31-8-2000
proposizioni da il sofista
1.44 Consideriamo l’atto linguistico. Che cosa
consente in prima istanza? La formulazione di un altro atto linguistico, questo
solo per ora possiamo dire. E cioè a un atto linguistico ne segue un altro,
qualunque esso sia, poiché all’atto locutorio segue l’atto illocutorio cioè un
altro atto. Ma questo “segue” comporta che qualunque cosa dica questa ne
implicherà necessariamente un’altra. Abbiamo sintetizzato qui una struttura
necessaria nell’atto di parola, necessaria in quanto non può darsi un atto
locutorio senza un atto illocutorio: non può avvenire che io dica senza che
dica qualcosa. Perché non può avvenire? Ci troviamo di fronte alla questione
accennata prima e cioè alla constatazione dell’esistenza di regole linguistiche
di cui è fatto il linguaggio e che impongono delle procedure. Non posso dire
che si dia un “dopo” senza un “prima”, salvo precisarne l’accezione, vale a
dire prendendo atto della regola linguistica a cui faccio seguire una
metalessi, una variazione semantica che si configura come variazione unicamente
per l’esistenza di una regola linguistica di cui ho già preso atto
1.45 Abbiamo così iniziato a riflettere su questo:
ciascun elemento linguistico non esiste se non in relazione a un altro,
considerazione sicuramente non nuova ma ciò che stiamo dicendo è che tale
relazione è, in prima istanza, tra il “che io dica” e il fatto che sto dicendo,
cioè che l’atto illocutorio segue all’atto locutorio e che pertanto la relazione
è tra questi due elementi. Ciascuna parola allora, in quanto atto linguistico,
dicendosi implica necessariamente l’avvio e quindi l’esistenza di un altro atto
linguistico di cui non può fare a meno per la sua stessa esistenza.
1.46 Consideriamo una qualunque proposizione p. Dicendo p faccio qualcosa e cioè dico p.
Può un elemento linguistico non essere in una struttura linguistica?
Evidentemente no perché se è in una struttura linguistica è perché a questo
elemento è connesso un altro elemento, se non lo fosse sarebbe isolato e cioè
sarebbe fuori dalla struttura linguistica, ma se fosse fuori dalla struttura
linguistica non sarebbe un elemento linguistico. Allora se p è un elemento linguistico, allora “se p allora q”, cioè un
altro elemento linguistico. La proposizione che abbiamo introdotta
precedentemente che afferma che dicendo p
allora faccio necessariamente qualcosa, cioè dico p, indica la forma più radicale di questa implicazione, dove si
dice che se dico p, questo esiste
soltanto in quanto è inserito in una struttura linguistica per cui dicendo p dico (faccio), necessariamente
qualcosa, vale a dire che constato l’esistenza di una struttura linguistica che
mi consente di dire p; in caso
contrario, dicendo p, non farei
assolutamente nulla.
2.4 Se dicendo faccio qualcosa, e questo qualcosa è
ciò per cui esiste il fatto che sto dicendo, allora ciò che faccio dicendo
interverrà almeno nel fare esistere il “dicendo”, ma non soltanto, poiché ciò
che mi aspetto nel dire qualcosa non potrà non tenere conto di ciò che si
“aspetta” quello che faccio dicendo. Fare, dicendo, è propriamente una figura
retorica nota come ipotiposi, dove dicendo qualcosa, esibisco ciò che dico, lo
mostro.
2.12 Allora affermare che la proposizione p è vera è affermare che è garantita
da dio? O che altro? Dicendo che p è
vera sto dicendo che credo p,
nient’altro che questo. Sto facendo un atto di fede. Credere una qualunque cosa
o credere in dio è lo stesso. Ma che cosa mi costringe a un atto di fede? E se
fossi senza fede, cosa accadrebbe? È la struttura della parola a costringermi a
un atto di fede? E come potrebbe? Forse occorre considerare ancora che cosa si
attende in ciò che si dice, per saperne di più su che cosa si fa.
2.13 Se ciò che attende ciò che si dice è un rinvio,
questo non può non essere a ciò che si fa dicendo, vale a dire a ciò che
constato esistere in ciò che dico in quanto altro da ciò che sto dicendo.
Alterità che si costruisce in questa distanza e per questa distanza che le
procedure grammaticali mi costringono a considerare (non posso dire, senza
dire necessariamente qualcosa). Ma a questo punto, ciò che faccio dicendo,
l’ipotiposi, costringe ciò che dico a tenerne conto dando a ciò che segue una
direzione precisa in cui mi trovo, volente oppure no, parlando. Di questa
direzione si occupa la retorica.
2.14 Ciò che si è considerato più sopra ci fornisce
un elemento importante per proseguire perché ci indica che la direzione che il
discorso segue è quella che gli impone ciò che all’interno del discorso è ritenuto
vero, ma è ritenuto vero propriamente ciò che si afferma, e pertanto saranno
le affermazioni che si costruiscono una dall’altra a costruire il discorso e a
fare esistere le cose. In altri termini, esattamente come nel discorso
scientifico, risulta vero ciò che le mie affermazioni rendono possibile
costruire. La costruzione avviene, ovviamente, utilizzando le regole e le procedure
grammaticali, si tratta soltanto di stabilire che cosa si accoglie come punto
di partenza, quali sono gli assiomi da cui decido di muovere, assiomi che
ritengo, per definizione, veri. La questione che può sorgere è che oltre che a
ritenerli veri per definizione li posso considerare anche veri perché
necessari, cioè non negabili per via dell’ipotiposi che, come dicevamo, fa
“esistere” ciò che dico. E può accadere di pensare questa esistenza come
qualcosa fuori dalla parola. In questo caso avviene che ciò che è prodotto
dalla parola divenga invece ciò che la produce.
2.15 Supponiamo che affermi che “p afferma x”, può una proposizione affermare qualcosa se questa non è
costruibile dal linguaggio, cioè non è pensabile? Evidentemente no, per cui se
può costruirla allora esiste, e se esiste allora p può affermare x perché
allora x esiste. Si è costruito in
questo modo il criterio di esistenza per qualunque elemento si dia nella
parola, la questione è che tale criterio è nella parola e l’esistenza che
costruisce è ovviamente nella parola.
2.22 Il “come accada che sia” è stabilito allora da
ciò che penso, dal modo di pensare, che mi costituisce in questo senso: a
ciascun termine che interviene nel discorso si connette un altro termine a cui
quello precedente è associato dal mio modo di pensare.
2.24 Riprendiamo quanto detto nella proposizione
2.5: “Dicendo, esibisco ciò che faccio dicendo, esibendolo lo faccio esistere,
e mi trovo pertanto di fronte a qualcosa che esiste, ma ciò che esiste, esiste
necessariamente”. Allora, se affermo x,
come abbiamo detto precedentemente, allora x
esiste e esistendo mi si impone non soltanto come x, ma come una x che
esiste. Mi trovo così di fronte all’esistenza di ciò che, dicendo, ho fatto
esistere. Accolgo cioè la sua esistenza come un’esistenza di fatto, ma che ne è
di ciò che ho accolto nei termini che abbiamo indicati? Che ne è di questa x?
2.25 Parrebbe che il modo di pensare di cui abbiamo
parlato si costruisca registrando ciascuna cosa che faccio esistere, e proceda
sempre tenendo conto di ciò che è stato registrato precedentemente per decidere
se ciò che segue esiste oppure no, cioè se deve essere a sua volta registrato
oppure no. Intorno a che cosa dia l’avvio a tali registrazioni non possiamo
dire alcunché, perché sarebbe come chiederci da dove viene il linguaggio, e
questo non possiamo farlo per i motivi su esposti, vale a dire che non possiamo
chiederci da dove viene ciò che stiamo dicendo se utilizziamo, per farlo, ciò
stesso che stiamo dicendo, incorreremmo o nella petizione di principio che ci
costringe a fermarci affermando semplicemente che è così perché è così oppure
in un’inarrestabile regresso all’infinito. Intendiamo con il termine
“registrazione” qualcosa di molto prossimo all’utilizzo che fa Hjelmslev di
questo termine, e cioè la constatazione di un evento linguistico all’interno
della catena linguistica.
2.26 Se dunque la domanda “da dove viene il
linguaggio” è barrata, la cosa migliore che possa farsi è chiedersi come
funziona il mio modo di pensare, quali sono i termini che funzionano in ciò che
dico. Giocando sulla scia di Cantor, supponiamo che al termine x sia connesso soltanto il termine y, allora ciascuna volta che interverrà
x interverrà sempre e soltanto y, ma se a x potessi connettere anche y1, y2, y3,... e così via, cosa
accadrebbe? Un modo di pensare infinito, anzi, transfinito e, proseguendo lungo
questa via, posso sempre prendere tutte le possibili y1, y2,... yN, chiamare
questo insieme M e comporre un nuovo modo di pensare G, i cui sottoinsiemi
siano costituiti da M1, M2,... MN.
2.29 Proviamo a considerare la nozione di variante
avvalendoci ancora dell’elaborazione teorica di Hjelmslev che definisce le
varianti come correlati con reciproca sostituzione, vale a dire elementi
linguistici aperti la cui encatalisi non è attuata (Cfr. 1.24) e che pertanto
mostrano una possibile sostituzione con altri elementi linguistici, mentre le
invarianti no in quanto encatalizzate. Come si pone allora qui la variante? Non
è forse proprio la nozione di figura retorica di cui dicevamo, cioè un elemento
del quale rilevo che è stato sostituito con un altro e del quale registro tale
sostituzione? L’invariante allora è quell’elemento linguistico che non posso in
alcun modo sostituire. Non lo posso sostituire perché è l’esecuzione stessa
dell’atto linguistico e non posso dire simultaneamente due cose, posso dirne
soltanto una alla volta. Considerazione molto banale, che tuttavia mostra che
l’atto locutorio non può essere sostituibile né sostituito in quanto è da
sempre già avvenuto, già attuato nell’esecuzione di ciò che sto dicendo.
2.30 Che io dica qualcosa, qualunque cosa sia, resta
registrato come atto locutorio, come invariante, qualcosa che permane e che in
nessun modo può essere sostituito o cancellato. Si impone come ciò che non
posso negare. Se dico non posso negare che sto dicendo se non affermando ciò
che intendo negare. Poniamo qui l’invariante come il gesto iniziale, originario
ciascuna volta in ciascun atto linguistico, ciò da cui muovo per proseguire a
dire. Potrei muovere da altro rispetto a ciò che sto dicendo? E in che modo? Se
potessi muovere da altro rispetto a ciò che sto dicendo mi troverei a
utilizzare un elemento che non sto dicendo, ma se non stessi dicendo quello
che dico allora ne starei dicendo un altro, e quindi muoverei da quello e
quindi, in ogni caso, muoverei da ciò che sto dicendo.
2.32 Ma riprendiamo la questione. Stiamo dicendo che
l’invariante è la condizione della variante, cioè di ciò che faccio dicendo,
così come dicevamo più sopra che l’atto locutorio è la condizione dell’atto
illocutorio, pur permanendo che in assenza di atto illocutorio non esiste
l’atto locutorio, perché se non faccio qualcosa parlando allora non faccio
nulla, nemmeno parlare.
2.33 La retorica si occupa delle varianti, di ciò
che avviene parlando, mostrando ciascuna volta che la variante segue
necessariamente un’invariante da cui procede, di cui si pone come il
conseguente. Indicando la variante come figura retorica abbiamo soltanto detto
che quest’ultima prevede necessariamente un elemento che la precede e che non
può non esserci perché la variante risulti tale.
2.34 Occorre riflettere su che cosa debba intendersi
con “registrazione di una variante”, questione tutt’altro che marginale
rispetto a ciò che andiamo dicendo. Se consideriamo quanto detto più sopra, la
registrazione di una variante sarà la considerazione del fatto che ciascun
elemento che interviene nel linguaggio comporterà che un qualunque elemento y esisterà in connessione con y1, y2,
y3,... yN, poiché nulla chiude la sequenza delle y non essendoci alcun interpretante logico finale che, in questo
caso, dovrebbe porsi inevitabilmente come una yN1. La variante si costituisce
così come insieme aperto, e pertanto non definibile, poiché sarà sempre
possibile costruire una qualunque yN1+1 che rilanci la questione impedendo in
questo modo una qualunque possibile definizione. Questo comporta che nessuna
variante, o figura retorica, potrà encatalizzare un’invariante o, per dirla altrimenti,
nessuna figura retorica potrà “dire” o decidere un’invariante, nessun atto
illocutorio potrà sovrapporsi a un atto locutorio.
2.34 Occorre riflettere su che cosa debba intendersi
con “registrazione di una variante”, questione tutt’altro che marginale
rispetto a ciò che andiamo dicendo. Se consideriamo quanto detto più sopra, la
registrazione di una variante sarà la considerazione del fatto che ciascun
elemento che interviene nel linguaggio comporterà che un qualunque elemento y esisterà in connessione con y1, y2,
y3,... yN, poiché nulla chiude la sequenza delle y non essendoci alcun interpretante logico finale che, in questo caso,
dovrebbe porsi inevitabilmente come una yN1. La variante si costituisce così
come insieme aperto, e pertanto non definibile, poiché sarà sempre possibile
costruire una qualunque yN1+1 che rilanci la questione impedendo in questo
modo una qualunque possibile definizione. Questo comporta che nessuna variante,
o figura retorica, potrà encatalizzare un’invariante o, per dirla altrimenti,
nessuna figura retorica potrà “dire” o decidere un’invariante, nessun atto
illocutorio potrà sovrapporsi a un atto locutorio.
2.39 Supponiamo che affermi una qualunque
proposizione p, come può avvenire
che possa pensare che esista qualcosa nella proposizione p che esista fuori dalla proposizione p? Supponiamo ancora che creda che la proposizione p affermi l’esistenza di qualcosa che
esiste fuori dalla proposizione p,
facendo questo, posso immaginare la proposizione p come una sorta di indicatore, un indice che indica qualcosa che
è fuori dalla proposizione p. Ora,
o questo qualcosa si trova in un’altra proposizione, oppure è fuori dalla parola.
Se è fuori dalla parola è nulla, se è in un’altra proposizione allora la
proposizione p indica un’altra
proposizione che si troverebbe fuori dalla proposizione p. Dunque la proposizione p
parlerebbe della proposizione q, ma
è la proposizione p a parlare della
proposizione q. Questo vuol dire che
la proposizione q si trova inserita
nella proposizione p? Ciò che
sappiamo è che è p che ne sta
parlando, ma allora l’esistenza di q
è l’esistenza stessa della proposizione p?
Ma la proposizione q può esistere
anche senza la proposizione p? Ma
allora chi dirà la proposizione q?
Può una proposizione dire se stessa? Che cosa ci stiamo chiedendo chiedendoci
questo?
2.40 Riflettiamo ancora. Ciascun elemento
linguistico risulta tale in quanto inserito in una catena linguistica che ne
sta dicendo, e indichiamo la catena linguistica, o stringa, che sta dicendo
qualcosa circa l’individuo x con
“proposizione”. Allora, tenendo conto di questo, dicendo che la proposizione p parla della proposizione q dico che la proposizione q di cui si tratta esiste solo e
unicamente nella proposizione p che
ne sta parlando, perché se esistesse altrove, allora la proposizione q sarebbe detta da una proposizione r. La questione che si pone è se la
proposizione r possa dire, oppure
no, esattamente ciò che dice la proposizione p. Questione importante, perché se la risposta è affermativa allora
un qualunque individuo x rimane
identico qualunque sia la stringa in cui è inserito, vale a dire che è
individuabile in quanto tale, e non dalla proposizione in cui è inserito, cioè
esiste al di fuori della proposizione che lo dice.
2.41 Che cosa mi consente di definire un individuo x? Una proposizione parrebbe, e dunque
un individuo x è definito dalla
proposizione in cui è inserito, ma potrebbe essere definito altrimenti, cioè da
un’altra proposizione? Se non posso definirlo che attraverso una proposizione
allora sarà questa proposizione a farlo esistere così come mi si impone nel
discorso, e quindi dovrà necessariamente la sua esistenza alla proposizione in
cui è inserito. Ma se p è differente
da q, che cosa mi fa pensare che
l’individuo x, inserito in p, rimanga lo stesso se inserito in q? Quale criterio mi consentirà di
stabilire l’uguaglianza che vado cercando? Se l’individuo x deve la sua esistenza alla proposizione p, se lo tolgo dalla proposizione p cessa di esistere, e ciò che considererò nella proposizione q sarà un’altra cosa, un altro
individuo y che trae la sua
esistenza dalla proposizione q e
che esiste unicamente nella proposizione q.
La questione può porsi più semplicemente in questi termini: posso dire
l’individuo x senza dire la
proposizione p in cui è inserito o,
più propriamente, da cui è detto? Posso dire qualcosa senza dirlo? No. E dire x fuori da p equivarrebbe appunto a dire qualcosa senza dirla, giacché non
posso dire nulla se questo che dico non è inserito in una stringa linguistica,
in una proposizione. Allora, se dico x,
allora necessariamente dico p che lo
afferma.
2.42 Siamo giunti così alla questione centrale nella
riflessione intorno alla retorica, vale a dire alla considerazione che ciò che
si dice è tale perché inserito nella proposizione che lo sta dicendo, e che lo
fa esistere così come si impone nel discorso.
2.43 Ma allora segue che, qualunque cosa possa
dirsi, questa non sarà nulla fuori dalla proposizione in cui è inserita, e
pertanto se voglio sapere ciò che ho detto (ciò che ho fatto), dovrò
necessariamente considerare la proposizione con cui ho detto ciò che ho detto.
Se dico x, ciò che faccio è dire p, la proposizione in cui x esiste. Facciamo un esempio. Supponiamo
che affermi che la tale persona è interessante. Ciò che ho detto è: “la tale
persona è interessante”. Proponiamo di chiamare x la proposizione “la tale persona è interessante”. Allora, per
quanto detto precedentemente, affermare x
è dire la proposizione p in cui x è inserita e per cui esiste. Qual è
la proposizione p? È questa la
questione retorica che stiamo considerando dicendo che è possibile affermare x soltanto se esiste la proposizione p.
2.44 Affermare “la tale persona è interessante” non
è, pertanto, l’indicazione di uno stato di fatto, per quanto soggettivo,
parziale, provvisorio o aleatorio possa pensarsi, perché lo stato di fatto di
cui si sta parlando, cioè che la tale persona è interessante, è soltanto la
formulazione di un atto locutorio che esiste in quanto produce un atto
illocutorio (cioè “fa” qualcosa) che la fa esistere. Più semplicemente,
l’affermare che la tale persona è interessante non si limita a indicare uno
stato di cose come se le parole fossero segni dell’affezione dell’anima, ma
produce un discorso da cui e per cui l’affermazione che la tale persona è
interessante diventa “qualcosa” anziché essere nulla. È soltanto diventando
“qualcosa”, che esiste, e esistendo mi chiama, e chiamandomi mi fa proseguire a
dire.
2.46 Consideriamo ancora l’esempio precedente e cioè
l’affermare che la tale persona è interessante. Per quanto detto, questa
affermazione presa di per sé non significa nulla ma diventa qualcosa soltanto
quando mi accorgo di ciò che sto facendo dicendola. Con “accorgersi” intendiamo
qui il prendere atto che la proposizione “la tale persona è interessante” non
ha propriamente un unico rinvio a qualcosa di già stabilito, ma rinvia a una
indefinibile quantità di elementi e che pertanto la proposizione non è
decidibile. Non essendo decidibile lascia in sospeso qualunque possibilità di
attribuire a questa proposizione un qualunque significato che possa stabilirsi
in quanto tale, e allora non potrò non considerare che ciò che faccio dicendo x, e cioè dire che la tale persona è
interessante, posso farlo perché esiste la proposizione p. In altri termini, ciò che mi si pone è che “x se e soltanto se p” e,
d’altra parte, “se q allora y”, cioè se l’elemento x è inserito in un’altra proposizione
questo sarà necessariamente un’altra cosa, cioè dirò un’altra cosa.
2.49 Consideriamo una qualunque proposizione p che dice x, dicendola, per quanto detto fino ad ora, mi imbatto
necessariamente nella serie transfinita delle connessioni con cui e per cui
esiste e che mi impediscono di arrestarmi su qualunque significato io voglia
attestare. Ora, di fronte all’inarrestabilità della stringa in cui è inserita x come potrò deciderla? Che cosa mi
troverò di fronte se non ciò che faccio in ciò che sto dicendo, e cioè dire
qualcosa la cui encatalisi rimarrà sospesa rinviandomi così incessantemente,
non alla “cosa” che dico, ma al fatto che sto dicendo? In altri termini, non
esistendo tale x fuori dalla proposizione
p che la dice sarò rinviato
continuamente alla proposizione p,
che non farà altro che rinviarmi a un’altra proposizione di cui la proposizione
p costituisce l’elemento x e così via.
2.50 Mi trovo allora nell’impossibilità di
attestarmi a un qualunque significato possa incontrare se intendiamo con
“significato” l’encatalisi di una variante. Forse possiamo a questo punto
avanzare una nozione di “significato” differente, e cioè potremmo dire che il
“significato” di x è la proposizione
p che la afferma e in cui x è inserita e da cui trae la propria
esistenza.
2.51 Dicendo che il significato di x è p, diciamo che ciascuna volta che si dice x si dice necessariamente p,
ma così come x è “detta” da p, allo stesso modo p è detta dalla proposizione che dice p. La proposizione che dice p la chiameremo p1. La proposizione p in
questo caso diventa un elemento inserito in un’altra proposizione che non potrà
essere p ma un’altra proposizione, p1 appunto. p non può dire se stessa perché dicendosi dice p1, fa qualcosa che è altro rispetto a sé.
3.1 Quanto affermato nelle sezioni precedenti ci induce
a considerare quanto avviene parlando in un modo particolare, e cioè tenendo
conto del fatto che qualunque cosa dica, questa ha degli effetti su ciò che
seguirà, e ciò che seguirà avrà effetti su ciò che tutto questo produce, cioè
me che parlo. Supponiamo che io dica x,
questa x che ho detta produrrà
effetti in ciò che seguirà la x, ma
in che modo? Da quanto detto in precedenza non potrà non tenere conto della
proposizione che dice x, dunque x sarà ciò che la proposizione che la
dice, dice. x sarà ciò che p dirà che x è.
3.14 Qualunque cosa io dica, se tengo conto di
quanto siamo andati affermando nelle pagine precedenti è necessariamente un
sofisma oppure no? Se io dico qualcosa e pongo ciò che dico nella parola, ne
considererò gli effetti nelle parole che seguiranno, e ciò che sto dicendo sarà
“significato” soltanto da ciò che dice ciò che sto dicendo, dalla proposizione
in cui è inserito ciò che sto dicendo. Pertanto non avrò alcun riferimento
fuori dalla parola per potere stabilire, per esempio, se ciò che sto dicendo
sia giusto oppure no, se sia vero oppure no. Allora ciò che dico rimarrà
sospeso a ciò che si sta dicendo, a ciò che sto facendo dicendo ciò che dico.
Rimanendo sospeso in tale maniera mi costringerà a confrontarmi con ciò che ho
dinanzi, se questo non è garantito da nulla che sia fuori dalla parola. Ma
confrontarmi con ciò che sto dicendo comporta immediatamente che consideri la
proposizione in cui mi trovo, e pertanto l’accoglierla come ciò che mi
costituisce. Costituzione non eterna, ovviamente, è sufficiente che la
proposizione si trasformi in un’altra, cosa che non può non avvenire, perché io
sia assolutamente differente da ciò che la proposizione precedente aveva
imposto.
3.15 Perché non può non avvenire che una
proposizione si trasformi in un’altra? Riprendiamo una proposizione fatta in
precedenza, precisamente al punto 1.46, lì abbiamo affermato che “… dicendo p faccio qualcosa, e cioè dico p. Può un elemento linguistico non
essere in una struttura linguistica? Evidentemente no, se è in una struttura
linguistica è perché a questo elemento è connesso un altro elemento, se non lo
fosse sarebbe isolato, cioè fuori dalla struttura linguistica, ma se fosse
fuori dalla struttura linguistica non sarebbe un elemento linguistico. Allora,
se p è un elemento linguistico,
allora “se p allora q”, cioè un altro elemento
linguistico”. Allora, una qualunque proposizione p che afferma x,
comporterà un’altra proposizione q a
cui la proposizione p che afferma x rimanda, e dalla quale è rinviata,
nel senso che la proposizione q sarà
il significato della proposizione p,
essendone il significato dirà ciò che p
è, facendo esistere p in quanto p.
3.16 Dunque qualunque proposizione dica questa,
dicendosi, farà qualcosa che non è più la proposizione p ma sarà la proposizione q,
perché è attraverso la proposizione q
(che è il significato della proposizione p)
che io posso conoscere la proposizione p,
cioè posso dirla. In altri termini, dicendo p dico già necessariamente q,
cioè non posso isolare p da q. Tenendo conto di quanto affermato
nella proposizione 2.51, dobbiamo precisare che l’atto illocutorio, che
abbiamo indicato come la proposizione p1,
si pone come significato di p (ciò
che p fa dicendosi), ma p1 non può non rinviare a un’altra
proposizione, q appunto, perché p1 non esiste fuori dalla parola, ma
rinvia a un’altra proposizione per cui esiste. Per questo abbiamo affermato che
ciascuna proposizione, dicendosi, non è più la stessa proposizione ma si trasforma
nello stesso dirsi in un’altra proposizione.
4.5 Se in nessun modo posso pensarmi fuori dalla
parola, allora evidentemente mi penso attraverso la parola. Abbiamo visto che
risulta straordinariamente difficile distinguere ciò che dico da ciò che
“sono”, e che ciò che “sono” è tale unicamente per via di ciò che dico. Dicendo
questo stabiliamo soltanto che ciò che ciascuna volta mi trovo a dire, qualunque
cosa sia, merita di essere considerata in un modo differente da come la
considera il discorso religioso, merita cioè di essere accolta come ciò
attraverso cui e per cui esisto. In altri termini, ciò che dico è la sola cosa
di cui posso disporre per accorgermi di esistere, con tutto ciò che questo
comporta. Se io dico una qualunque cosa x,
questa produrrà effetti su quanto seguirà, effetti che costituiranno non
soltanto ciò che dirò, ma anche e soprattutto ciò che farò, essendo ciò che
dirò la condizione di ciò che farò. Ma come avviene tutto questo?
4.6 Abbiamo considerato più sopra che il significato
di un elemento x sia la proposizione
p che l’afferma (Cfr. 2.50), in
questi termini possiamo aggiungere che l’attribuzione di un significato a un
elemento x lo fa esistere in quanto
tale, ma possiamo anche aggiungere che la proposizione p che lo afferma, lo denota anche in modo assolutamente preciso.
Preciso perché inserito nella proposizione p, non perché il significato sia decidibile o isolabile, naturalmente.
Questa precisione non è altro che il prendere atto che l’elemento x è significato dalla proposizione p, soltanto questo. Questo mi costringe
a considerare l’elemento x
unicamente tenendo conto della proposizione p, e pertanto che il significato che attribuisco a x, qualunque esso sia, fa esistere x. Se x esistesse prima del significato che gli si attribuisce allora x sarebbe la garanzia di esistenza per
la proposizione p che l’afferma, e
tutto il linguaggio sarebbe garantito da questo. Occorre considerare se accade
così nel discorso religioso, perché se così fosse allora sarebbe possibile
intendere come funzionano effettivamente e precisamente il pensiero religioso e
tutte le credenze che questo produce.
4.7 Dunque immaginare che ciò che dico sia
l’espressione di qualcosa che esista prima di ciò che dico. È questa la
questione che occorre considerare, poiché è soltanto questo che mi consente di
credere all’esistenza delle cose in quanto tali, in quanto fuori dalla parola.
Il fatto che si sia prevalentemente pensato in questi termini non significa
molto, né ci esime dal proseguire a riflettere. Che qualcosa esista fuori dalla
parola, o prima della parola, posso pensarlo ma non posso dimostrarlo perché
non posso dimostrare la dimostrazione né la dimostrazione della dimostrazione
e così via. Ma se dico che qualcosa esiste fuori dalla parola sono costretto a
dimostrarlo, perché invoco, in ciò che dico, la verità della mia asserzione e
la invoco perché so che non potrebbe essere altrimenti e non potrebbe essere
altrimenti perché, in caso contrario, ciò che affermo sarebbe soltanto un opinione,
e qualunque opinione o ipotesi che sia, non è nulla se ciò che opino, o ciò che
ipotizzo non ha come referente la verità cioè, in questo caso, un ultimo
elemento della catena a cui arrestarmi, e posso arrestarmi soltanto se ciò che
affermo coincide con l’ultimo elemento, e l’ultimo elemento è, appunto, la
verità, o la realtà delle cose, come si preferisce. Adæquatio rei et intellectus. Adeguamento a cui non è possibile sottrarsi se si
intende stabilire l’esistenza o la verità di un’asserzione, qualunque essa
sia, poiché se affermo qualcosa, qualunque cosa, non potrò credere che questa
affermazione sia necessariamente falsa, non lo posso per una questione
grammaticale, che mi impedisce di affermare come vero qualcosa che so necessariamente
falso. Non posso perché non potrei proseguire, non s’instaurerebbe nessuna
direzione nel discorso, che pertanto, non avendo nessuna proposizione p che possa affermarlo non avrebbe, per
quanto detto prima, nessun significato. Non direbbe nulla, non dicendo nulla
sarebbe nulla.
4.10 Emerge qui una notevole prossimità tra il
discorso religioso e il discorso terroristico, quello che deve ricondurre
ciascuna cosa alla ragione, cioè a ciò che deve essere, a ciò che occorre che
sia, che è meglio che sia. È evidente che con “ragione” può intendersi qualunque
cosa piaccia pensare. Ciò che a noi interessa è che ciascun discorso tende a
costituirsi, necessariamente, come l’unico possibile, l’unico ragionevole. Se
così non fosse allora questo discorso si porrebbe come opinabile e quindi
potenzialmente falso. Dovrebbe cioè considerare l’eventualità di essere falso.
Ma se credo che ciò che sto dicendo possa essere falso, posso ancora crederlo
vero? È una questione complessa, che merita di essere considerata attentamente.
4.11 Supponiamo che io affermi x e che creda che affermare x
sia falso. Allora posso affermare che x
è falsa solo perché so che x è falsa
e, allo stesso modo, sapendo che è vera, potrei affermare che x è falsa soltanto perché so che è vera,
quindi sapendo di affermare una cosa falsa, e so che è falsa perché so che la
sua negazione è vera. Devo, in ogni caso, sapere che una delle due è vera per
potere affermare che l’altra è falsa. Considerazione molto banale che tuttavia
pone una questione di notevole interesse per ciò che stiamo considerando.
Infatti posso mentire se e soltanto se so qual è la verità, esattamente come
avviene per una figura retorica che può porsi come variante, quindi essere
colta come figura retorica, soltanto se esiste qualcosa che non è una figura
retorica. Eppure, nonostante tutto questo possa sembrare insolito, per potere
fare una figura retorica occorre che qualcosa non lo sia. Per potere mentire
occorre che qualcosa non sia menzogna. Ma tutto questo è qualcosa che abbiamo
già incontrato in precedenza, e cioè una considerazione intorno alle regole del
linguaggio che vietano formulazioni che affermano di negare se stesse perché
senza significato. Dire che per mentire occorre qualcosa che sia menzogna è rilevare
una regola linguistica.
4.21 Dell’impossibilità della comunicazione possiamo
dire che è strutturale alla parola, e che pertanto non può né togliersi né
aggirarsi. Non può togliersi in quanto se io mi produco parlando allora ciò che
si produce non può né essere riprodotto né può essere gestito. Più sopra,
abbiamo considerato la questione in questi termini: “Perché non può non avvenire
che una proposizione si trasformi in un’altra? Consideriamo la proposizione p, dicendo p faccio qualcosa, e cioè dico p.
Può un elemento linguistico non essere in una struttura linguistica?
Evidentemente no, se è in una struttura linguistica è perché a questo elemento
è connesso un altro elemento, se non lo fosse, sarebbe isolato, cioè fuori
dalla struttura linguistica, ma se fosse fuori dalla struttura linguistica non
sarebbe un elemento linguistico. Allora, se p è un elemento linguistico, allora “se p allora q”, cioè un
altro elemento linguistico. Allora, una qualunque proposizione p che afferma x, comporterà un’altra proposizione q a cui la proposizione p
che afferma x rimanda e dalla quale
è rinviata, nel senso che la proposizione q
sarà il significato della proposizione p,
essendone il significato dirà ciò che p
è, facendo esistere p in quanto p. Dunque, qualunque proposizione dica,
questa, dicendosi, farà qualcosa che non è più la proposizione p ma sarà la proposizione q, perché è attraverso la proposizione q (che è il significato della
proposizione p), che io posso
conoscere la proposizione p, cioè
posso dirla. In altri termini, dicendo p,
dico già necessariamente q, cioè non
posso isolare p da q. Per questo abbiamo affermato che
ciascuna proposizione, dicendosi, non è più la stessa proposizione ma si
trasforma, nello stesso dirsi, in un’altra proposizione”. Abbiamo ripreso
questo lungo passo perché illustra esattamente quanto intendiamo dire dicendo
che la comunicazione è strutturalmente impossibile, e cioè che ciò che si dice
non è riproducibile né isolabile né trasmissibile. Da qui, ciò che abbiamo
indicato come solitudine risulta la condizione in cui ciascuno necessariamente
si trova e da cui trae le condizioni per proseguire a parlare, e quindi a
esistere. Ma che cosa intendiamo con comunicazione? Ma dire che la
comunicazione è impossibile non è una formulazione paradossale? Se non fosse
possibile cosa staremmo dicendo, e in che modo potremmo dire, e dicendo questo
non stiamo forse comunicando che la comunicazione è impossibile? Se qualcosa
fosse, non sarebbe comunicabile, diceva Gorgia di Lentini enunciando uno tra i più
formidabili paradossi del discorso occidentale. Ma che cosa intendiamo con
comunicazione? La trasmissione di qualcosa a qualcuno, cioè un rinvio, un
rinvio di questo significante “comunicazione” ad altri significanti e questi
ad altri ancora e così via all’infinito. Ma ponendo la comunicazione come una
procedura linguistica dico soltanto che questo significante ha una funzione,
che è appunto quella di rinviare ad altri significanti cui è connesso dall’uso
che il linguaggio impone per esistere. Il significato di “comunicazione” è il
fatto che questo significante posso dirlo, che cioè esiste in quanto rinvia
necessariamente ad altri. Essendo chiuso, il sistema di cui stiamo parlando e
che stiamo usando, nel domandarci qual è la funzione del significante
“comunicazione” incontriamo l’impossibilità di stabilirlo perché il farlo ci
rinvierebbe ad altri significanti. Chiederci se possiamo stabilire, nel senso
di provare il significante “comunicazione”, non ha allora nessun senso, salvo
quello di costringerci a considerare che lo stiamo usando come una procedura
linguistica.
4.23 Ma perché fare un esercizio intellettuale, e
che cos’è? Compiere un esercizio intellettuale, tenuto conto di quanto abbiamo
detto fino ad ora, non è altro che praticare la parola come atto costitutivo
del parlante, cioè di chi la sta di fatto praticando e quindi reperendo mano a
mano ciò che si produce, come ciò che lo produce. Accogliersi in quanto
parlanti è allora accogliere quanto la parola produce dicendosi e, ancora,
cessare necessariamente di potere credere a qualunque cosa ponga se stessa come
fuori dalla parola.
4.26 Proviamo a considerare questo aspetto. Se
smetto di credere, qualunque cosa sia, allora tutto ciò che mi si impone nel
discorso non è, evidentemente, credibile, e se non è credibile allora non posso
dare il mio assenso, se non posso dare il mio assenso allora lo considero
soltanto un fatto linguistico. Se lo considero soltanto un fatto linguistico lo
interrogo o, più propriamente, lascio che questo elemento linguistico
interroghi il discorso in cui mi sto trovando. Lasciando che interroghi il
discorso in cui mi sto trovando reperisco il significato (nell’accezione data
più sopra a questo termine) di ciò che sto dicendo, reperisco cioè che cosa
faccio dicendo ciò che dico. Ciò che faccio dicendo ciò che dico si costituisce
allora come rinvio, ciò che mi consente di proseguire a parlare. Nessun
criterio di verità in tutto questo, nessun elemento credibile o creduto vero,
soltanto una catena linguistica dove si produce ciò che sono.
4.36 Abbiamo detto, dell’obiezione citata poco
prima, che non è del tutto infondata e infatti non ha torto a affermare che
nulla potrebbe essere gestito. Infatti ciò che stiamo avanzando è proprio
questo, che le cose, cioè le parole, non siano gestibili, prevedibili, ma si
seguano l’una l’altra producendo altre parole secondo una logica di cui posso
sapere qualcosa soltanto dopo, cioè solo dopo che ho detto posso sapere che
cosa sia intervenuto in ciò che ho detto, che cosa si sia prodotto, che cosa in
definitiva abbia fatto parlando. Questo è quanto posso fare, qualunque altra
cosa è totalmente arbitraria, si pone cioè fuori dalla parola come fosse il
padrone del gioco linguistico, il padrone della parola, l’idea stessa di dio,
prodotta a questo scopo: garantire che le cose, le parole non siano arbitrarie,
non vengano da altre parole, da qualcosa che non può stabilirsi e che, anzi,
impedisce di stabilire alcunché, ma da qualcosa di fermo, di ultimo,
dall’ultima parola, da dio appunto, qualunque cosa piaccia possa pensare con
questo significante
5.4 Stiamo considerando l’eventualità che sapere
qualcosa non sia altro che reperire un elemento linguistico nella relazione con
altri elementi linguistici che l’elemento che “so”, produce, e dai quali è
prodotto e senza i quali non potrebbe esistere, e nemmeno essere pensato.
Sapere qualcosa allora costituisce la “rete” di connessioni di cui ciascun
elemento è fatto e di cui e per cui esiste non potendosi, questo elemento, in
nessun modo reperire isolato dalla catena linguistica; fuori da tale catena
semplicemente non esiste, non è mai esistito. In questo caso l’apprendere
sarebbe acquisire gli elementi a cui occorre connettere l’elemento x per potere dirlo, e in effetti posso
dirlo soltanto attraverso altri elementi che non sono x. Ma qui si apre una questione importante, poiché è da qui che
procede l’addestramento a pensare, a pensare in un modo anziché in un altro.
Stabilire queste connessioni è sapere “usare” il linguaggio, cioè, in definitiva,
parlare. Ma posso apprendere questo “uso”, o è l’uso che mi consente di
apprendere?
5.7 Stiamo dicendo che qualunque cosa faccia questa
è nella parola. Allora ciò che faccio procederà dalla parola o da altro? Sembra
che non abbiamo alternativa, cioè dobbiamo dire che, essendo nella parola,
procede necessariamente dalla parola, da ciò che dico. Ma in che modo?
Supponiamo non più che creda, ma semplicemente che affermi x. Dicendo x faccio
esistere x nella parola (abbiamo già
considerato che il soggetto è sempre, necessariamente un soggetto grammaticale,
una deissi, un indicatore linguistico), facendo questo mi trovo di fronte a
qualcosa che prima non esisteva, ma che esiste adesso. Supponiamo ancora che la
proposizione p che afferma x produca la proposizione q come suo significato, cioè come ciò
che fa esistere p. Allora, per dirla
rapidamente, dicendo p faccio q, e facendo q faccio esistere p.
Tutto questo per avvicinarci alla questione che ci sta interrogando, e cioè in
che modo faccio ciò che dico.
5.8 Il modo di cui si tratta consiste in questo, che
dicendo qualcosa, non posso in nessun modo esimermi dal considerare ciò che
dico, perché ciò che dico è la sola cosa che esiste in quel momento, dicendosi.
Se esiste quello che dico, perché dicendolo lo faccio esistere, allora io,
esistendo in quello che dico, non sono null’altro che ciò che dico e se ciò che
faccio non è fuori dalla parola di quale parola si tratterà se non di quella
che mi sta costituendo mentre si dice, mentre la dico? Allora, qualunque cosa
faccia questa sarà necessariamente inserita nell’atto di parola che mi sta
costituendo. Non potrebbe essere altrimenti poiché in caso contrario, se ciò
che faccio fosse fuori dalla parola che mi sta costituendo (quella che sto dicendo),
allora di ciò che faccio non potrei sapere nulla, perché sarebbe fuori dalla parola
che mi costituisce e, non potendolo sapere, per quanto detto più sopra, non
farei nulla.
5.9 Abbiamo affermato che ciò che faccio è inserito
nella parola che mi sta costituendo dicendosi, e che non potrebbe essere
altrimenti e che è la sola cosa che esista in quel momento, ma occorre
considerare ancora. Perché è la sola cosa che esiste in quel momento? Come lo
so? La questione è che la domanda andrebbe posta al contrario, e cioè come lo so
quando esiste in un altro momento, come faccio a saperlo. Perché, se mentre sto
dicendo so che sto dicendo per via del fatto che se dico allora, per una regola
linguistica necessariamente dico qualcosa, allora come so che qualcosa esiste
in un altro momento, cioè in un’altra parola, se questa parola non si sta
dicendo. A meno che la dica, ma allora esiste in questa parola, e non in
un’altra. Cioè esiste sempre, necessariamente, nella parola che si sta dicendo,
che sta facendo qualcosa. Che esista altrove posso pensarlo, posso pensare
qualunque cosa, ma lo sto pensando adesso, e non posso dire di saperlo se per
poterlo dire devo dire come lo so. Se ci provo troverò dei divieti linguistici
che mi impediscono di proseguire, come per esempio il regresso all’infinito o
la petizione di principio, di fronte ai quali non posso procedere se non compiendo
un atto di fede, cioè credere che sia così come penso che sia, come voglio che
sia, ma abbiamo detto che preferiamo evitare atti di fede di qualunque tipo, e
pertanto su questa via, non possiamo procedere.
5.10 Ci troviamo qui di fronte a una questione
complessa che occorre considerare attentamente. Abbiamo affermato che ciò che
non si sta dicendo non esiste, non esiste nella parola, non esistendo nella
parola, non esiste in alcun modo. Quanto detto parrebbe andare contro
l’evidenza, ma quale evidenza. Cos’è “evidente”? Ciò che non può non
accogliersi? Se così è, allora ciò che non può non accogliersi è che parlo,
necessariamente, e quindi qualunque cosa accada questa o è nella parola oppure
è nulla. O quale altro criterio dobbiamo adottare? Se ne adottiamo uno
qualunque allora andrà altrettanto bene un qualsiasi altro e, valga per tutti,
quello che afferma che esiste ciò che mi pare e tanto basta. Ma, potrebbe
obiettarsi, esiste ciò che per i più esiste. Allora, in questo caso,
l’esistenza è frutto dell’opinione della maggioranza. Non è che sia un criterio
migliore o peggiore di qualunque altro, è che non possiamo farcene nulla, non
possiamo avvalercene in nessun modo per la ricerca che stiamo facendo. Al di là
di questo, va bene come qualsiasi altro. Va bene nel senso che, al pari di
qualunque altro, è assolutamente arbitrario.
5.11 Il termine “arbitrario” merita di essere
considerato poiché potrebbe porsi la domanda se esista qualcosa che non sia
arbitraria. Consideriamo infatti un’obiezione. Ciascuna volta, se ciò che dico
non è derivabile né in alcun modo posso sapere di ciò che lo precede se non
inserendo quest’ultimo nella parola che si dice adesso, allora, qualunque cosa
dica sarà sempre, necessariamente arbitraria, cioè non potrà essere né
giustificata, né dedotta da nulla, e in questo caso la stessa deduzione di cui
ci siamo avvalsi fino a questo momento cesserebbe di essere un criterio valido
e svanirebbe nel nulla. Ma non solo, in questo modo verrebbe vanificata la
possibilità stessa di sapere alcunché, e quindi non si sarebbe potuta fare
nessuna di queste riflessioni che stiamo facendo, se le stiamo facendo, allora
qualcosa è derivabile, e la deduzione può farsi. Come uscire da questo intoppo
in cui ci siamo messi?
5.12 Proviamo a riflettere ancora. Ci stiamo
trovando di fronte a una formulazione paradossale, che afferma che ciò che si
dice non può esistere in alcun modo non procedendo da nulla, come se fosse
fuori dalla parola e, allo stesso tempo, afferma che questa affermazione non
potrebbe farsi se non esistesse la deduzione, e la deduzione è un’inferenza che
procede da ciò che precede, ma se ciò che precede non è nella parola che si sta
dicendo, allora come posso dire ciò che sto dicendo? Allora so che esiste
qualcosa che precede ciò che dico soltanto perché se così non fosse non potrei
dire? In altri termini, so che è possibile la deduzione soltanto perché la sto
usando come procedura linguistica? Parrebbe. Il fatto che utilizzi delle
procedure linguistiche che cosa mi consente di dire di tali procedure, se non
che le sto utilizzando nel chiedermi che cosa sono tali procedure? Il fatto
che stia utilizzando una procedura linguistica, la deduzione per esempio, che
cosa mi autorizza a dire se tengo conto che si tratta, appunto, di una
procedura linguistica e non di un’entità posta fuori dalla parola? Mi consente
di dire che se qualcosa procede da qualche cos’altro questo qualche cos’altro
lo precede? Si, me lo consente, senza tuttavia dirmi assolutamente nulla circa
il “ciò che precede”, non mi dice nulla perché non può dirmi nulla. E come
potrebbe senza violare la sua stessa struttura, e cioè mostrandomi ciò che non
può mostrare, ciò che non può dire. La parola non può dire un’altra parola, se
la dicesse allora sarebbe quell’altra parola, e sarebbe, comunque, sempre se
stessa.
5.13 Detto questo, il paradosso di cui si diceva
prima acquista un’altra forma, e cioè quella stessa forma della domanda che
chiede come so che questa è la mia mano. In altri termini, chiedermi se so che
ciò che procede da qualcosa è necessariamente preceduto da questo qualcosa è
chiedermi se so le procedure linguistiche, e so le procedure linguistiche in
quanto le sto usando, in quanto non posso non conoscerle se me lo chiedo,
esattamente allo stesso modo in cui so che se dico “dopo”, questo comporta un
“prima”, semplicemente per una procedura linguistica, niente più di questo. Non
posso dire niente più di questo, ma non è poco, se si considera che dicendo
questo dissolvo la possibilità stessa di pensare nei termini per cui è creduta
la possibilità di una garanzia della parola fuori dalla parola.
5.14 Eppure, nonostante quanto detto la questione
dell’arbitrarietà ci interroga ancora. Ciò che dico si impone come atto
ciascuna volta originario, ma non derivabile da nulla. Mi trovo cioè di fronte
a qualcosa di imprevisto, di inedito, di impensabile. Come di fronte alla prima
parola scritta sul foglio bianco, qualcosa che interroga, perché già rinvia
alla parola successiva, anzi, quella non esiste più, esiste soltanto questa. Ma
che qualcosa si dica è la condizione perché tutto ciò che abbiamo detto fino ad
ora possa esistere. Se non si dicesse ciascuna volta qualcosa non esisterebbe
il linguaggio, non esisterebbe la parola in quanto atto, non esisterebbe
nulla, e viceversa qualcosa può dirsi perché esiste il linguaggio che lo
consente. Da qui, abbiamo visto che non possiamo uscire, ciononostante mi trovo
ciascuna volta di fronte a qualcosa che si sta dicendo e che mi fa esistere.
5.16 La parola accade. Potremmo dire che accade
senza preavviso. Non derivabile né deducibile, instaura la possibilità della
deduzione attraverso le regole e le procedure di cui è fatta e per cui esiste.
Accade e non c’è alcun modo per prevederne gli effetti, le implicazioni. Ma
quali implicazioni se la parola che seguirà non potrà non essere, in quanto
un’altra parola e unica, tanto indeducibile quanto quella precedente? Non
potremmo sapere di nessuna implicazione.
5.17 Cosa intendiamo con implicazione? Abbiamo
accolta la nozione di implicazione unicamente come deduzione necessaria, cioè
come ciò che non può non accogliersi date le premesse. Ma a questo punto sorge
un problema perché sembra, da quanto abbiamo detto, e quanto abbiamo detto
segue pure da qualcosa, che non possiamo accogliere nulla che segua da qualcosa
poiché da qualcosa non segue nulla in quanto ciascuna volta ci si trova di
fronte a una parola che non è mai esistita prima e che non esisterà, una volta
posta in atto, mai più. Cioè, per dire deduciamo delle cose, ma queste
deduzioni, e queste cose non esistono, non sono mai esistite.
5.18 Come abbiamo già avuto modo di constatare in
precedenza, ciascuna volta in cui ci troviamo di fronte a una proposizione
paradossale questa procede da una formulazione della questione che non tiene
conto del fatto che ciò che si sta dicendo è nel linguaggio e non altrove. Se
teniamo conto di questo allora possiamo considerare che la deduzione è una procedura
linguistica che consente operazioni linguistiche, e non una sorta di entità
fuori dalla parola. In altri termini, deducendo compio un’operazione linguistica
per cui dire che se deduco allora esiste qualcosa da cui deduco è, ancora una
volta, soltanto una procedura linguistica, così come dicevamo che dicendo
“dopo” implico un “prima”. Se deduco, deduco da qualcosa, ma dire questo è
soltanto enunciare una procedura linguistica che non mi autorizza ad affermare
nulla più di questo. Allora la parola non è deducibile perché esiste in quanto
esiste la deduzione come una delle procedure di cui la parola è fatta e non
possiamo dedurre la deduzione, poiché non possiamo dedurre la parola, né il
linguaggio. Con che cosa lo potremmo dedurre infatti se non attraverso la
stessa deduzione? Consideriamo anche che ciascuna domanda che tenti di
giustificare o garantire il linguaggio con qualcosa posta fuori dalla parola,
ha la stessa struttura della domanda che chiede come so che questa è la mia
mano. Non possiamo porla questa domanda, perché non possiamo uscire dal
linguaggio.
5.20 Abbiamo preso l’avvio in questa sezione dal
considerare come agisco parlando. A questo punto abbiamo qualche elemento in
più per potere dirne qualcosa. In effetti, se la parola accade è questo stesso
accadere che agisce, che fa esistere le cose. Potremmo dire che, accadendo, la
parola esiste con e per il suo stesso accadere. E non potrebbe essere altrimenti,
perché se così non fosse allora altro la farebbe esistere, e cosa farebbe
esistere questo altro, attraverso che cosa potrebbe esistere se non attraverso
qualcosa che posso sapere (quindi dire) e quindi se non attraverso la parola?
Ma allora, se la parola accade, allora faccio ciò che la parola fa,
necessariamente. Se la parola dicendosi fa esistere la paura, io ho paura, se
fa esistere la rabbia, io provo rabbia. O potrebbe essere altrimenti?
5.21 Ma riflettiamo ancora su questo “fare
esistere”. Abbiamo detto che la parola fa esistere dicendo, ma fa esistere che
cosa esattamente? E di quale esistenza si tratta? Inincominciamo da quest’ultima
questione, e cioè quella che afferma che ciò che incontro, qualunque cosa sia,
esiste perché è nella parola, e pertanto è un’esistenza nella e della parola.
Allora, se è l’esistenza stessa della parola allora, come abbiamo visto in
precedenza, non ho nessun modo per potere distinguere le due cose, ciò che dico
e ciò che faccio, tuttavia posso dire che non sono la stessa cosa. Ma che
cos’è una stessa cosa, di quale criterio di stessità dovremmo avvalerci?
Qualunque criterio mi piaccia pensare questo criterio utilizzerà già la
nozione di stessità, ma non potrà saperne nulla. La “stessità” è una procedura
linguistica. Allora posso dire che ciò che dico non è la stessa cosa di ciò che
faccio, ma non posso saperlo? Parrebbe proprio così. Ma se pronuncio il
significante “paura”, allora provo anche paura? Certamente no, posso
pronunciare tutto quello che voglio, e non accade nulla. Ma cosa mi aspetto che
accada? Che la mia parola faccia esistere le cose? Che cosa mi sto chiedendo
con questo “esistere”. E quali cose? Dire che ho paura non significa affatto
che ce l’abbia. Ma allora la paura di cui dico non è la paura che provo,
evidentemente. Ma allora esiste qualcosa che dico ma che non è in ciò che
dico, contrariamente a tutto ciò che abbiamo affermato fino a questo momento.
Oppure stiamo prendendo un abbaglio, abbagliati dall’idea, antica ma pur sempre
efficace, che a ciascun significante debba corrispondere una cosa come suo
significato prestabilito da un codice, e che in assenza di questo “codice” non
potremmo parlare perché non esisterebbe la possibilità di produrre
proposizioni che abbiano un senso, per cui anche tutto ciò che andiamo dicendo
non potrebbe esistere in alcun modo, perché non potrebbe avere nessun senso
nemmeno per me che le dico, e quindi non potrei dirle.
5.22 Tuttavia. Supponiamo che dica x e che la proposizione che dice x sia p. Per dire x devo dire
la proposizione p che la dice, ma la
proposizione p non è x, non essendo x ed essendo x detta da p, allora ciò che farò sarà dire p. Supponiamo che x sia il significante paura, allora x, essendo inserito in p
che è la proposizione che lo afferma, esisterà in p, ma p che cosa fa dicendo
x? Potremmo dire che ciò che faccio
dicendo p che afferma x è esattamente l’uso di x nella proposizione p. Ma che cosa dice p affermando x, che cosa fa esattamente?
5.23 La questione si va ponendo in questi termini:
dicendo che ho paura faccio qualcosa che non è necessariamente ciò che faccio
quando ho paura, ciò che distingue le due proposizioni è la proposizione in cui
è inserita l’affermazione che dice che ho paura. Il significante “paura” può
essere inserito in una qualunque combinatoria linguistica, ma è ciò che fa questa
combinatoria che deciderà dell’uso del significante “paura” che, per potere
dirsi occorre che sia anche una procedura linguistica. Allora potremmo dire che
è tanto una procedura linguistica quanto una produzione linguistica. Rileviamo
qui una questione importante, e cioè l’affermazione che un elemento
linguistico è entrambe le cose, e cioè una procedura e una produzione, e che
non può essere una soltanto delle due poiché, in questo caso, non potrebbe
esistere. Non potrebbe per una questione molto semplice, e cioè che una procedura
linguistica è tale perché eseguita e, in quanto eseguita (cioè in atto), è una
produzione. In altri termini, intendiamo con produzione una procedura
linguistica in atto.
6.13 Ci troviamo così di fronte alla questione già
incontrata in precedenza, e cioè quella che ci impedisce di proseguire se
consideriamo un elemento come fuori dalla parola, e ci impedisce di proseguire
perché ci impone di provare ciò che diciamo ma, allo stesso tempo, ci impedisce
di farlo sottraendoci qualunque criterio di prova, perché non posso provare la
prova, non posso cercare il criterio del criterio all’infinito. Come dire
quindi che la nozione di prova fuori dalla parola è nulla, e nella parola
significa ciò che la grammatica della parola e l’uso che sto facendo di questo
termine impongono. Ma qual è l’uso che la grammatica impone? L’uso grammaticale
è quello rispetto al quale ciascun altro risulta una metalessi, una variante.
Potrei cogliere una variante se questa non variasse rispetto a qualcosa che non
varia? Evidentemente no, ma ciò che non varia è tale soltanto per una procedura
linguistica. Che qualcosa non vari, è qualcosa che dico, che stabilisco nella e
con la parola, e non qualcosa che non varia perché è fuori dalle procedure
linguistiche e quindi indifferente alla parola che la dice. Risulta da quanto
detto che “provare” qualcosa non sia altro che utilizzare una procedura che mi
consente di affermare che “provare” qualcosa è dire che mi sono attenuto
correttamente alle procedure stabilite dal criterio che è stato utilizzato per
la prova. Nient’altro che questo. Dire che qualcosa è stata “provata” cambia di
aspetto se si tiene conto che la prova è una sequenza di inferenze la cui
procedura non dice nulla, non è garantita da nulla, non è adeguata a nulla. Non
c’è nessun adeguamento alla cosa. La cosa è un’altra parola, e come tale non
accessibile. Non accessibile è ciò che non può decidersi in quanto non
terminabile, e ciò che non termina è la parola.
6.16 Ma allora, quando dico che so qualcosa che
senso ha ciò che dico? Non può non avere un senso, abbiamo detto, ma
introduciamo allora un’accezione particolare che procede da ciò a cui ci stiamo
attenendo in tutta questa ricerca, e cioè a ciò che non possiamo non dire. Ciò
che non possiamo non dire del sapere per potere utilizzare questo termine, è
che indica l’acquisizione delle procedure linguistiche che consentono di
domandarsi che cos’è il sapere e quindi, sapere qualcosa, vale a potere
utilizzare questo elemento all’interno delle procedure linguistiche. Allora con
“sapere” dobbiamo intendere soltanto la constatazione dell’utilizzo in atto
delle regole e delle procedure linguistiche? Parrebbe, poiché in caso contrario
non avremmo nessun utilizzo possibile del termine sapere, cioè non direbbe
niente, e quindi non sarebbe niente. Tuttavia questo accade quando attribuisco
al termine sapere ciò che non posso attribuirgli, e cioè l’acquisizione di
elementi fuori dalla parola. La proposizione che afferma che “so che è così”,
non potrebbe essere formulata in quanto se il sapere è inteso come acquisizione
di elementi che esistono fuori dalla parola, allora in questo caso tale
proposizione non può dire nulla, in quanto non può dire come lo sa, non può
cioè inseguire la propria origine all’infinito, e pertanto non può dire di
sapere, in nessun modo. Allora l’affermare che so, enuncia la constatazione di
procedure linguistiche in atto, e pertanto dire che so x vale a dire che constato che x
è costruita dalle procedure in atto nell’affermare ciò che affermo, nulla più
di questo. Oppure, se suppongo che dicendo che so x allora so che x esiste
fuori dalle procedure linguistiche allora enuncio un paradosso, cioè qualcosa
che non posso enunciare se intendo proseguire a parlare, perché mi dice che
non posso dire che so x senza sapere
x, perché non direi nulla. Tuttavia
una cosa del genere può dirsi, anzi, il discorso religioso dice prevalentemente
questo come abbiamo visto. Costruisce proposizioni che non possono dire nulla,
semplicemente affermando che invece dicono qualcosa perché qualcuno garantisce
che sia così, e cioè formulando un’altra proposizione paradossale.
6.18 Queste ultime considerazioni ci hanno condotti
a all’itinerario che si produce nel tenere conto di quanto siamo andati
dicendo. Itinerario che seguirà e si costruirà tenendo conto di ciò che non
può non dirsi e anche di ciò che non risulta in nessun modo necessario dirsi, e
che quindi lascia assolutamente libero il discorso in cui mi trovo da qualunque
tipo di costrizione, religiosa o scientifica che sia. Ma con questo mi dà sempre
l’occasione di accogliere ciò che dico come effetto del discorso, come ciò di
cui posso disporre in quanto lo dico, e soprattutto in quanto la sola cosa di
cui possa dire, con assoluta certezza in questo caso, che so. So che ciò che
sto dicendo è tale per quelle stesse procedure linguistiche che mi stanno
consentendo, ora che sto parlando, di dire che ciò che sto dicendo è tale per
quelle stesse procedure linguistiche che mi stanno consentendo, ora che sto
parlando, di dire che ciò che sto dicendo è tale per... ecc. Questo dunque: ciò
che dico è tale perché lo sto dicendo, e a qualunque altra cosa possa piacere
appellarsi questa sarà tale perché la sto dicendo, sarà tale, cioè sarà così
come penso che sia, e penso che sia così come dico che è, non posso fare
altrimenti. Ciò che dico non è altro da ciò che è, e questo è il solo criterio
d’identità che sia pensabile. Non è altro da ciò che è, vale a dire che non
posso dire p e q simultaneamente, ma prima una e poi l’altra, insieme no, non
posso farlo né pensarlo. Allora con criterio di identità potrò soltanto
intendere che per potere dire, qualcosa deve potere dirsi, e per potere dirsi
deve essere “quello che è”, intendendo questo: che dicendo una qualsiasi cosa
non posso dire che questa sia un’altra, perché allora direi quell’altra e non
questa, molto semplicemente. Posso pensare un altro criterio d’identità che
non richieda un altro criterio d’identità per potere dirsi? Criterio d’identità
che non è dunque altro che una delle procedure linguistiche di cui la parola è
fatta, e senza le quali non potrebbe esistere.
6.19 Abbiamo stabiliti il principio di non
contraddizione e il principio di identità come procedure linguistiche. Da Aristotele
in poi la logica ha considerati tali principi come le condizioni del corretto
ragionare, cioè come le condizioni dell’adeguamento a una ragione superiore o
suprema, necessaria per potere stabilire tale adeguamento. Ma in assenza di
tale ragione non è pensabile alcun adeguamento, non posso né adeguarmi né non
adeguarmi. Qualunque cosa faccia, questa potrà farsi perché sono già nelle
procedure linguistiche. La ragione suprema è l’idea stessa del discorso
religioso, ed è pensabile soltanto escludendo la parola dall’atto in cui
esiste, è pensabile soltanto nella formulazione del paradosso di cui è fatto:
afferma che non sta affermando, enunciando che la parola esiste per una
ragione suprema, qualunque sia quella a cui piaccia pensare.
7.6 Ma se con “procedura” intendiamo soltanto ciò
che ci consente di fare queste riflessioni la domanda non ha più alcuna
portata, non ci dice nulla, perché non possiamo non ammettere che se facciamo
queste considerazioni allora le stiamo facendo, e quindi è già in atto ciò che
abbiamo inteso chiamare procedura. Ma allora le cose, le parole, non
significano nulla? Stando a quanto abbiamo detto questa domanda non possiamo
porla, non dice nulla perché non possiamo uscire dalla parola, cioè dalle
procedure di cui è fatta. E se dicessimo che il significato è una procedura
linguistica e che pertanto non possiamo chiederci qual è il suo significato?
Allora diremmo qualcosa che non possiamo non dire, che non possiamo non accogliere.
Più propriamente, il significato di x
è l’uso che ne fa la proposizione in cui questa x è inserita, e l’uso che ne fa la proposizione è esattamente ciò
che intendiamo con “procedura”.
8.1 Abbiamo affermato nella sesta sezione che ciò
che non termina è la parola; che cosa intendiamo dire con questo?
Semplicemente che non si dà l’eventualità che una parola non rinvii sempre necessariamente
a un’altra, e che pertanto non possa isolarsi la parola dalle parole, cioè
dalla struttura in cui è inserita e per cui esiste. Non può nemmeno pensarsi la
parola senza altre parole, poiché nel momento in cui la penso la penso
attraverso un discorso, e quindi attraverso altre parole. Ciascuna parola
dicendosi muove verso un’altra parola, e in questo muoversi è possibile
cogliere la direzione delle parole, direzione che non è prevedibile né
gestibile perché queste altre parole, dicendosi, effettuano quella precedente
e da questa sono prodotte. Questa direzione è propriamente ciò che mi
costituisce cioè, letteralmente, vado nella direzione del mio discorso, delle
parole del discorso in cui mi trovo.
8.2 Intendiamo con “itinerario” il procedere lungo
questa direzione che mi costituisce. Ma posso non procedere lungo questa
direzione, e a quali condizioni? Se non potessi procedere altrimenti allora
non potrebbe porsi la questione, quindi evidentemente è possibile, ma a quali
condizioni?
8.3 Riprendiamo un esempio proposto nelle pagine
precedenti, nella proposizione 5.7, dicevamo così: “Supponiamo che affermi x. Dicendo x faccio esistere x
nella parola, facendo questo mi trovo di fronte a qualcosa che prima non
esisteva, ma che esiste adesso. Supponiamo ancora che la proposizione p che afferma x produca la proposizione q
come suo significato, cioè come ciò che fa esistere p. Allora, per dirla rapidamente, dicendo p faccio q, e facendo q faccio esistere p”. La x indica ciò che
intendo dire, la proposizione p la
proposizione che la dice, quindi ciò che di fatto dico, e la proposizione q ciò che faccio dicendo p che dice x”. Nulla vieta di pensare tuttavia che dicendo una cosa questa sia
esattamente ciò che dico e ciò che faccio, che cioè questi tre aspetti siano di
fatto uno solo. E in effetti non sono né isolabili né prescindibili, dicendo
una cosa accadono tutte e tre, ma se considero che ciascuna parola dicendosi
non faccia null’altro che esprimere qualcosa che si suppone fuori dalla parola,
allora ciò che intendo dire, cioè la x,
non sarà altro che una sorta di emanazione della cosa che intendo dire. La
teoria dell’emanazione ha avuto un certo successo in quanto risolve il problema
di stabilire da dove venga ciò che si dice, consentendo di eliminare la parola
in quanto atto costitutivo degli umani per relegarla a semplice strumento di
espressione. È un’operazione che ha mantenuto fino a oggi buona parte della
sua portata, se si considera che comunque continua a pensarsi che la ricerca
scientifica, per esempio, sia la via per la conoscenza della realtà delle cose
attraverso la scoperta delle leggi che le governano e secondo cui si muovono,
considerazione, sebbene molto accreditata, non per questo meno bizzarra. La
questione può porsi in termini molto semplici: o le cose sono accessibili alla
conoscenza oppure non lo sono, e se non lo sono allora le cose sono soltanto
una produzione della parola, non essendoci nessun altra via per poterne dire e
quindi saperne. Se le cose fossero accessibili alla conoscenza attraverso che
cosa lo sarebbero? Quale criterio potrebbe renderne conto? E quale criterio
potrebbe essere utilizzato per stabilire il criterio attraverso il quale
avverrebbe il renderne conto? Questione antichissima, che tuttavia mantiene la
sua attualità così come la mantiene la struttura del linguaggio che ci impedisce
di stabilire la conoscenza se non come procedura linguistica, per cui la
conoscenza non può accedere ad altro se non a ciò che essa stessa, in quanto
atto linguistico produce. Con questo stiamo soltanto dicendo che la conoscenza,
al pari di qualunque altra procedura linguistica, indica solo ciò che sto facendo,
in questo caso stabilire che le regole linguistiche instaurano un certo
elemento x che “conosco”, come un
elemento che procede dal gioco linguistico che sto praticando, e che è
acquisito attraverso lo stesso gioco linguistico. Acquisirlo è prendere atto
che si sta dicendo, prenderne atto è trovarsi a dire che x procede da y o da
qualunque altra cosa il gioco linguistico in cui mi trovo imponga nella
combinatoria che si sta producendo.
8.4 Possiamo considerare a questo punto che la
conoscenza si ponga come l’acquisizione di proposizioni che quelle precedenti
consentono di stabilire, e cioè un modo di arricchire il numero di proposizioni
che il linguaggio consente di produrre. Cosa non da poco, se si considera
l’eventualità che la maggiore ricchezza di proposizioni costruite coincida con
la maggiore ricchezza di colui che le acquisisce, in quanto potrà disporre di
un numero maggiore di rinvii, qualunque sia l’elemento che si sta ponendo, non
trovandosi così nella necessità di credere che ciò che ha incontrato sia il
solo rinvio possibile e pertanto necessario e in questo modo considerarlo un
elemento indipendente dalla parola, come se fosse una garanzia della parola,
il suo referente necessario o, come dicevamo prima, un’emanazione dell’oggetto.
8.8 Come parlare allora? È possibile dire qualcosa
se nulla è più legittimato di altro a dirsi, se qualunque cosa dica questa è
soltanto un elemento che consente ad altri di dirsi per potere proseguire a
parlare? Ma allora parlare non significa assolutamente nulla? Forse non è
questa la questione, quanto piuttosto domandarsi che cosa ci stiamo chiedendo
domandandoci queste cose. Che senso hanno? Parlo, e domandarmi da dove vengono
le parole non mi porterebbe da nessuna parte, salvo il condurmi a dirne altre.
Ma queste altre parole che si aggiungerebbero dicono pure qualcosa. Se affermo
che dicono qualcosa allora qualcosa fanno, un senso lo hanno e così pure un significato.
Se mi domando queste cose, se posso farlo, allora esiste un senso e così pure
un significato, se non esistessero infatti non potrei dire nulla di tutto
questo, non disponendo né di termini per farlo né di una struttura in cui
inserirli, per cui nulla funzionerebbe e non si darebbe nulla. Non posso
chiedermi se è necessario che le parole abbiano un senso, se me lo sto chiedendo,
è perché ce l’hanno.
8.9 Ciò che posso domandarmi è qual è il senso che
si sta producendo in ciò che dico, vale a dire qual è la direzione in cui si
sta muovendo il discorso in cui mi trovo. Se parlando con il tale voglio dirgli
qualcosa, (questo qualcosa sia x),
allora gli dico qualcosa, (e questa sia p),
dicendo faccio qualcosa, produco del senso, delle connessioni, delle
implicazioni, dei rinvii ad altro che sono prodotti dal dire p nell’intendere dire x (e tutto questo sia q), allora, producendosi q dicendo p che dice x, mi trovo
di fronte a questa q che è altro
tanto da x quanto da p, ma la q che si è prodotta dicendo mi dirà propriamente che cosa ho fatto
dicendo p (che dice x), e quindi mi dirà anche che cos’è x, dal momento che non ho nessun altro
elemento per potere stabilire che cosa sia x
se non ciò che si produce come effetto del dirla. Non so che cosa sia x, cioè non so che cosa ho voluto dire,
quale cosa ho detta finché non è detta, solo allora, producendosi q, posso sapere qualcosa di questa x, cioè di ciò che ho inteso dire.
8.11 Questa è un’obiezione legittima, che merita di
essere considerata. Abbiamo detto che soltanto producendosi q posso sapere qualcosa di x, quindi posso sapere di x. Sapendo di x attraverso q, questo
qualcosa che so costituirà ciò che mi muoverà a dire una y che intenderò dire nel prosieguo del discorso. Dunque intendo
dire y, ma che cosa so di questa y esattamente? Per saperne qualcosa
devo trovarmi a dirne e quindi a produrre un’altra proposizione, chiamiamola z, che mi dirà che cosa ho fatto
dicendo z che dice y. A questo punto so qualcosa di y. Ma torniamo all’obiezione precedente
considerandola più attentamente. La questione centrale dell’argomentazione è se
so che cos’è x prima che questa x si dica, cioè prima che si produca la
q che mi consente di saperne
qualcosa. Il fatto che x si dica, comporta
necessariamente che sappia che cos’è x
oppure no? Se si, allora la x che
intendo dire e la x che dico sono la
stessa cosa. Allora so x perché la
combinatoria in cui si è detta ha prodotto del senso, e quindi so che cos’è x. Ma questa x è stata prodotta da ciò che ha prodotto la proposizione q, e pertanto il senso sarà quello che
la proposizione q impone. Ora, come
so che ciò che intendo dire, cioè x,
è la stessa x che ho intesa dalla
proposizione q? Per saperlo devo
dire la x, ma dicendola si avvia lo
stesso processo attraverso il quale si produce un’altra proposizione che mi
dirà che cosa ho detto dicendo x, e
pertanto non mi sarà possibile accedere alla x che ho intesa precedentemente, non potrà non trasformarsi nel
dirla ancora, e sarà necessariamente un’altra cosa. Occorre distinguere, come
in parte abbiamo già fatto, tra il significato, cioè la procedura che mi
consente di potere usare il linguaggio, e il senso, cioè ciò che si produce
come effetto dell’uso del linguaggio, cioè altre parole. Perché qui il
significato non dice propriamente nulla, salvo porre una regola per l’utilizzo
del linguaggio, come dire che il significante “matita”, di per sé non significa
nulla anche se ha un significato, cioè un rinvio che è una procedura per potere
proseguire a parlare, per cui quando dico “matita” non faccio ancora nulla
salvo enunciare una procedura linguistica. Un lessema, o un iposema seguendo
la denominazione di Lucidi, esiste in quanto è un significato, una regola per
giocare il gioco del linguaggio. Diciamo anche che esiste un significato ma
che non possiamo significarlo, cioè che non possiamo farlo funzionare, non possiamo
applicarlo a se stesso, come ciascuna procedura linguistica.
8.12 Quanto abbiamo affermato fino a qui dice che
non c’è possibile gestione o familiarità con la parola, ma che ciascuna volta
mi trovo a confrontarmi con qualcosa che non avevo previsto e che, per la prima
volta, occorre che consideri. Ma il considerarla che cosa comporta se non
l’accogliere ciò che si sta dicendo nel mio discorso, e quindi accogliere le proposizioni
che si producono e che mi mostrano altro rispetto a ciò che stavo dicendo o pensando
di dire?
8.17 L’itinerario intellettuale di cui in queste
pagine ci stiamo occupando è indicato anche dal modo in qui ci stiamo occupando
di queste questioni, vale a dire il procedere tenendo conto che ciò che si dice
procede da ciò che precede in modo consequenziale. Consequenziale perché
qualunque cosa dica questa non verrà da nulla, ma da ciò che precede nel modo
indicato più sopra, per cui tale itinerario sarà costruito dalla
consequenzialità delle cose che si vanno producendo. Ma quale consequenzialità,
poiché posso intendere qualunque cosa con questo termine. Si tratta di
precisare che la consequenzialità di cui stiamo parlando non è altro che la
deduzione da cui siamo partiti considerando che sto parlando, e che non posso
non farlo, sarà consequenziale allora tutto ciò che non può non dirsi, tutto
ciò che non può non accogliersi nel discorso, nel senso che non può negarsi. Ma
non tutto è necessariamente consequenziale, molto di ciò che si dice non lo è
affatto, almeno nell’accezione appena indicata. Non per questo deve essere
eliminato naturalmente. Si tratta soltanto di tenere conto (e di potere farlo
soprattutto) che ciò che si sta dicendo non è affatto necessario, pure essendo
una produzione linguistica non è necessario, quindi è negabile. Dire che
qualcosa che si sta dicendo è negabile comporta che non potrà darsi l’assenso a
questa cosa, qualunque essa sia, in quanto non sarà in nessun modo provabile,
ma non soltanto, anche perché la stessa nozione di provabilità non potrà
trovare alcun criterio su cui reggersi. Allora a queste condizioni potrò anche
confrontarmi con ciò che sto dicendo in quanto produzione del mio discorso,
qualunque essa sia, e non pensare che il mio discorso sia soltanto la
manifestazione di una realtà extralinguistica, ma anzi, pensare che non lo sia
affatto, e che pertanto ho sempre la totale responsabilità di ciò che dico.
8.18 La responsabilità dunque. Dicendo di essere
responsabile di ciò che dico affermo che ciò che il discorso in cui mi trovo
produce non ha altro referente se non ciò che lo precede, e dicendo questo mi
trovo a considerare che qualunque cosa possa immaginare fuori dal discorso in
cui mi trovo questa mi costringerà a pensare che anche questa considerazione
non è fuori dal discorso in cui mi trovo, e così via all’infinito, e pertanto
che non posso uscire dal linguaggio. Se non posso uscire dal linguaggio allora
non c’è discorso che possa farsi o pensarsi che possa agganciarsi a qualcosa
che non sia, di nuovo, il mio discorso. Non c’è via d’uscita salvo, come detto
in precedenza, compiere un atto di fede, allora potrò sicuramente credere
qualunque cosa o il suo contrario, sarà sufficiente che non mi chieda perché
sto credendo, o se ciò che credo sia vero oppure no, perché allora incontrerei
l’eventualità di considerare quale criterio debba utilizzare per credere,
accorgendomi che il credere è soltanto una procedura stabilita dalla credenza
che qualcosa possa darsi fuori dalla parola, e nulla più di questo.
8.20 Consideriamo che la parola non termini, in
questo caso non si darà la possibilità che qualcosa possa, a maggior titolo di
qualunque altra, affermarsi come vera o reale, e quindi ciò che dico dovrà
sempre confrontarsi con un altro elemento che interviene nel mio discorso come
ciò che “significa” ciò che vado dicendo. Se dico una qualunque cosa, di fronte
all’eventualità di pensare che questa cosa che dico sia vera, sia cioè fuori
dalla parola in quanto esistente di per sé, potrò considerare che non sto
facendo nulla se non tengo conto di ciò che si produce in ciò che dico, e non
sto facendo nulla perché se non mi accorgo, cioè se non tengo conto di ciò che
si produce in ciò che dico, allora questo “qualcosa che si produce” non si produce.
Non è propriamente un gioco di prestigio, ma soltanto la considerazione che
perché qualcosa possa darsi nella parola occorre che la dica, e che dicendola
ne accolga l’esistenza in quanto parola, e non in quanto altro dalla parola.
Per quanto detto nelle pagine precedenti non possiamo dire che qualcosa esista
prima di essere detta, e quindi non posso dire che qualcosa si produca
comunque, affermare questo non significa nulla, non posso utilizzarlo in nessun
modo, posso soltanto crederlo.
8.25 La Seconda Sofistica è l’atto di parola nelle
sue estreme conseguenze, cioè l’atto di parola in quanto gesto attraverso cui
qualunque cosa esiste. Con sofista intendiamo chi accoglie la parola e tutto
ciò che questo comporta, vale a dire l’acquisire quanto la parola instaura e
produce dicendosi, non potendo non considerare che ciò che la parola produce
sono altre parole, e che queste altre parole non possono produrre se non altre
parole e così di seguito, sempre cogliendo in tutto questo l’aspetto estremo,
cioè la non mediabilità dell’atto di parola, il suo accadere tanto
imprevedibile quanto inarrestabile, non derivabile né significabile fuori dalle
sue stesse procedure. Questo comporta che se voglio sapere quello che dico,
quello che sta accadendo mentre dico, devo necessariamente proseguire a dire
aggiungendo altre parole, poiché soltanto queste produrranno il significato di
ciò che dico, diranno che cosa sto dicendo. Non cercandone quindi il significato
altrove se non in ciò che dico avrò sempre e inevitabilmente in ciò che sto
dicendo la sola risposta possibile a qualsiasi domanda possa porsi nel discorso
in cui mi trovo. Non essendo la risposta altro che il rinvio di ciò che sto dicendo
a ciò che si dirà. Questo non significa che creda la risposta, dice soltanto
che l’accolgo come elemento linguistico, che mi interroga ulteriormente, che mi
costringe a proseguire. In questo senso abbiamo detto che la parola non
termina, come constatazione della struttura della parola che accolgo come tale,
cioè in quanto atto di parola.
9.9 Potremmo a questo punto inserire un corollario a
quanto detto in precedenza riguardo a ciò che non so. Che cosa dico in effetti
dicendo che non so? Dico che ciò che accolgo come sapere in questo caso non può
essere accolto, e perché non può essere accolto? Perché non può essere accolta
la procedura di cui mi avvalgo dicendo che so, evidentemente, poiché il suo uso
è tale che la sua negazione la esclude, e se ciò che so è ciò che si impone in
ciò che dico, allora ciò che non so costituirà soltanto un’asserzione che
afferma l’assenza di un rinvio che io posso accogliere come consequenziale
rispetto a ciò che sto dicendo. Ma a quali condizioni posso accogliere un
elemento come consequenziale a ciò che sto dicendo? Che cosa intendiamo con
consequenziale? Ciò che segue necessariamente? Se ci atteniamo a quanto detto
fino a questo punto dovremmo dire di si, e anche compiendo questa operazione ci
atteniamo infatti alla stessa nozione di consequenzialità, e cioè ciò che segue
necessariamente da ciò che precede. Ma allora il non sapere che senso ha?
Sarebbe soltanto ciò a cui non posso fare seguire necessariamente qualcosa, e
quindi qualcosa che posso accogliere oppure no in quanto non è imposto dalle
procedure linguistiche ma è una produzione che non è necessaria per potere
proseguire a parlare, cioè posso farne a meno nel senso che posso accoglierla
oppure no, ma in ogni caso non potrò credere che sia necessaria e quindi
necessariamente vera, sarà soltanto una figura retorica, un modo per ornare il
discorso. Ma allora il discorso, un qualunque discorso, potrebbe farsi senza ornamenti?
E questi ornamenti ornano che cosa esattamente? Ma che cosa ci stiamo chiedendo
con questo?
Già, in effetti potremmo riprendere alcune domande
fondamentali e tra queste domande fondamentali domandarci che cos’è il
linguaggio, abbiamo detto un sacco di volte che il linguaggio non è altro che
ciò che mi consente di pormi questa come qualunque altra domanda, ciò che
abbiamo aggiunto è qualcosa intorno al suo funzionamento, come funziona il
linguaggio, cosa intendiamo dicendo che funziona? Che si pone in atto, che si
pone in essere, ora però dire del linguaggio che funziona cioè che si pone in
essere è curioso perché parlando del linguaggio siamo continuamente costretti a
tenere conto che stiamo parlando di ciò stesso che ci consente di parlare, ciò
che sta costruendo le cose che stiamo dicendo, però il funzionamento del
linguaggio cioè la sua messa in atto non è altro che la costruzione di quelle
cose che chiamiamo proposizioni, frasi, parole ecc. quindi ci consente di
costruire queste cose ma ci consente anche di definirle, di nominarle, di
chiamarle in un certo modo, tendendo sempre conto che perché funzioni occorre
che ciascun elemento sia differente da ciascun altro, questa è una priorità
fondamentale del linguaggio, senza questa non funzionerebbe niente; in effetti
chiamiamo il funzionare del linguaggio o il suo mettersi in atto, per esempio
il fatto che in questo momento ne stiamo parlando, chiamiamo dunque il
funzionamento del linguaggio proprio questo: che ne stiamo parlando, stiamo
facendo qualcosa che chiamiamo funzionamento del linguaggio. Posta in questi
termini la questione esclude che il linguaggio possa non funzionare, pare che
il non funzionamento del linguaggio sia escluso da ogni possibilità, se con
funzionamento intendiamo il suo porsi in atto, come dire che escludiamo la non
esistenza del linguaggio; abbiamo detto più volte che è la forma stessa del
paradosso affermare che non c’è, che non tutto è linguaggio, ma com’è che
funziona visto che necessariamente funziona? Dobbiamo dire qualcosa di più sul
che cosa sia il linguaggio, va bene è ciò che ci consente di fare queste
riflessioni… abbiamo detto varie volte che è una struttura e intendiamo con
struttura una qualunque successione di elementi coerenti tra loro e dipendenti
l’uno dall’altro, e in effetti ciascuna proposizione occorre che sia connessa
con altre, in caso contrario non è una proposizione. Coerenti nella logica sono
proposizioni consequenziali l’una con l’altra, se esiste un elemento che le
connette allora sono coerenti tra loro, cioè è possibile dall’una fare seguire
l’altra. Dire che sono connesse all’interno del linguaggio potrebbe comportare
necessariamente la coerenza, con coerenza intendo questo, che dall’una è sempre
possibile ricavare l’altra, ricavare l’altra significa ciò che comunemente è
trovare un motivo, trovare una causa, lo stesso luogo comune a modo suo ha una
nozione di coerenza che non è poi così lontana da quello della logica che da
qualche parte ha individuato, se uno afferma “Cesare afferma qualche cosa che
non è coerente da ciò che diceva l’altra volta” cosa vuol dire nel luogo
comune? Che ciò che afferma questa sera non segue a ciò che diceva la volta
precedente, non segue vuol dire che non ci sono elementi tali che consentono di
connettere in modo inferenziale le cose che diceva la volta scorsa con quelle
che afferma adesso, questo si intende con coerente generalmente: se la volta
scorsa lei avesse parlato per esempio del linguaggio e avesse detto giovedì
prossimo proseguo questo discorso e oggi invece ci parlasse della struttura
morfologica di un certo significante potremmo dire “che non è coerente con ciò
che affermava a meno che lei non trovi il modo per fare seguire le cose che
afferma oggi da quelle che affermava la volta precedente, allora sì, la
coerenza non è altro che la presenza di un’inferenza tra un elemento e il
successivo, per cui si avverte che il successivo segue, quando un elemento
segue ad un altro? Quando il precedente implica il secondo, il successivo, ora
che lo implichi dipende dalle regole del gioco che reggono una certa
conversazione, le regole del gioco che reggono una certa conversazione sono
quelle che consentono di stabilire appunto se un elemento è coerente oppure no,
se stiamo parlando di botanica allora se io parlo di piante, fiori, semi o cose
varie, tutti questi discorsi sono coerenti tra loro perché si attengono alle
regole del gioco, le regole del gioco in questo caso impongono che vengano
esclusi tutti quegli elementi che non sono deducibili per esempio da un
discorso sulle piante, se mi metto a parlare del ferro o del nichel cromo ecco
che non è più coerente con la botanica ma la coerenza è ciascuna volta fornita
dalle regole del discorso che si va facendo. Jaskowski si era occupato di
questo nella sua logica paraconsistente quando affermava che una persona può
anche contraddirsi importante è che ciò che afferma sia coerente rispetto al
complessivo del discorso, cioè alla regola del suo gioco, ora detto questo
possiamo affermare che il linguaggio sia necessariamente coerente cioè esistono
necessariamente delle regole di esclusione che impongono che il discorso segua
una certa linea e quindi sia coerente, potremmo anche affermare che non è
possibile che il linguaggio non sia coerente, sarebbe sprovvisto di regole,
sprovvisto di regole il linguaggio cessa di funzionare (il linguaggio
occidentale, il discorso psicotico può sembrare incoerente ma fa un gioco ben
preciso per cui la sua incoerenza fa parte delle regole del gioco) certo, la
nozione di inconscio che Freud ha inventato è servita prevalentemente a questo
cioè ad affermare che un qualunque discorso comunque è coerente anche se utilizza
regole che non sono quelle accettate dai più ma ciò non di meno è coerente,
cioè ha una coerenza inconscia per Freud) ora detto questo che altro possiamo
dire del funzionamento del linguaggio? Un modo in cui le proposizioni seguono
le une alle altre decide ovviamente della direzione del discorso come ho detto
prima ciò che decide e quali proposizioni saranno costruite sono le regole del
gioco se per esempio stiamo parlando di botanica vengono escluse tutte quelle
proposizioni che non sono coerenti con questo discorso ma verranno formate
soltanto proposizione che avranno questo argomento, quali proposizioni?
Possiamo stabilire quali proposizioni esattamente saranno costruite? Questo è
molto difficile perché anche nel campo ristretto, per esempio, che è quello
della botanica è possibile costruire un numero sterminato di proposizioni…..è
possibile trovare qualcosa in comune fra queste proposizioni oltre al fatto di
essere vincolate a delle regole di esclusione? Forse sì, intanto la costruzioni
di proposizioni è generalmente vincolata alla conoscenza di una certa persona,
meno cose sa la persona, meno proposizioni sarà in condizioni di costruire, se
per esempio chiedessi a Cesare di parlarmi di ingegneria molecolare non
riuscirebbe a fare un gran discorso perché ha pochi elementi se invece gli
chiedessi di parlarmi delle macchine ecco che allora potremmo andare avanti a
lungo. Già questo è un elemento, meno informazioni si hanno circa un certo
argomento minore sarà il numero di proposizioni costruibili, perché questo?
perché ciascuna proposizione viene costruita a partire da altre che occorre che
ci siano, se non ci sono? Se non ci sono non vengono costruite, perché non
hanno nessuna premessa, cioè le informazioni che ha Cesare per esempio rispetto
alle macchine sono delle premesse per costruire una quantità enorme di
proposizioni se non le avesse e per esempio Beatrice non ha, sarebbe difficile
intavolare una discussione sulla tecnologia delle macchine con Beatrice, ché la
conversazione finirebbe subito, quindi perché possano costruirsi delle
proposizioni occorrono degli elementi, informazioni, tutte quelle cose che
abbiamo indicate come premesse. Premesse di argomentazioni qualunque esse
siano, ora abbiamo parlato di premesse molto specifiche, è chiaro che le persone
chiacchierano continuamente anche senza avere nozioni precise ma traggono le
premesse da altri elementi da altre proposizioni, ascoltate o inventate o
immaginate e così finiamo più nel dettaglio sul come si costruisce il discorso,
quindi le proposizioni, sapendo che la proposizione necessita di altre perché è
necessariamente connessa ad altre, necessita di altre per essere costruita,
sappiamo che ce ne sono di altre che la precedono. Se io, faccio un esempio, ho
pochissime proposizioni a disposizione allora cosa farò? Cercherò di utilizzare
quelle pochissime proposizioni per rendere conto di tutto ciò che mi circonda,
supponiamo, adesso faccio un esempio per assurdo che io conosca una sola
proposizione, che afferma: “tutti gli animali sono mortali”, se conoscessi solo
questa e parlo per assurdo ovviamente allora trarrei le spiegazioni di tutto
ciò che mi circonda da questa proposizione, perché? Perché è l’unica che
conosco, ed essendo l’unica che conosco è l’unica che mi fornisce una certezza,
è l’unica che do per vera, e perché la do per vera? Perché è l’unica cosa che
il linguaggio ha costruita, ciò che do per vero è unicamente ciò che il
linguaggio può costruire, costruisce, non ho altri modi, anche se poi il
linguaggio occidentale si è discostato per via di quel virus famoso “cave
virus”, dunque c’è, continuiamo questo esempio per assurdo, non è possibile che
esista una proposizione ma se esistesse una sola proposizione allora quella
proposizione sarebbe la mia realtà, ciò che gli umani chiamano la realtà, che è
una costruzione linguistica ovviamente, fatta in questo caso di quella unica
proposizione, l’unica cosa con cui mi trovo ad avere a che fare poi ciò che mi
circonda chiaramente può essere o esiste grazie a questa unica proposizione che
io ho: “gli umani sono mortali”. Allora se gli umani sono mortali e io so che
lo sono perché è l’unica proposizione che ho e le proposizioni che ho sono la
mia realtà allora incomincerò a trasformare a tradurre altre cose in questa
proposizione, adesso è difficile fare un esempio partendo da una proposizione,
però diciamo “tutti gli animali sono mortali quindi ciò che vedo è un umano ed
è mortale” perché io non conosco altre cose, vedo dei termosifoni e dico quello
è un umano ed è mortale, vedo un computer e dico quello è umano ed è mortale,
cioè attribuisco a qualunque cosa mi capiti sott’occhi quella unica
proposizione che conosco (ha specificato gli umani sono mortali, deve attenersi
alle persone) sì però io non so che cos’è una certa cosa per cui per me sono tutti
umani, questo sono gli umani. Sì, è un esempio piuttosto strampalato mi rendo
conto, però per un verso può essere utile perché avendo un’unica proposizione
allora la realtà è in quell’unica proposizione e non ce ne sono altre
possibili. Se estendete il discorso ad un discorso qualunque, al discorso
occidentale allora ecco che la realtà è fatta di quelle proposizioni cui il
discorso occidentale può accedere, quelle sono la realtà. Ora abbiamo detto
alcune volte come accade che si possa immaginare che una cosa del genere sia
extralinguistica, si possono fare delle congetture sul come sia potuto avvenire
però la cosa forse non è così importante, l’importante è considerare che
l’unica realtà possibile è quella che io conosco e quella che io conosco è
quella che è formata dalle proposizioni alle quali ho accesso, questa è la
realtà, fuori dalle proposizioni alle quali io ho accesso non c’è realtà
possibile, come dire in altri termini che non c’è uscita dal linguaggio, solo
ciò che è linguaggio costituisce la realtà ciò che è fuori no. Come dire che
per ciascuno la realtà non è altro che quell’insieme di proposizioni alle quali
ha accesso semplicemente. Maggiore numero di proposizioni è in condizioni di
produrre maggiore è l’eventualità che la sua nozione di realtà si modifichi,
perché si trova di fronte a proposizioni autocontraddittorie e questo urta
contro il criterio generale di realtà che per definizione è
autocontraddittorio, ma a quali condizioni è possibile che crei un numero
maggiore di proposizioni? In genere vengono escluse tutte quelle proposizioni
che minacciano, che rappresentano un pericolo per il proprio discorso, ora
essendo il proprio discorso costruito secondo gli schemi del discorso
occidentale il quale vieta di accedere alla premessa maggiore di una qualunque
argomentazione, blocca il procedimento, ecco che allora un qualunque discorso
non può costruire un numero infinito di proposizioni perché comunque quella via
gli sarà impedita, abbiamo detto che il discorso occidentale è costruito come un
entimema , così come il discorso psicotico non ha accesso alla premessa
maggiore, anzi lo impedisce ecco che il discorso che ne risulta è un discorso
che è costretto a girare a vuoto cioè non può mai interrogarsi,
autointerrogarsi, non può mai interrogare da dove viene ciò che sta affermando,
è una struttura magico ipnotica, come dice Verdiglione, tutto avviene così
magicamente, si suppone che da qualche parte ci sia, come la verità, la verità
è la premessa maggiore per definizione o la realtà si suppone che tutto sia in
un certo modo ma nessuno sa bene né come né perché. Dunque a questo punto
vengono costruite proposizioni senza che ci sia la possibilità di accedere a
ciò che le costruisce, perché non c’è la premessa maggiore, la premessa
maggiore di qualunque discorso è la sua condizione, cioè il linguaggio
ovviamente, è un discorso mutilato, impedito (sincopato) non sincopato vuol
dire che manca una battuta…entimemico, non so se esiste questo aggettivo, se
non c’è lo inventiamo ecco fatto, un entimema particolare del primo tipo cioè
manca la premessa maggiore, l’entimema di per sé non prevede che manchi la
premessa maggiore, l’entimema non è altro che un sillogismo in cui manca una
delle tre, o la maggiore o la minore o la conclusione, in questo caso manca la
maggiore, manca la premessa maggiore e quindi dicevo la costruzione che può
fare un discorso sarà sempre mutilata dall’impossibilità di accedere alla
premessa maggiore che non è altro che il linguaggio e quindi è costretto a
creare proposizioni che siano premesse minori o conclusioni, adesso per
buttarla lì potremmo dire che il discorso nevrotico predilige la premessa
minore, il discorso psicotico la conclusione, prendetela così, una boutade che
lascia il tempo che trova. Cosa vuol dire che ….(per esempio questa conclusione
che tutti gli uomini sono mortali da cui proviene questa realtà, la premessa
maggiore è che tutti gli uomini sono mortali è una costruzione linguistica)
prendiamo pure questo sillogismo: tutti gli animali sono mortali, l’uomo è un
animale e quindi l’uomo è mortale. Bene. Qui la premessa maggiore c’è ma allo
stesso tempo se noi la consideriamo con maggiore attenzione, o meglio
consideriamo con attenzione questo sillogismo in effetti manca “tutti gli
animali sono mortali “non è una premessa necessaria è una conclusione di altri
ragionamenti dei quali ragionamenti comunque manca la premessa maggiore e cioè
quella che gli consente di dire che se faccio questa affermazione è perché
esiste il linguaggio, senza il quale affermare che gli animali sono mortali non
significa assolutamente niente e pertanto questo sillogismo di Aristotele
portato ad esempio negli ultimi duemila cinquecento anni come sillogismo
BARBARA, che non è una fanciulla amica di Aristotele ma una formula per
ricordare già inventata dai medioevali, per ricordare la sequenza nei
sillogismi, vi ricordate il quadrato logico? tre A, sono tre affermazioni
universali e in effetti nel sillogismo di Aristotele si tratta di tre
affermazioni universali: tutti gli animali sono mortali, tutti gli uomini sono
animali, tutti gli uomini sono mortali. Tre affermazioni universali, tre A,
AAA, BARBARA, ecco cosa c’entra Barbara adesso? Ecco questo sillogismo portato
ad esempio, sul palmo di mano in realtà è un entimema, la premessa maggiore
manca, quella che lui spaccia per premessa maggiore non lo è affatto, perché
non è necessaria né certa, è una sua congettura, segue ad altri ragionamenti e
pertanto è un entimema, nel quale dicevamo manca la premessa maggiore, quella
necessaria, affermare che tutti gli animali sono mortali non è necessario e non
è neanche provabile, dovremmo attendere quelli successivi per poterlo affermare
con certezza e non lo possiamo fare, mentre il discorso che abbiamo costruito
invece no, non ha la struttura dell’entimema e soltanto se non ha la struttura
dell’entimema può costruire delle proposizioni che non siano vincolate a un
limite che è quello imposto dall’entimema, ora solo in questo caso le
proposizioni che costruisce in effetti possono accedere alla premessa maggiore
e quindi costruire proposizioni non soltanto necessarie ma anche meno ingenue,
ingenue è la proposizione che crede di fondarsi su una premessa maggiore
necessaria, premessa che invece necessaria non è affatto e quindi crede che la
premessa maggiore che enuncia sia necessaria mentre non lo è, soltanto con il
discorso che abbiamo inventato è possibile costruire infinità di proposizioni
perché non ha questo limite, perché non è un entimema, la premessa maggiore c’è
ed e necessaria cosa che per altro consente di costruire argomentazioni ben più
solide. Perché quando una persona comincia a porre delle questioni gli altri
cominciano prima a dileggiarlo poi ad innervosirsi e poi si imbestialiscono?
Perché in qualche modo ciascuno avverte, per questo nessuno ci vuole pensare,
l’assoluta fragilità e inconsistenza della premessa maggiore, di quella che i
filosofi chiamano la causa prima e pertanto se tale premessa maggiore è così
fragile e inconsistente ne segue che è altrettanto fragile e inconsistente
tutto ciò che ne segue e cioè tutto il discorso occidentale. Tutto ciò che gli
umani fanno pensano, disfano è altrettanto fragile e inconsistente, e allora
cosa si trova di fronte la tale persona? Si trova di fronte l’eventualità di
avere fatto tutto per nulla, se non ha degli strumento ovviamente per
affrontare una cosa del genere e allora avviene che non è più capace di
costruire proposizioni, le viene la depressione e poi si ammala e poi… (si
adegua a quella proposizione che afferma che tutti gli animali sono mortali)
certamente. Sì il depresso è quella persona che non riesce più a costruire
proposizioni perché ce ne è una che blocca l’accesso a tutte le altre, quella
che afferma che nulla ha senso, se nulla ha senso non c’è più nulla da
costruire, e quindi viene la depressione perché crede ovviamente a una cosa del
genere, prende questa proposizione che dice che nulla ha senso come una
proposizione necessaria immaginando che la premessa maggiore sia necessaria, il
che non è e se il depresso lo sapesse magari cesserebbe di deprimersi, c’è
questa eventualità. Va bene ci fermiamo qui questa sera, però proseguiamo
martedì prossimo questa questione la formazione del linguaggio cioè come si
forma il linguaggio, magari riflettendo ci troviamo qualche cosa di
interessante.