INDIETRO

 

 

31-8-2016

 

Sentieri interrotti (1950)

Pagina 12: Ciò che installa la cosa nella sua persistenza e nel suo nocciolo che ad un tempo determina la modalità della sua presentazione sensibile: colore, suono, durezza eccetera è l’elemento materiale della cosa. In questa determinazione della cosa come materia λη è già compresa anche la forma μορφή, l’elemento costitutivo della cosa, la sua consistenza sta nell’unione di una materia con una forma, la cosa è materia formata. Questa interpretazione della cosa si rifà all’immediatezza visiva attraverso cui la cosa ci si presenta nel suo aspetto, (ci si mostra nel suo aspetto, cioè l’εδος) con la sintesi di materia e forma è finalmente trovato un concetto di cosa ugualmente valido per le cose di natura e per quelle d’uso (tutte quante sono fatte di una materia e di una forma) Questo concetto di cosa non è in grado di rispondere al problema del carattere di cosa dell’opera d’arte, ciò che nell’opera d’arte ha il carattere di cosa è evidentemente la materia in cui l’opera consiste, la materia è la base e il campo della forma artistica. Ma questa concezione così chiara e nota non avrebbe potuto essere subito posta? Perché fare un giro tanto lungo per giungere a una posizione comunemente ammessa? Perché diffidiamo anche di questa concezione della cosa come materia formale (Diffidare dei concetti più comuni è una prerogativa del pensiero di Heidegger, è per questo che li interroga di nuovo) /…/ Un blocco di granito riposante in se stesso, è qualcosa di materiale con una forma determinata benché non predisposta, in questo caso “forma” significa una disposizione spazio locale e un ordinamento delle particelle di materia da cui consegue un determinato contorno e precisamente quello del blocco. Fin qui non c’è niente di strano, è però materia che possiede una forma anche la brocca, anche la scure, anche la scarpa ma qui la forma in quanto contorno non consegue da una disposizione della materia, è la forma al contrario che determina l’ordinamento della materia (sta incominciando a introdurre una questione che poi mano a mano articolerà sempre di più) non solo ma la forma implica anche la qualità e la scelta della materia impermeabile per la brocca, sufficientemente dura per la scure, resistente e di pelle morbida per le scarpe. L’unione di materia e forma che qui si riscontra è fin da principio regolata da ciò a cui brocca, scure e scarpa debbono servire. Questa usabilità non è aggiunta e attribuita in un secondo momento agli enti suddetti, essa non è neppure qualcosa come un fine che ondeggi qua e là sopra di essi, essa è invece quel tratto fondamentale in base a cui questo ente ci si presenta, ci sta davanti e in tal modo ci è presente essendo così l’ente che è (sta introducendo la questione che è poi uno dei cardini del suo pensiero e cioè una qualunque cosa è quella che è non perché è materia e forma ma perché questa cosa ha un uso che è quello che mi permette di approcciare questa cosa all’interno di un progetto, cioè è quella che è per l’uso che posso farne, che non è poi così lontano da ciò che indicava Wittgenstein rispetto al significato delle cose, il significato di una cosa è che ciò che è quella cosa, ma che cos’è? È quello che è per l’uso che ne sto facendo, e quindi in base all’uso che io intendo fare di una certa cosa quella cosa mi appare in un certo modo, se invece intendo fare un uso differente allora mi appare in modo differente. La semiotica si è avvicinata tantissimo a questa cosa anzi l’ha articolata per esempio Greimas: quando uso un termine, una parola, perché questa parola sia usabile all’interno di un discorso occorre che sia provvista di un significato cioè abbia un uso, questo uso glielo fornisce in linea di massima il dizionario ma il dizionario è un po’ come se dicesse la forma e la materia della parola che di per sé dice poco, dice soltanto che è utilizzabile ma non qual è l’uso. Greimas parlando del sema nucleare indicava un qualche cosa che è lì pronto per l’uso ma non è ancora l’uso che ne faccio, è qualcosa che è pronto per l’uso ma per sapere qual è l’uso occorrono i semi contestuali, sono i semi contestuali che decidono l’uso del sema nucleare, come dire in altri termini che l’unione di sema nucleare e semi contestuali, che è poi il semema, indica che quel termine ha quell’uso all’interno di questa combinatoria e che soltanto quella combinatoria all’interno della quale è inserito decide dell’uso, cioè del significato. Ora qui Heidegger non dice una cosa molto differente dicendoci che la cosa ci appare nel modo in cui ci appare per via dell’uso che ne stiamo facendo, cioè ci appare nel modo in cui ci appare all’interno del progetto in cui questa cosa è inserita, in cui questa cosa mi si manifesta. Infatti sottolinea in modo molto preciso “Questa usabilità non è un’aggiunta”, non è una proprietà di questa cosa dalla quale può essere disgiunta, perché se io disgiungo l’usabilità di questa cosa dalla cosa, non c’è più neanche la cosa) /…/ Materia e forma non sono mai determinazioni originarie della cosità della mera cosa. (non sono mai “determinazioni originarie della cosità eccetera” che significa questo? Che la materia e la forma non è che appartengano a una cosa prima che ci sia l’uso, prima che la cosa sia inserita nel progetto, ma dopo, dopo intervengono, dopo questa cosa ha una materia e una forma che è quella che è, l’uso che io decido di fare di quella cosa, mi impone. Qui parla del mezzo, le scarpe per esempio) Il mezzo una volta approntato riposa in se stesso come una mera cosa, ma non possiede come il blocco di granito il carattere dell’esser sorto da sé, infatti il mezzo ha in comune con l’opera d’arte il fatto d’esser frutto di un’attività umana (la differenza che già gli antichi ponevano tra φύσις e τέχνη, la φύσις è ciò che sorge da sé, la τέχνη è ciò che sorge dall’opera dell’uomo, è l’esempio che faceva Aristotele della pianta e del tavolo, la pianta sorge da sola, il tavolo non sorge da solo se non c’è il falegname) d’altra parte però l’opera d’arte in virtù dell’auto sufficienza del suo esser presente assomiglia piuttosto alla mera cosa nel suo essere sorta da sé e nel suo non essere costretta a nulla (l’opera d’arte ci appare autosufficiente, una volta che ce l’abbiamo di fronte sembra che non abbia bisogno di nient’altro) Ciò nonostante non annoveriamo le opere fra le mere cose, in generale sono le cose d’uso che ci circondano quelle che noi consideriamo le cose più immediate e autentiche quindi il mezzo è per metà cosa, perché determinato dalla cosità con qualcosa in più, nel contempo è per metà opera d’arte con qualcosa in meno, mancando dell’auto sufficienza dell’opera d’arte (l’opera d’arte si considera un che di compiuto) il mezzo ha una singolare posizione intermedia fra cosa e opera, posto che sia lecito questo genere di esame comparativo (ecco qui la questione): Il complesso materia/forma che determina inizialmente l’essere del mezzo (la scarpa si diceva prima per esempio) si offre facilmente come il modello della costituzione di ogni ente poiché vi prende parte l’uomo stesso come fabbricante cioè quanto al modo di venire all’essere del mezzo. ( il complesso materia/forma che determina inizialmente l’essere del mezzo ché il mezzo è fatto di materia e di forma anche se come diceva lui prima “materia/forma” non è originario, “questo complesso materia/forma si offre come il modello della costituzione di ogni ente poiché vi prende parte l’uomo stesso come fabbricante, cioè quanto al modo di venire all’essere del mezzo” come dire che questa cosa riguarda ciascun ente, che adesso la dico in un modo diverso ma è come se venisse alla luce grazie all’uomo, grazie a questo ente che è l’unico in grado di interrogare gli altri enti) Poiché il mezzo, la cosa si colloca in una posizione intermedia fra la mera cosa e l’opera diviene facile applicare l’essere del mezzo, la connessione di forma e materia anche all’ente che non ha il carattere di mezzo cose ed opere e infine ogni altro ente in generale (qui è una critica che sta facendo all’ideologia che considera questa unione di materia e forma come il pilastro di tutto, cosa che lui ha già messo in discussione) La tendenza a intendere la costituzione di ogni essere nel quadro di materia-forma riceve un’altra notevole spinta dal fatto che si tende a concepire il tutto dell’ente come ente creato (cioè qui fabbricato) per effetto di una particolare fede, la biblica. La filosofia propria di questa fede ha un bell’insistere sul fatto che l’azione creatrice di dio va intesa in modo del tutto diverso dall’operare umano, ma se tuttavia e sin dall’inizio in virtù della predestinazione della filosofia tomistica a interprete della bibbia, l’ens creatum viene pensato in base all’unità di materia/forma allora la fede sarà chiarita nell’ambito di una filosofia la cui verità riposa in un non essere nascosto dell’ente che è di genere del tutto diverso da quello del mondo creduto dalla fede (il discorso religioso, il discorso della fede pone a principio la creazione. La creazione è il venire dal nulla di materia e forma. Ma dice Heidegger invece la verità che riposa nel “non essere nascosto” dell’λήθεια è tutt’altra cosa da quella creduta nel mondo della fede e cioè di una creazione che a un certo punto sorge dal nulla per via dell’opera del creatore, un conto è la creazione altro è l’uscire dal nascondimento. Sono due cose totalmente diverse: nella creazione c’è la creatio ex nihilo, la creazione dal nulla, nell’uscire, nel venire in luce, nell’uscire dal nascondimento non c’è la creazione ma qualcosa che era lì ma che era nascosto, esce dal nascosto e si svela, esce dal nascondimento, è ἀ-λήθεια (…) la questione che pone Severino è diversa lui sostiene che se dio crea dal nulla le cose cioè le fa uscire dal nulla, allora se dio fa questo, vuole dire che dio non è dio, non è più dio perché c’è un qualche cosa che prima era nulla sul quale nulla dio non aveva nessuna giurisdizione, così come su ciò che non è più, ciò che non è ancora e ciò che non è più, passato e futuro, su queste cose dio non avrebbe nessuna giurisdizione quindi c’è un qualche cosa che sfugge al potere di dio, dunque dio non è onnipotente, se dio non è onnipotente non è dio. Questo è lo schema dell’argomentazione di Severino. Ora Heidegger ha parlato prima di mera cosa, ora si interroga su questo “mero”) Pagina 16: il mero sta a rivelare l’avvenuta spoliazione dei caratteri di usabilità e di fabbricazione. La mera cosa è una specie di mezzo e precisamente un mezzo spogliato del suo esser mezzo (perché a questo punto non è più un mezzo, non è più un qualcosa “in vista di …” è soltanto per se stesso) ma questo resto rimane in se stesso del tutto indeterminato, resta indeterminato se il carattere di cosa della cosa si presenti per effetto della semplice rimozione del carattere di mezzo (cioè la cosa è cosa in quanto serve a qualcosa ma se io tolgo il servire qualche cosa rimane la pura cosa, “mera cosa”, sarebbe un po’ come se, riprendendo l’esempio che facevo prima di Greimas, se togliessi dal semema tutti i semi contestuali, rimane il sema nucleare, però il sema nucleare senza i semi contestuali è niente) /…/ Nulla sembra più facile che lasciare che l’ente sia l’ente che è ma siamo invece di fronte al più difficile dei compiti visto che l’assunto di lasciar essere l’ente come esso è, costituisce proprio l’opposto di quella indifferenza che volge le spalle all’ente, ciò che dobbiamo fare è rivolgerci all’ente, pensarlo nel suo essere ma in modo tale da lasciarlo riposare da se stesso nella sua essenza (rivolgersi all’ente nella sua essenza cioè rivolgerci all’essere dell’ente. Perché prima dice che nulla sembra più facile di lasciare che l’ente sia l’ente che è, però dice l’assunto di lasciar esser l’ente come esso è, costituisce proprio l’opposto di quella indifferenza che volge le spalle all’ente perché lascio essere l’ente quello che è senza tenere conto dell’essenza dell’ente, cioè dell’essere, l’ente che io voglio lasciar essere in realtà è niente anche perché senza l’essere non si sarebbe mai manifestato, tra le altre cose) Che la cosità della cosa si manifesti con grande difficoltà e assai raramente è provato inconfutabilmente nella storia delle sue interpretazioni /…/ questa storia è connessa al destino in base al quale il pensiero occidentale in genere ha pensato sinora l’essere dell’ente ma non dobbiamo limitarci a queste semplici interpretazioni, in questa storia vediamo anche un avvertimento (è la storia dell’ente e della filosofia occidentale per Heidegger, è la storia della dimenticanza, della deiezione dell’essere, abbandono dell’essere) È forse a caso che nell’interpretazione della cosità della cosa ha assunto un rango predominante lo schema materia-forma? Questa determinazione della cosa (cioè lo schema materia-forma) deriva da un’interpretazione dell’esser mezzo del mezzo. Il mezzo è particolarmente vicino al modo di vedere dell’uomo perché trae il suo essere dall’attività umana (qualunque cosa è un mezzo cioè serve a qualche cos’altro) Questo ente in mezzo a noi così familiare nel suo essere possiede anche una caratteristica posizione intermedia fra la cosa e l’opera, facciamo tesoro di questo avvertimento e incominciamo con l’indagare l’esser mezzo del mezzo (dice qual è la via che conduce l’esser mezzo del mezzo. Sarebbe l’essenza del mezzo, il suo “essere mezzo”) In qual modo possiamo accedere a ciò che il mezzo è in verità? Il procedimento che si rende a tal fine necessario è guardarsi con cura dal cadere nei forzamenti che caratterizzano le interpretazioni abituali. Consideriamo un mezzo assai comune un paio di scarpe da contadino, per descriverle non occorre affatto averne un paio sotto gli occhi, tutti sanno cosa sono, ma poiché si tratta di una descrizione immediata può essere utile facilitare la visione sensibile, a tal fine può bastare una raffigurazione figurativa, scegliamo ad esempio un quadro di Van Gogh che ha ripetutamente dipinto questo mezzo (le scarpe da contadino) Che c’è in esso da vedere? Ognuno sa come sono fatte le scarpe se non si tratta di calzature di legno o di corda con la suola di cuoio, la tomaia unita alla suola con cuciture, questo mezzo serve da calzatura. Con il variare dell’uso lavoro nei campi o danza varia la forma o la materia, queste considerazioni abbastanza banali non fanno che chiarire ciò che già sappiamo: esser mezzo del mezzo consiste nella sua usabilità. (l’essenza del mezzo è il suo utilizzo, la sua usabilità) Ma che ne è di quest’ultima? Con essa afferriamo anche l’esser mezzo del mezzo? A tal fine non dovremo considerare il mezzo usato nell’atto del suo impiego? La contadina calza le scarpe nel campo, solo qui esse sono ciò che sono, ed esse sono tanto più ciò che sono in quanto meno la contadina lavorando pensa alle scarpe o le vede o le sente, essa è in piedi e cammina in esse, ecco come le scarpe servono realmente. È nel corso di questo uso concreto del mezzo che è effettivamente possibile incontrarne il carattere di mezzo (qui c’è un’indicazione di Heidegger che riguarda tutto il suo pensiero, la sua filosofia, che non vorrebbe essere una filosofia astratta ma una filosofia della prassi, dell’agire dell’uomo. Pensate soltanto al suo concetto, se inteso bene, di Dasein, di Esserci, che non significa nient’altro che essere qui in questo momento mentre faccio questa cosa. Più pragmatico di questo. Questo per altro è quell’elemento lo accosta a Marx, pur essendo apparentemente agli antipodi. Heidegger non andava sicuramente nella direzione del comunismo ciò non di meno entrambe possono essere definite come filosofie della prassi, dell’agire dell’uomo nel mondo, non di mero intellettualismo, cioè di astrazioni che non portano da nessuna parte, ma si occupa dell’agire dell’uomo in quanto agente continuamente). Finché noi ci limitiamo a rappresentarci un paio di scarpe in generale o osserviamo in un quadro le scarpe vuotamente presenti nel loro non impiego, non saremo mai in grado di cogliere ciò che in verità è l’esser mezzo del mezzo. Nel quadro di Van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe, intorno a quel paio di scarpe da contadino non c’è nulla di cui potrebbero far parte (qui è come se calcasse ancora di più la cosa: la differenza tra la mera astrazione e la prassi, ci dice non sappiamo nulla di quelle scarpe se le vediamo raffigurate, se le pensiamo, queste scarpe significano qualcosa nel momento in cui vengono usate, solo lì sono un mezzo quindi soltanto in quell’occasione o più propriamente in quell’occasione le scarpe rivelano la loro verità) La contadina porta semplicemente le sue scarpe, almeno questo semplice portare fosse davvero semplice (cosa vuole dire questo semplice portare?) quando alla sera la contadina stanca ma lieta o quando al primo mattino le ricalza oppure quando in un giorno di festa le smette, essa sa tutto questo senza bisogno di osservazioni o di considerazioni, l’esser mezzo del mezzo consiste veramente nella sua usabilità, ma questa a sua volta riposa nella pienezza dell’essere essenziale del mezzo (cos’è l’essere essenziale del mezzo?) Questo essere è da noi indicato col termine fidatezza. In virtù sua la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra, in virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo, mondo e terra ci sono per lei e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo modo, solo così: nel mezzo. Diciamo “solo” e in realtà erriamo perché la fidatezza del mezzo da al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla terra la libertà del suo afflusso costante (sta dicendo che la contadina si fida delle sue scarpe, quando indossa le sue scarpe lei è nel suo mondo, vale a dire che si trova all’interno di un qualche cosa che conosce, che le è proprio, e soltanto all’interno di questo mondo quelle scarpe sono quelle che sono, scarpe da contadina appunto, soltanto all’interno di questo l’esserci della contadina quindi le sue scarpe, acquisisce il suo significato, la sua verità). L’esser mezzo del mezzo “la fidatezza” tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza, l’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza (uno si fida di un certo strumento come quando uno prende in mano un cacciavite si fida del cacciavite, si fida del fatto che il cacciavite sia quel mezzo che lui vuole che sia. Però dice:) Ogni singolo mezzo si consuma ma anche l’usare incappa nel frattempo nell’usura (cioè l’usare anche lui si usura) si ottunde e diviene comune così lo stesso esser mezzo si corrompe e decade a mero mezzo (come dire che si perde, nel momento in cui l’esser mezzo decade a mezzo, si è perso il contesto, il mondo all’interno del quale l’esser mezzo è esser mezzo e dice Heidegger “si riduce a mero mezzo” che ha perso però il contesto entro il quale è quello che è, quindi non sappiamo più che cos’è perché abbiamo perso il contesto entro il quale la scarpa da contadino è scarpa da contadino. La scarpa da contadino è scarpa da contadino all’interno del mondo del contadino, non lo è messa qui sul tavolo, sul vassoietto d’argento, non è questo il suo esser mezzo ovviamente. La scarpa del contadino è quella che è all’interno del mondo del contadino) La banale abitudinarietà si fa allora innanzi come il modo di essere unico ed esclusivo del mezzo (quando cioè il mezzo ha perso il suo carattere di essere mezzo, cioè ha perso il suo esserci in ciò che lo rende l’esser mezzo) Di visibile non resta che la piatta usabilità essa porta con sé l’illusione che l’origine del mezzo consista nella semplice fabbricazione che impone una forma a una materia, invece il mezzo nel suo esser tale risale ben oltre, materia e forma e loro distinzione hanno essere stesse un’origine assai più lontana (ci sta dicendo una cosa che va anche al di là di quanto probabilmente lui stesso intende dire, e cioè quando si perde l’essenza di qualche cosa e cioè il modo in cui autenticamente appare un qualche cosa e un qualche cosa è quello che è, lui faceva l’esempio della scarpa della contadina, che è scarpa da contadina se è nel “mondo” in cui si trova la contadina, fa parte del suo mondo. In questo senso anche l’affidabilità è parte del suo mondo, se si perde questo dice Heidegger allora questo “esser mezzo” si traduce in puro semplice mezzo cioè si è perso ciò che fa essere quella cosa quella che è, è come se l’ente abbandonasse l’essere che lo fa essere l’ente che è, per diventare puro strumento per utilizzare qualche cosa. La scarpa della contadina non è solo uno strumento per camminare ma è un pezzo del suo mondo, certo è anche fatta per camminare, ma non è soltanto questo, va molto oltre cioè appartiene all’essere del suo mondo. Togliere tutto questo allo strumento è ciò che fa la tecnica, la tecnica toglie a ciascun elemento, a ciascun ente il suo essere e lo traduce in un semplice mezzo da utilizzare per uno scopo, infatti dice il mezzo nel suo essere risale ben oltre) Il riposo del mezzo riposante in se stesso consiste nella fidatezza. È in esso che possiamo vedere che cosa il mezzo sia in verità (il riposo del mezzo non significa nient’altro che il situare il mezzo nel mondo all’interno del quale è mezzo, all’interno del quale ha un significato, ha un senso, che è l’unico modo che abbiamo per capire che cosa questo mezzo sia in verità. Sta dicendo che noi sappiamo che cos’è la scarpa della contadina quando lasciamo che la scarpa della contadina ci appaia per quello che è all’interno del mondo in cui è quello che è, e cioè lasciamo che si disveli e qui l’λήθεια, appunto, è questa la sua verità, l’uscire fuori ma all’interno di un mondo che fa di quella scarpa da contadina quella che è. Se invece questa scarpa da contadina la togliamo dal suo mondo allora non appare più come un qualche cosa che è la disvelatezza di quel “mondo” che la fa esistere, ma è come se esistesse di per sé in quanto materia e forma pura e semplice, che è il principio per altro su cui si fonda la scienza) Tuttavia non sappiamo ancora nulla di ciò che cercavamo in principio e precisamente dell’essere cosa della cosa e meno ancora sappiamo di ciò che in ultima analisi andiamo cercando cioè l’essere opera dell’opera nel senso dell’opera d’arte. O abbiamo forse inavvertitamente e per così dire di passaggio intravisto qualcosa intorno all’esser opera dell’opera? (l’abbiamo intravista, “l’opera d’arte restituisce alla scarpa cioè all’esser mezzo, il suo mondo, il mondo da cui proviene” lo restituisce, non la isola ma la restituisce) Ciò che abbiamo potuto stabilire è l’esser mezzo del mezzo, ma come? Non mediante la descrizione e l’analisi di un paio di scarpe qui presenti, non mediante l’osservazione di procedimenti di fabbricazione delle scarpe e neppure mediante l’osservazione di un qualche uso di calzature ma semplicemente ponendoci innanzi a un quadro di Van Gogh, è il quadro che ha parlato. Stando nella vicinanza dell’opera ci siamo trovati improvvisamente in una dimensione diversa da quella in cui comunemente siamo, l’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità, ci ha mostrato il mondo all’interno del quale quelle scarpe sono scarpe da contadino. Sarebbe un errore esiziale quello di credere che la nostra descrizione con procedimento soggettivo abbia immaginato tutto ciò attribuendolo poi a un oggetto (sta dicendo che non c’è un soggetto che attribuisce delle proprietà a un oggetto, cioè sì lo fa continuamente, ma non è di questo che si tratta, meno che mai nell’opera d’arte, comunque ci sta dicendo che non sono io che vedo quella cosa lì, questa è la questione, ma è quella cosa che “mi parla”. Qui sarebbe complessa la cosa però è quello che dice lui “è il quadro che ha parlato”) L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità. Se qui c’è qualche cosa di discutibile è solo la nostra scarsa capacità di esperire l’opera d’arte e di esprimere l’esperito, ma prima di tutto bisogna rendersi conto che contro ogni apparenza iniziale l’opera non ci è semplicemente servita a una migliore comprensione di ciò che il mezzo è (certo quest’opera d’arte non ci fa capire meglio che cosa sia quest’opera d’arte né riguardo alla forma, né alla materia) al contrario è solo nell’opera attraverso di essa che viene alla luce l’esser mezzo del mezzo. Che significa ciò? Che cos’è in opera nell’opera? Il quadro di Van Gogh è l’apertura di ciò che il mezzo il paio di scarpe è in verità. (un’apertura) Questo ente (le scarpe) si presenta nel non nascondimento del suo essere (cioè si mostra nel venire alla luce del suo essere quello che è, che è quello che è in quanto preso all’interno dell’esserci, del progetto, del significato) il non essere nascosto dell’ente è ciò che i greci chiamavano λήθεια, noi diciamo “verità” e non riflettiamo sufficientemente su questa parola, ciò che si realizza è l’apertura dell’ente in ciò che esso è e nel come è, nell’opera è in opera l’evento della verità (è abbastanza chiaro cosa sta dicendo qui Heidegger, che nell’opera è in opera qualcosa di assolutamente autentico e cioè il disvelamento, il venire in luce di ciò che l’ente è in quanto rapportato all’essere che lo fa essere quello che è. Nel caso delle scarpe, queste scarpe ci vengono in luce non in quanto scarpe cioè in quanto ente puro e semplice materia- forma, no, se fosse così non sarebbe niente, sarebbe come guardare la pubblicità di un calzolaio, non è un’opera d’arte, perché sia un’opera d’arte occorre che questo ente che in qualche modo viene rappresentato venga in luce attraverso l’essere che fa essere quell’ente ciò che è, e appunto l’essere che fa essere l’ente ciò che è, è il suo esser mezzo ma nell’accezione che indicava prima, cioè il suo essere un qualche cosa all’interno di un determinato mondo in cui questa cosa ha un significato, è così che ci appare. A questo punto la scarpa della contadina si rivela la scarpa della contadina ma presa all’interno del suo mondo, quindi la scarpa della contadina è il pretesto, potremmo dire così, perché si manifesti la verità dell’essere rispetto a quell’ente. È come se, adesso vi anticipo un po’, fosse l’occasione del manifestarsi dell’essere dell’ente. E difatti lo dice:) Nell’opera d’arte la verità dell’ente si è posta in opera (cioè sta operando) “porre” significa qui “portare a stare” in virtù dell’opera un ente, un paio di scarpe viene a stare nella luce del suo essere, l’essere dell’ente giunge alla stabilità del suo apparire. (“stabilità del suo apparire” cioè ci appare così come è) L’essenza dell’arte consisterebbe quindi nel porsi in opera della verità dell’ente. (qual è la verità dell’ente? È il suo essere, cioè il suo significato) Ma finora l’arte non ha forse avuto a che fare solo col “bello” e la “bellezza”, e non con la verità? Quelle arti che producono queste opere sono infatti dette, a differenza delle arti pratiche, “belle arti” ma nelle “belle arti” non è l’arte ad esser bella, esse prendono questo nome perché producono “il bello”. La verità al contrario rientra nella logica, la bellezza è invece riservata all’estetica.