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31 agosto 2022

 

I presocratici di Diels-Kranz

 

Questa sera leggeremo Parmenide. A pag. 451. Parmenide, figlio di Pireto di Elea, fu discepolo di Senofane. Teofrasto dice nell’Epitome che questo fu discepolo di Anassimandro. Tuttavia, essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo quanto afferma Sozione, Parmenide ebbe legami con il pitagorico Aminia figlio di Diochete, il quale era povero, ma era uomo di grade virtù e valore. Ora, vediamo brevemente la dottrina di Parmenide. Brevemente, perché leggendo poi il poema diremo altre cose. A pag. 461. Parmenide sembra ragionare con maggiore oculatezza. Poiché egli ritiene che accanto all’essere non ci sia affatto il non-essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno e null’altro che essere…; costretto, peraltro, a tener conto dei fenomeni, e supponendo che l’uno sia secondo la ragione, mentre il molteplice secondo il senso, egli pure pone due cause e due principi: il caldo e il freddo, vale a dire il fuoco e la terra; e assegna al caldo il rango dell’essere e al freddo il rango del non-essere. A pag. 463. Quei filosofi, dunque, poiché non ammettono l’esistenza di alcun altro essere oltre la sostanza sensibile, e poiché, d’altra parte, per primi pensavano che esistessero realtà immobili, se doveva esserci una conoscenza ed una intelligenza, trasferirono in tal modo alle cose sensibili ragionamenti che derivano da quelle. Sulla base di questi ragionamenti, non prendendo in considerazione la sensazione e disprezzandola, nella convinzione che bisogna seguire il ragionamento, dicono che il tutto è uno e immobile, e alcuni che è infinito; infatti il suo limite verrebbe a confinare con il vuoto. Alcuni, dunque, si sono espressi sulla verità in questa maniera e per queste cause. E, inoltre, sulla base dei ragionamenti, sembra che queste siano le conseguenze; ma, sulla base delle cose, pensare in questa maniera è quasi una follia. – Aristotele biasima Parmenide e i suoi seguaci in quanto non ritenevano che non si dovesse affatto rivolgere attenzione all’evidenza delle cose, bensì alla sola consequenzialità dei ragionamenti. E questo ci introduce al poema. A pag. 465. Il ragionamento di Parmenide – come riferisce Alessandro – viene esposto da Teofrasto nel primo libro della Storia della Fisica nel seguente modo: “ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno”. Eudemo, invece, lo espone in questo modo: “ciò che è oltre l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno”. Se Eudemo abbia scritto in questo modo espressamente in qualche luogo, non so dirlo; ma nella Fisica egli scrive su Parmenide queste cose, da cui è forse possibile ricavare quanto si è detto: “Non sembra che Parmenide dimostri che l’essere è uno, neppure se gli si conceda che l’essere si dice in un solo senso, se non per il predicato della sostanza di ciascuna cosa, così come uomo si predica degli uomini. E nella definizione di ciascuna cosa particolare la definizione dell’essere risulterà una sola e la medesima in tutte le cose, come la definizione di animale in tutti gli animali. A pag. 477. Parmenide, discepolo di Senofane, giudicò negativamente il discorso opinativo, quello che dipende da premesse deboli, e stabilì come criterio di verità quello scientifico, ossia quello irrefutabile, respingendo anche la fiducia nelle sensazioni. All’inizio del suo libro Sulla natura, scrive infatti: “le cavalle… vera certezza”. … In questi versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, riferendosi agli impulsi e alle brame irrazionali dell’anima, e che esse procedono per “la via che dice molte cose e che appartiene alla divinità”, ossia seguendo la speculazione secondo il ragionamento filosofico, ragionamento che fa da guida come dea e conduce alla conoscenza di tutte le cose. A pag. 479. Leggiamo il poema. Potremmo quasi dire che è stato il primo testo di fisica dell’umanità. Proemio. Le cavalle mi portarono fin dove il mio desiderio vuol giungere, / mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, / che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l’uomo che sa. Nell’avvio Parmenide dice rispetto al suo progetto: riuscire a sapere come stanno le cose, quindi, la verità. Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle / tirando il mio carro, e fanciulle… Le fanciulle sono i pensieri. …indicavano la via. / L’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, / infiammandosi – in quanto era premuto da due rotanti / cerchi da una parte e dall’altra –, quando affrettavano il corso nell’accompagnarmi, / le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte, / verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo. / Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno.... Molti si sono sbizzarriti sull’interpretazione di questo passo: i due sentieri della Notte e del Giorno. Molti pensano alludesse al sentiero del Giorno come la via dell’essere, il sentiero della Notte come la via del non-essere, però, non è così perché anche la Notte è qualcosa. …con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra; / e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti. / Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono. / Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole, / con accortezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello / senza indugiare togliesse dalla porta. Un dettaglio interessante è che per giungere al sapere, alla sapienza, Parmenide si sia affidato a qualcun altro e non soltanto alle proprie forze: ha dovuto rivolgersi alla Dea. Certo, sono ripresi miti antichi, che allora erano presenti, ma rimane il fatto che ha avvertito la necessità di appoggiarsi a qualcuno che lo sorreggesse e lo avviasse, un po’ come Dante con Virgilio. Cosa rimasta per lungo tempo: la necessità di qualcuno che indichi il cammino, come se avvertisse l’impossibilità di arrivarci da solo. E questa, subito aprendosi / produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare / nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi / fissati con chiodi e borchie. Questa porta era ben chiusa, non tutti potevano entrarci: ci voleva la Dea che concedesse il passo. Di là, subito, attraverso la porta / diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle. / E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra / prese… È il gesto tipico della mamma con il bambino. …e incominciò a parlare così e mi disse: / “O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, / con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, / rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere / questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini –, / ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda / e il solido cuore della Verità ben rotonda / e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza. Deve sapere tutto: ciò che è vero e ciò che non lo è. Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono / bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso”. Anche le opinioni sono. Fr. 2. Orbene, io ti dirò – e tu ascolta e ricevi la mia parola / quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare: / l’una che “è” e che non è possibile che non sia / è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità / l’altra che “non è” e che è necessario che non sia. / E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende. / Infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile, / né potresti esprimerlo. Quindi, sta ponendo qualcosa di impossibile. Non è un divieto, come quello di Platone e di Aristotele di non interrogare oltre, che era un divieto palese; no, qui la Dea dice di una impossibilità, dice non è cosa fattibile, né potresti esprimerlo ciò che non è. …Infatti lo stesso è pensare e essere. Stiamo leggendo questo poema muovendo da questa affermazione, che io trovo centrale nel pensiero di Parmenide, e cioè che lo stesso è pensare e essere. Generalmente, non si muove da questa affermazione, non che non se ne tenga conto, ma non viene posta come il centro della questione, perché la questione è che l’essere è e il non-essere non è. Sì, certo, ma di questo essere in che modo ne parla Parmenide? Come lo intende? Cosa pensa quando pronuncia la parola essere? Ha in mente il pensiero, il pensare. Ma il pensare è il dire, è il linguaggio. Se muoviamo da qui, ecco che allora tutto diventa più semplice e chiaro. Prosegue così, ma torneremo su questo punto. Considera come cose che pur sono assenti, alla mente siano saldamente presenti… Come il ricordo di qualcosa, è assente e presente. Infatti non potrai recidere l’essere dal suo essere congiunto con l’essere… L’essere è congiunto con l’essere, quindi, non si può staccare. …né come disperso dappertutto in ogni senso nel cosmo, / né come raccolto insieme. Dice non potrai recidere l’essere dal suo essere congiunto con l’essere, cioè, dall’essere un tutto. Indifferente per me / il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno. Sembra evocare l’eterno ritorno di Nietzsche: ciò da cui prendo le mosse è ciò a cui ritorno sempre. Da che cosa prendo le mosse per fare qualunque cosa? Dal linguaggio, e lì ritorno sempre e comunque. È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è / il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare. Tenendo sempre presente che il pensiero e l’essere sono lo stesso, dice È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è, il nulla non è. Tenendo conto del fr. 3, dove dice che pensare e essere sono lo stesso, allora ecco che ci viene immediatamente in mente questo: ciò che non è, che lui dice che non si può dire, non si può rappresentare, non si può fare niente… questo non-essere, dalla cui ricerca si tiene lontano… Perché si tiene lontano? Intanto, dobbiamo considerare una cosa, e cioè che questo non-essere lui lo definisce come ciò che non è dicibile – non è cosa fattibile, né potresti esprimerlo, non puoi dirlo. Perché non posso dirlo? Perché è fuori del pensiero, fuori dall’essere, e l’essere sappiamo che è pensiero, quindi, il dire; se è fuori del dire, è chiaro che non lo posso esprimere. L’essere, in questa accezione, è il linguaggio, quindi, ciò che non è non è esprimibile in alcun modo, non porta da nessuna parte, non è dicibile. La questione, però, è che ne stiamo parlando, ma parlandone lo poniamo come qualcosa che è. È questo il senso che di tutta la questione Parmenide sembra porre: comunque sia questo non-essere non puoi dirlo perché, dicendolo, è essere, è qualcosa. Quindi, il non-essere non c’è, non è rappresentabile, non è raffigurabile, non è pensabile, non è esprimibile in nessun modo, perché se lo penso, se lo esprimo, non è più non-essere ma è essere. In questo senso non c’è il non-essere, non è pensabile; sarebbe il nihil absolutum, che non ha a che fare con il non-essere di cui parlava Eraclito. In effetti, Eraclito e Parmenide pongono due questioni differenti tra loro. Sono sempre stati considerati come opposti: l’uno, Parmenide, filosofo dell’essere immobile e l’altro, Eraclito, filosofo del divenire. Sì e no, perché Parmenide si occupa della condizione per cui qualcosa è, e occorre che sia pensabile, cioè, che sia pensiero, allora è, e, quindi, Parmenide ci dice che non c’è uscita dal linguaggio. Alla fin fine è di questo che si tratta, perché se io voglio pensare il non-essere, sto pensando qualcosa che è già essere e, quindi, non è più non-essere, è già un’altra cosa. Eraclito, invece, ha riflettuto su come funziona il linguaggio, e cioè ci ha detto che il linguaggio funziona con relazioni tra un elemento e il suo negativo. Il linguaggio è questo: continua relazione. Quindi, Parmenide ed Eraclito non è che si oppongono, ma dicono cose differenti: l’uno, Parmenide, dice che non c’è uscita dal linguaggio, l’altro, Eraclito, ci dice come funziona il linguaggio.

Intervento: …

È la relazione tra un elemento e il suo negativo. Come d’altra parte diceva Hegel, che ha preso tutto da Eraclito. Hegel diceva che tutto quello che aveva detto Eraclito lo aveva messo nella sua Scienza della logica. Fr. 7. Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono! Sempre tenendo presente che ciò che è, è pensiero, τό γάρ αὐτό νοεῖν τε χαί εῖναι (poiché lo stesso è pensiero e essere), non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono, cioè, che ci siano cose che sono fuori del pensiero, fuori del linguaggio. Fr. 8. Resta solo un discorso della via: / che “è”. Ma cosa è? È pensiero, è dire, è linguaggio. Su questa via ci sono segni indicatori / assai numerosi: che l’essere è ingenerato e imperituro, / infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine. / Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto… È il tutto, il concreto, di cui parlerà Severino. …uno, continuo. Quale origine infatti, cercherai di esso? / Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non-essere non ti concedo… Il linguaggio non può venire da qualcosa che non è linguaggio. …né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare / che non è. Non è possibile né dire né pensare che non è, perché se lo dico o lo penso già è, siamo già nell’essere, e il non-essere il fuori del linguaggio. Quale necessità lo avrebbe mai costretto a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla? Qui c’è Severino, naturalmente. Sono le proposizioni di Parmenide sulle quali Severino ha impiantato tutto il suo discorso. Perciò è necessario che sia per intero, o che non sia per nulla. Come dire: il linguaggio o c’è o non c’è. Se c’è possiamo parlare, dire, pensare; se non c’è, non c’è nulla, assolutamente nulla. E neppure dall’essere concederà la forza di una certezza che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Non c’è un altro linguaggio. Per questa ragione né il nascere / né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene, / ma saldamente lo tiene. Né il nascere né il perire, e questo è Severino: gli enti non vengono dal nulla né tornano nel nulla; dunque, sono eterni. La decisione intorno a tali cose sta in questo: / “è” o “non è”. Si è quindi deciso, come è necessario, / che una via si deve lasciare, in quanto è impensabile e inesprimibile… Di nuovo, è impensabile e inesprimibile, non posso dirlo, non posso dire il non-essere, non posso dire il non-linguaggio. Provate a dire senza linguaggio. È una contraddizione in termini. …perché non del vero / è la via, e invece che l’altra è, ed è vera. /…/ Infatti, se nacque, non è, e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro. Se nacque, non è: se viene dal nulla, è nulla anche lui. Così la nascita si spegne e la morte rimane ignorata. Cioè, non c’è divenire, non c’è nascita né morte, non c’è il venire fuori del nulla e il tornare nel nulla. E neppure è divisibile, perché tutto intero è uguale; / né se c’è da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito, / né c’è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere. Questo è il linguaggio, il tutto, il concreto. Non è che qualcosa è meno linguaggio o più linguaggio, è linguaggio. Dal momento in cui si avvia il linguaggio, come sappiamo, è già tutto, per funzionare deve essere tutto. Perciò è tutto intero continuo: l’essere, infatti, si stringe con l’essere. / Ma immobile, nei limiti di grandi legami / è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte / sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza. È immobile, nei limiti di grandi legami, cioè di ciò che se ne pensa, e che è senza un principio e senza una fine. Qual è il principio del linguaggio? Qual è la sua fine? Non posso esprimerlo, possiamo usare le sue parole: non lo posso né pensare né esprimere. È questo che ha indotto molti, Heidegger compreso, a pensare che nasciamo già nel linguaggio, che nel momento in cui siamo nati siamo già nel linguaggio. Come anche Peirce, che diceva che non esiste il primo segno, se qualcosa è un segno è perché ce n’è già un altro, perché il segno non è altro che relazione tra sé e un altro segno. E rimanendo identico, in sé medesimo giace, / e in questo modo rimane là saldo. Infatti, Necessità inflessibile / lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt’intorno, / poiché è stabilito che l’essere non sia senza compimento: / infatti non manca di nulla; se, invece, lo fosse, mancherebbe di tutto. Il linguaggio non manca di nulla, ha tutto ciò che è necessario che sia; se mancasse di qualche cosa, non sarebbe più linguaggio, quindi, mancherebbe di tutto, mancherebbe di sé. Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero. Di nuovo: sono la stessa cosa, τό αὐτό. Il pensare e la sua causa sono la stessa cosa: lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero... Il pensiero è linguaggio, è causa sui, non c’è qualcosa che lo ha causato; come diceva, non c’è il prima, non manca del prima. Di nuovo Peirce: non c’è il primo segno. …perché senza l’essere nel quale è espresso, / non troverai il pensare. Infatti, nient’altro o è o sarà / all’infuori dell’essere, poiché la Sorte lo ha vincolato / ad essere un intero e immobile. Dice perché senza l’essere nel quale è espresso, non troverai il pensare, non c’è il pensare fuori dell’essere, fuori del pensiero. Se prima ha definito l’essere come il pensare e adesso dice che senza l’essere non c’è pensiero, sta dicendo di nuovo la stessa cosa: non puoi pensare senza l’essere, perché l’essere è pensiero. La verità …simile a massa di ben rotonda sfera, / a partire dal centro uguale, in ogni parte: infatti, né in qualche modo più grande / né in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un’altra. È sempre quella che è, non cambia. Né, infatti, c’è un non-essere che gli possa impedire di giungere / all’uguale, né è possibile che l’essere sia dell’essere / più da una parte e meno dall’altra, perché è un tutto inviolabile. / infatti, uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei suoi confini. Certo, parlare di confini del linguaggio è problematico. Quindi, se muoviamo da ciò che dice Parmenide, e cioè che essere e pensare sono τό αὐτό, lo stesso, allora è vero quello che dice, e cioè che non c’è non-essere, non c’è il non-pensiero, perché non posso né dirlo né pensarlo. Parmenide si pone in una posizione straordinariamente interessante, anche se non è mai stato, in effetti, letto in questo modo, è sempre stato letto come un filosofo dell’essere immutabile, che sta lì fermo per conto suo. No, l’essere, se come dice Parmenide, è pensiero, non se ne sta lì immutabile. Sì, certo, è identico a se stesso, ma non è contrapposto al non-essere; semplicemente, esclude la possibilità che il non-essere sia, perché se fosse sarebbe qualcosa, quindi, sarebbe già essere. Il nihil absolutum non è pensabile, non è rappresentabile, né dicibile, né esprimibile in alcun modo, perché già in questo istante, in cui ne sto parlando, lo pongo come qualcosa. E qui arriviamo alla questione della determinazione, della determinabilità. Ed è emblematico, perché il non-essere è determinabile? Certo, ne stiamo parlando, quindi, lo stiamo determinando; ma è determinabile come? Come essere, come un essere qualcosa, perché il dire dell’essere è un dire qualcosa; anche il dire del non-essere è comunque un dire qualcosa, è sempre un λέγειν τί, come diceva Platone. Quindi, non posso mai accedere al non-essere, non posso mai accedere al fuori del linguaggio, non c’è nessun accesso. Lo posso pensare, ma nel linguaggio. Questo è il modo più radicale di intendere ciò che spesso abbiamo detto, e cioè che non c’è uscita dal linguaggio, in nessun modo. E non c’è neanche un inizio del linguaggio, non c’è il primo segno, non esiste. La questione della determinabilità: io determino qualcosa, ma come lo determino? Lo determino attraverso l’indeterminabile. Questa è una questione legata soprattutto a Eraclito e poi, venticinque secoli dopo, a Hegel. Dicevo che lo determino con l’indeterminabile. La questione è molto semplice. Se la riferiamo, come abbiamo fatto spesso, al segno di de Saussure: significante e significato. Il significante è l’immanente – de Saussure parla di immagine acustica – è l’immagine, è l’uno, è l’εἶδος, la forma. Naturalmente, perché questo significante sia quello che è, occorre che significhi qualcosa, come il participio presente ci suggerisce. Ma il significato come lo determino? Con un altro significato. E questo altro significato, come lo determino? Con un altro significato, e così via. Quindi, determino il significante con l’indeterminabile, cioè il significato; determino l’immanente con il trascendente, determino il finito con l’infinito, determino l’uno con i molti. Questi molti trascendono l’uno, vanno al di là del sensibile; è un al di là che è radicale, strutturale, e questo andare oltre è da pensare nel modo più forte possibile. Come si dice in greco “oltre i sensibili”? Si dice μετὰ τὰ φυσικά: metafisica. È l’andare oltre del significato rispetto al significante, perché il significato non determina mai il significante in quanto tale, c’è sempre un’eccedenza, perché rinvia all’infinito ad altri significati. Il determinare va sempre necessariamente oltre ciò che intendo determinare, perché è l’indeterminabile che determina e, quindi, se è indeterminabile non si ferma lì. L’espressione greca che indica questo è esattamente μετὰ τὰ φυσικά, oltre le cose, oltre i sensibilia, dicevano i latini, le cose immanenti, cioè, determinando eccedo all’infinito. Qui, naturalmente, si pone la questione del finito e dell’infinito: per determinare il finito mi serve l’infinito; come lo determino il finito? Lo determino utilizzando dei significati. Quanti? È il senso più interessante in cui si può leggere Eraclito: ἒν πάντα εἰναι, l’Uno è tutte le cose, insieme, sono simultanei. La relazione indica proprio questo, la simultaneità, non c’è l’Uno e poi ci sono i molti; no, l’Uno è i molti: questo è il messaggio di Eraclito. E tutto questo è pensabile, esprimibile perché, dice Parmenide, c’è l’essere. Ma quale essere? Il pensiero, cioè il linguaggio. Prosegue il fr. 8 parlando dell’opinione e della verità. Qui pongo termine al discorso che si accompagna a certezza e a pensiero / intorno alla Verità; … Qui finisce la parte teoretica. …da questo punto le opinioni mortali / devi apprendere, ascoltando l’ordine seducente delle mie parole. / Infatti, essi stabilirono di dar nome a due forme / l’unità delle quali per loro non è necessaria: in questo essi sono ingannati. Le giudicarono opposte nelle loro strutture, e stabilirono i segni che le distinguono, / separatamente gli uni dagli altri: da un lato, posero l’etereo fuoco della fiamma, / che è benigno, molto leggero, a sé medesimo da ogni parte identico, / e rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altro lato, posero anche l’altro per se stesso, / come opposto, notte oscura, di struttura densa e pesante. Sarebbero la terra e il fuoco, che per gli antichi erano elementi fondamentali. Questo ordinamento del mondo, veritiero in tutto, compiutamente ti espongo, / così che nessuna convinzione dei mortali potrà fuorviarti. Qui c’è una questione, che va contro tutte le interpretazioni di Parmenide, e cioè l’essere come Uno, immobile, inamovibile, ecc. Anche ma non soltanto, perché dice essi stabilirono di dar nome a due forme / l’unità delle quali per loro non è necessaria, sottintendendo, e qui lo dice, in questo essi sono ingannati. In questo dice ciò che diceva esattamente Eraclito, che Parmenide conosceva, essendo coevi. Le giudicarono opposte nelle loro strutture, e stabilirono i segni che le distinguono, / separatamente gli uni dagli altri, mentre, si ingannano. Qui Parmenide sembra effettivamente dirlo: sono lo stesso. Qui c’è una nota di Reale. È questa la traduzione che esprime l’interpretazione più avanzata e costruttiva della doxa parmenidea. Ricordiamo, peraltro, che le possibili traduzioni di questo testo sono le seguenti quattro: 1) gli uomini han posto e denominato due forme, delle quali una non doveva essere assunta (quindi, separate); 2) gli uomini han posto e denominato due forme, di cui non si può nominare l’una senza l’altra, in ciò errando; 3) gli uomini hanno posto e denominato due forme, delle quali neppure una si doveva porre; 4) gli uomini hanno posto e denominato due forme, la cui unità essi non hanno capito che è necessaria. Quest’ultima si impone dopo le precise chiarificazioni di Schwabl nel saggio citato sopra alla nota 8. Si noti che Parmenide non critica la distinzione di luce e notte in quanto tale, ma l’assoluta posizione della separazione e quindi l’assoluta differenziazione ed opposizione dell’una rispetto all’altra. Il superamento dell’errore dei mortali consiste in questo: la luce “è”, la notte “è”, quindi l’una e l’altra “sono”… Questo è interessante. Schwabl è un filologo tedesco. Le due forme dai nomi diversi vanno quindi superate nell’unica forma dell’essere, perché entrambi sono. Ma qui torniamo alla questione da cui siamo partiti: ma sono cosa? Sono pensiero. Perché non si oppongono? Perché non possono essere separati? Perché appartengono entrambi al linguaggio e non c’è una separabilità. È la doxa, l’opinione, che tiene distinte le cose: se io penso che questa cosa sia vera, allora tutte quelle cose, che non coincidono con ciò che penso io, sono false. Però, Parmenide non dice affatto che queste due cose si oppongono, ma sono due cose che appartengono entrambe al linguaggio. E, infatti, parla di unità, l’unità delle quali per loro non è necessaria: in questo essi sono ingannati; quindi, l’unità è necessaria, l’unità di questi due elementi, di queste due forme opposte, è necessaria. E in questo è totalmente dalla parte di Eraclito. Qui non fa cenno a tale questione. Ci sono tutte le varie interpretazioni, va bene, ma perché non attenersi a quello che dice anziché partire delle fantasie. Come abbiamo fatto con Eraclito: non dice che l’Uno è tutto, perché non parla di τό πάν, il tutto, ma dice τά παντα, usa il plurale, quindi, tutte le cose, non il tutto. Se dice così proviamo ad attenerci a quello che dice, avrà avuto i suoi motivi. Tra l’altro, non l’ho detto prima, ma il poema di Parmenide ci è stato tramandato dagli Stromata di Clemente Alessandrino, che sono una miscellanea, una raccolta di testi intorno ad argomenti più o meno disparati. Clemente Alessandrino era un Padre della Chiesa, è vissuto all’incirca nel II sec. d.C., è lui che ce li ha tramandati. Di questo, forse, occorre tenere conto, e cioè che ci è pervenuto grazie a un Padre della Chiesa, che lo ha inserito nella sua collezione di testi. Dunque, questi due elementi, usiamo le sue parole: Sentiero del Giorno e Sentiero della Notte. Non sono opposti, sta dicendo questo. Sono due elementi dello stesso? Parrebbe. Lui dice che sono due forme, sì, ma sono una unità, quindi, sono lo stesso, per via dell’Aufhebung. Parmenide non parla di Aufhebung, ovviamente. Quindi, una unità di due opposti, Sentiero del Giorno e Sentiero della Notte, e qui è Eraclito, né più né meno. Qui lo dice di nuovo, al fr. 9. E poiché tutte le cose sono state denominate luce e notte, / e le cose che corrispondono alla loro forza son attribuite a queste cose o a quelle, / tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura, / uguali ambedue, perché con nessuna delle due c’è il nulla. Nessuna delle due è fuori del linguaggio. Se fosse fuori del linguaggio non ne sapremmo niente, non sapremmo neppure di cosa non sapremmo niente. Fr. 12. Le corone più strette furono riempite di fuco non mescolato, / quelle che seguono ad esse furono riempite di notte, ma in esse si immette una parte di fuoco; / nel mezzo di questa sta una Divinità che tutto governa:… Che è un altro modo per dire la Notte e il Giorno sono due momenti dello stesso, non c’è l’uno senza l’altro; perché nessuno dei due, in questo caso specifico la notte, è riconducibile al nulla, come taluni hanno invece pensato, quando dicevano che il Sentiero del Giorno è l’essere e il Sentiero della notte il non-essere. No, non l’ha mai detto, anzi, ha detto il contrario. La lettura che abbiamo fatto di Parmenide è partita e ha tenuto sempre conto della parola di Parmenide, che pensare ed essere sono τό αὐτό, sono lo stesso. Siccome lo dice chiarissimamente, dobbiamo attenerci a questo: sono lo stesso, è come se ci fosse un uguale (=). Quindi, tutto ciò che attribuisce all’essere, di fatto, è attribuibile al pensiero, quindi, al dire, quindi, al linguaggio. E questo pone anche un modo di pensare differentemente la relazione tra Parmenide e Eraclito. Alcuni suppongono che Parmenide abbia criticato Eraclito, anche se non risulta dal suo testo, ma, come abbiamo visto, si può interpretare un testo come si vuole. Nel nostro caso, invece, abbiamo preferito attenerci alle sue parole, e nelle sue parole non c’è alcuna obiezione ad Eraclito. Parmenide ed Eraclito hanno posto la loro attenzione su questioni differenti: Parmenide sul fatto che non c’è uscita dal linguaggio, Eraclito, che il linguaggio non è altro che relazione. Come dire che da questa relazione non c’è uscita, perché quando parlo non faccio altro che determinare, cioè mettere cose in relazione con altre: questo è parlare, se non faccio questo non parlo. Quindi, potremmo anche considerarli come due pensatori che hanno pensato il linguaggio. Allora non esisteva il concetto di linguaggio così come lo abbiamo oggi; sì, certo, c’era il λογόϛ… In effetti, quando dice τό γάρ αὐτό νοεῖν τε χαί εῖναι, al posto di νοεῖν avrebbe potuto dire λογον, e cioè lo stesso è il dire e l’essere.