanto ciascun elemento necessariamente rinvia ad un altro. E dico necessariamente, non arbitrariamente, se non rinviasse a nessun altro sarebbe isolato dalla struttura del linguaggio, sarebbe fuori dalla parola, se fosse fuori dalla parola non sarebbe un elemento del linguaggio e pertanto la questione non potrebbe porsi. Si tratta di considerare allora che cosa avvenga lungo questo itinerario che è anche una ricerca, un andare intorno a ciò che il discorso mano a mano impone. Occorre qui una precisazione perché potrebbe obiettarsi: ma allora qualunque cosa va bene? No, non qualunque cosa. Che cosa non va bene, cioè non interessa lungo questo itinerario? Ciò che pone se stesso come fuori dalla parola, cioè ciò che pone se stesso come elemento senza rinvii, come rinvio ultimo e quindi come un elemento fuori dalla parola, perché altrimenti si porrebbe come elemento di una catena, connesso e dipendente da procedure linguistiche per cui esiste. Se porto alle estreme conseguenze la struttura del linguaggio constato che non soltanto non posso dire qualunque cosa, ma che tutto sommato non sono tantissime le cose che posso affermare. Posso dire ovviamente quello che voglio, lo dico continuamente infatti, ma le cose che posso affermare effettivamente, quali sono, quali sono le cose che non posso non affermare? Quelle che non posso non dire, quelle che necessariamente sono costretto a dire per il fatto stesso che sto parlando, e non posso non farlo dal momento che sto parlando nel chiedermi queste cose. Dunque ciò che non posso non dire, anziché ciò che posso provare o dimostrare, ma ciò che non posso non ammettere, perché non ammetterlo comporterebbe non accogliere il fatto stesso che sto facendo queste considerazioni, cioè non accogliere il fatto che sto parlando. In questo senso può ripensarsi il principio di non contraddizione. Potrei parlare senza il principio di non contraddizione? C’è l’eventualità che non possa, perché allora dicendo che x e che non x, il discorso in cui mi trovo non incontrerebbe nessuna direzione, quindi nessun rinvio, direi che ciò che dico nega se stesso, e quindi non farei nulla, come se dicessi che non sto dicendo. Se dico "nessun elemento potrebbe essere accolto", non sto dicendo "nessun elemento non potrebbe essere accolto", non posso dirle entrambe, o l’una o l’altra. Dicendole entrambe si annullerebbero, non direi niente, non direi niente in quanto il mio discorso non prenderebbe nessuna direzione, si arresterebbe. Il principio di non contraddizione impedisce che il discorso si arresti, perché non posso affermare un elemento mentre lo nego. E questa è una procedura linguistica, non è un problema del pensiero. Impedisce soltanto che la parola possa escludere se stessa dicendosi. Che cosa mi impedisce di fare il principio di non contraddizione? Di affermare che non sto parlando. Come posso affermarlo se non sto parlando? Tutti i paradossi hanno questa struttura, quella di un elemento che nega se stesso mentre per negarsi deve affermarsi. Il non ritorno è allora la struttura del principio di non contraddizione, nel senso che ciò che andiamo dicendo conduce inevitabilmente a una struttura tale che impedisce di credere, esattamente così come il principio di non contraddizione esclude e vieta che io possa negare ciò che sto affermando. Allora una credenza o una superstizione hanno questa struttura, cioè affermano qualcosa che di per se stesso si nega? In effetti che cosa fanno esattamente? Affermano di sé di essere assolutamente veri senza avere nessuna possibilità di fornire alcun criterio per poterlo affermare. È una struttura paradossale. Afferma una cosa con assoluta certezza impedendo di potere provare questa certezza attraverso gli stessi criteri per i quali ho potuto affermare che è assolutamente certa. Il non ritorno ha dunque questa struttura, quella del principio di non contraddizione così come l’abbiamo esposto, e cioè ciò che impedisce di affermare che non sto parlando. Ma posso dirlo evidentemente, tant’è che l’ho detto, ma il fatto che lo dica che cosa mi induce a pensare se non che ciò che ho detto è una variante, una metalessi, una variazione semantica. In effetti dire che non sto dicendo non potrebbe dirsi, si dice a condizione che esista una struttura per cui non possa dirlo e che pertanto, non potendo dirlo, il dirlo costituisca una variante rispetto a questa impossibilità, tant’è che viene colta, come tutte le figure retoriche, appunto come una variante. Se non si desse un’invariante non potrei stabilire una variante, varierebbe rispetto a che? È un’altra procedura linguistica, come quella che mi costringe, dicendo "dopo", ad accogliere l’esistenza di un "prima", se no sarebbe dopo che cosa? Dopo qualcosa che viene prima, se no, "dopo" non significa niente, non mi dice nulla, cioè non posso farne nulla, quindi è nulla.
8.28 Abbiamo affermato che qualcosa non può dirsi ma che tuttavia si dice, cosa dobbiamo intendere con questo? Evidentemente, dicendo che non può dirsi diciamo qualcosa che riguarda l’impossibilità di potere affermarlo come fuori dalla parola, e in effetti non posso affermare di credere vera qualcosa, in quanto per potere affermarla vera devo potere esibire un criterio di verifica, cosa che non posso fare per i motivi esposti più sopra, e pertanto questo "non posso", riguarda l’impossibilità di stabilire ciò che la mia affermazione di verità dà, necessariamente, per stabilito. In altri termini, per potere dire di qualcosa che è vero, devo possedere un criterio che mi consenta di dire che è vero, altrimenti dire che è vero non significherebbe assolutamente nulla, mentre se dico che è vero intendo dire qualcosa, e esattamente che ciò che sto dicendo è sostenuto da un criterio che mi consente di affermare che ciò che affermo è vero, ma questo criterio che viene dato implicitamente e che mi consente di potere affermare questo non esiste, nel senso che per mezzo delle stesse procedure per cui affermo che la tale cosa è vera, cioè quelle che mi dicono che se dico che una cosa è vera allora posso anche provarlo, non posso provare alcunché, poiché mi trovo di fronte al regresso all’infinito che mi impedisce di soddisfare proprio quei requisiti che dovrebbero sostenere la mia affermazione di verità di ciò che credo.
8.29 Allora affermare ciò che non posso affermare vale a formulare la forma del paradosso, cioè una affermazione che afferma di sé di non potere affermarsi, che dice di sé di non potere dirsi. Affermo l’esistenza di un principio di verità a cui mi appello, e allo stesso tempo non posso non affermare che questo principio di verità non c’è. Non c’è utilizzando quelle stesse regole e procedure che mi consentono di dire che una certa cosa è vera. Posso pronunciarla evidentemente, ma pronunciandola enuncio la forma del paradosso, che mi dice che ciò che sto affermando non può affermarsi, ma che tuttavia si dice, e pertanto ciò che sto dicendo non può essere sostenuto per via di quegli stessi criteri e di quelle stesse procedure che mi consentono di potere dire che qualche cosa può essere stabilita. Affermando questo allora compio un’operazione retorica, inserisco una variante rispetto all’invariante, che in questo caso mi dice che ciò che sto affermando non è affermabile per quelle stesse procedure per cui posso utilizzare il termine "affermare". Una variante quindi che produrrà effetti di senso e altre figure retoriche, che aggiungeranno altri elementi a ciò che dico e che mi consentiranno di procedere. Abbiamo considerato in precedenza che cosa accade considerando ciò che si dice come figura retorica anziché un dato di fatto o una verità, più o meno provvisoria la si voglia considerare, perché per quanto la si consideri provvisoria proprio questo fatto mi costringe ad ammettere l’esistenza di una che non lo sia affatto, e rispetto a cui quella sarebbe provvisoria. Ci stiamo imbattendo continuamente lungo queste considerazioni nella struttura di cui stiamo parlando e che ci riporta incessantemente a tenere conto delle procedure che ci consentono di parlare, parlando. Dicevamo all’inizio che questa ricerca procede esattamente così come dice di procedere, mostrando in atto la praticabilità di questo procedere che si esibisce dicendosi. Allo stesso modo potremmo considerare che quanto abbiamo detto instauri la non possibilità di credere di potere uscire dalla struttura del linguaggio, poiché ciascuna credenza crede in definitiva di potere uscire dal linguaggio. Si afferma cioè come un paradosso che dice di sé di fare ciò che per potere fare deve necessariamente non potere fare, e cioè uscire dal linguaggio, dalla parola. Questione curiosa questa poiché ci mostra che ciò che si dice è sempre necessariamente un atto linguistico, qualunque cosa dica o faccia questa sarà sempre una costruzione della parola, né potrà essere in alcun modo altro.
30. Con queste considerazioni siamo giunti al termine della ricerca intorno all’itinerario intellettuale, ciò che rimane da dire riguarda una riflessione intorno al sofista, che ci impegnerà nella successiva sezione. Quanto detto ci pare sufficiente a consentire di riflettere intorno al linguaggio, aggiungendo forse qualche elemento in più, tale per cui sia possibile accostarsi alla parola potendone trarre maggiore profitto.