30 aprile 2025
Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo
Beierwaltes ci sta fornendo degli strumenti importantissimi, ci ha mostrato che tutto l’idealismo tedesco è neoplatonico e che tutto il pensiero filosofico, quindi, scientifico, politico, economico, ecc., è neoplatonico. Cosa vuole dire che è un pensiero neoplatonico? Vuole dire che si fonda su un ineffabile, che è presupposto costruire tutto; c’è qualcosa che non si dice, che non si può dire, ma questo qualcosa è la condizione di tutto quanto. Ora, questa è la posizione di Plotino, una posizione che ha dato molto da fare intorno alla questione dell’essere, soprattutto poi con la teologia medievale, tenendo conto che l’essere deve necessariamente corrispondere a Dio, il vero essere. Adesso parlerà dell’essere, perché in Agostino ovviamente si parla dell’essere, quindi, di Dio, perché Dio è il vero essere. Ma che cos’è questo essere? Sappiamo bene che cos’è: l’essere è ciò che una qualunque cosa vuole dire, cioè, significa. Quando si domanda che cos’è una certa cosa, la domanda non verte tanto sulla sostanza, sulla ούσία, ma sul significato di questa cosa: l’essere non è altro che il significato. È per questo motivo che ha dato così tanto da pensare, perché si pone subito un problema: c’è una cosa e c’è il suo significato, come li mettiamo insieme? Questa cosa ha già di per sé il suo significato? Il significato è altro rispetto alla cosa? Questo è un problema essenzialmente teologico. Dicevo, il significato è altro rispetto alla cosa, cioè rispetto al significante, così come l’essere è altro rispetto all’ente, come diceva già Heidegger con la sua differenza ontologica. E, allora, se ciascuna cosa è quella che è, cioè, ha un significato, e questo significato è altro rispetto alla cosa, si pone un problema, che deve essere risolto e che viene risolto o dalla metafisica o dalla dialettica hegeliana. Non sono poi così differenti. La metafisica dice semplicemente che una cosa è quella che è e non è ciò che non è: questo è un libro e non è un non-libro, è un libro e basta. La dialettica dice che questo è un libro, però per dire che è un libro serve un significato, serve il per sé, direbbe Hegel, e quindi accolgo questo significato, i molti, e li faccio ritornare sull’in sé, sul significante. In entrambi i casi, i molti sono eliminati: nel primo caso, d’autorità; nel secondo caso, attraverso una ripresa e poi un’integrazione. È curioso perché proprio Hegel compie questa operazione che è quella che fa l’anima bella, cioè, prende il contrario, ciò che è ostile e lo integra, con bontà lo fa suo, se ne appropria per cancellarlo: è questo che fa l’anima bella. È curioso perché, in effetti, Hegel non se ne accorge, ma la questione che pone rispetto alla dialettica è esattamente quella che descrive nel suo mito del servo-padrone, non c’è nessuna differenza. E, allora, ecco la questione dell’essere. Qual è il problema dell’essere? Il non-essere, naturalmente. Perché, se qualcosa è, allora tutto ciò che questa cosa non è sarà non-essere, cioè, molti. La questione era già stata intesa ventisei-ventisette secoli fa da Eraclito, per esempio, semplicemente accorgendosi che l’uno e i molti sono lo stesso, ἒν πάντα εἰναι. Però, da allora, dopo Eraclito e altri, è invece sorto il problema di cancellare i molti, perché, se l’uno è i molti, allora è impossibile - non tanto parlare, perché parliamo continuamente, non è questo il punto - ma è impossibile determinare ciò che si dice, e questo rappresenta lo scacco della volontà di potenza, che invece deve determinare tutto per imporsi. Dicevo che il problema dell’essere è il non-essere, ancora nella filosofia contemporanea. Pensate a Jean Paul Sartre: nell’Essere e il nulla, anche lui si pone il problema del nulla, cioè, del non-essere. Come risolve il problema? In parte hegelianamente, ma solo in parte, e cioè questo non-essere, questo nulla, è ciò che interviene nell’essere - essere che è pensato come ciò che resiste, ciò che c’è, ciò che è, ciò che mi oppone resistenza - all’interno, per così dire, di questo essere rimane qualche cosa, rimane il non-essere, e cioè il significato di questa cosa, perché, sì, questa cosa mi resiste, ma che cos’è, come la determino, come la manipolo, come la domino? Ecco i significati: questi sono i non-essere, perché sono altro dall’essere. E, allora, lui diceva, ogni volta che si fa un progetto, per esempio, il progetto si concretizza, si completa, si conclude, ma a quel punto questo progetto già incontra il non-essere perché c’è qualche cosa che non va, perché già penso a un’altra cosa, perché comunque non era proprio come l’avevo immaginato. E, allora, ecco l’esistenzialismo, anni ‘60. Era una rappresentazione per cui ciascuna cosa è comunque destinata a fallire. Infatti, una delle cose che disse Sartre da qualche parte, nell’Essere e il nulla, era che l’uomo è un tentativo fallito di diventare Dio: ha sempre fallito perché comunque interviene il nulla, cioè, interviene il significato, interviene il non-essere, sempre e comunque. Cosa che è stata poi intesa anche politicamente. Pensate a Trockij, che aveva teorizzato la rivoluzione permanente. Perché? Perché ogni volta che facciamo una rivoluzione, occupiamo, nel caso specifico, il palazzo d’inverno, ammazziamo tutti e ci mettiamo lì dentro, ma il giorno dopo già si incomincia a litigare sui progetti, incominciano le prime crepe, cioè, incomincia a intervenire quello che Sartre chiama il nulla a minare l’essere. Questo per dire come il problema dell’essere e del nulla sia tutt’oggi presente…
Intervento: …
Ciò che è mancato è sempre l’intendimento che essere e non-essere sono lo stesso, per usare le parole di Hegel, sono due momenti dello stesso, ma non nel senso che il non-essere deve essere integrato e diventare un essere assoluto, cioè, il pensiero assoluto per Hegel. In Sartre no, in Sartre c’è appunto questa posizione esistenzialista di rassegnazione all’impossibilità di stabilire l’essere senza il nulla. Da qui appunto l’esistenzialismo e non a caso - Sartre è stato anche romanziere - uno dei suoi scritti più noti si chiama La nausea. La nausea è di fronte al mondo, di fronte all’impossibilità di stabilire l’uno una volta per tutte. Lui si rende conto che non è possibile, che non è possibile in fondo togliere il significato dal significante, ma propugna in un certo qual modo la rivoluzione permanente di Trockij, e cioè ogni volta che stabiliamo qualcosa, sappiamo già che questo qualcosa si modificherà e che, quindi, non arriveremo mai all’essere. Ma rimane sempre neoplatonicamente un tentativo mancato di arrivare all’Uno, come diceva Sartre di diventare Dio; non ci si riesce perché c’è il significato, perché c’è il nulla, e questo nulla è ciò contro cui gli umani hanno sempre combattuto, perché è ciò che impedisce all’essere di essere un intero. Fino ad arrivare a Severino, agli astratti, che devono partecipare del concreto: quando tutti gli astratti saranno nel concreto, allora il concreto sarà un intero, cioè, sarà il Tutto. Vedete che la questione è sempre esattamente la stessa. Anche in Sartre, nonostante la “resa” di fronte all’impossibilità di stabilire l’uno, l’essere, rimane comunque l’idea di dovere arrivare all’uno, all’essere. Non passa mai per la mente che sono la stessa cosa, perché a questo punto, se sono la stessa cosa, non posso più determinare, cioè, divento orfano della verità epistemica; e, se non posso determinare, ogni cosa che affermo è presa nel dire, è presa nel discorso, è presa nel racconto, è presa in un continuo divenire. Divenire che è inarrestabile, naturalmente; il divenire è appunto questo movimento, δύναμις e ἐνέργεια, che Aristotele descrive come έντελέχειᾳ, dove questi due momenti costituiscono effettivamente l’unico movimento possibile. Cosa che Aristotele aveva ben presente, non erano passati tantissimi anni dalle argomentazioni di Zenone, sapeva che il movimento già comporta di per sé un paradosso, perché per pensarlo devo trasformarlo in quiete e, quindi, lo penso come quiete e non come movimento. Stessa cosa per quanto riguarda l’infinito e il finito o il significante e il significato. Quindi, la questione dell’essere, come ci sta descrivendo Beierwaltes, in fondo, in Agostino, ma in tutta la teologia medievale e oltre, è il problema di stabilire finalmente un qualche cosa di assoluto, cioè, che non abbia più bisogno dei molti, perché li ha dominati, li ha economizzati, cioè, gestiti. Tutta questa costruzione teologica la si può anche considerare più semplicemente o forse più banalmente come il pensiero corrente, che deve credere che ci sia una verità che possa garantire i suoi pensieri, le sue fantasie. Perché ciascuno è affascinato dalle proprie fantasie, è preso inesorabilmente dalle sue fantasie, che ritiene vere naturalmente? Perché immagina che ci sia comunque una verità e che queste fantasie si adeguino a questa verità. Heidegger fa un discorso interessante, in un testo che adesso mi sfugge, quando parla di Platone, del mito della caverna, nello scritto sulla Repubblica, dice che lì c’è come un viraggio improvviso che ha cambiato tutto rispetto alla verità. Heidegger dice che la verità passa da ἀλήθεια, nel senso del - per usare un termine che usa lui, almeno nella traduzione italiana - disascondimento, che sarebbe il non nascondimento, il non più nascosto. Questa ἀλήθεια, che per i greci era proprio, come diceva lui, il disascondimento, qualcosa che a un certo punto non è più nascosto, ma appare. Con Platone, soprattutto il Platone della Repubblica, quindi, del mito della caverna, Heidegger nota il viraggio decisivo: la verità non è più disascondimento ma è la luce del sole, è la luce che fa vedere la cosa così com’è e come sarà. Quindi, non c’è più la verità come qualcosa che si disasconde, ma è qualcosa che invece si mostra in modo definitivo. E per Platone sappiamo bene che è l’idea, l’essere e l’idea sono la stessa cosa per Platone. E, quindi, da quel momento, siccome l’essere, l’idea, è il bene assoluto, allora la verità per Platone passa da ἀλήθεια all’όρθότης, all’adeguamento: vero è ciò che si adegua al bene, ciò che è adeguato al bene assoluto, ciò che si avvicina all’adæquatio, ciò che va verso l’essere uguale. Quindi, questo passaggio dalla ἀλήθεια come disascondimento a una verità come adeguamento al bene assoluto è il passaggio che ha determinato la metafisica. Infatti, non a torto indica Platone, come fece anche Nietzsche, come l’inventore della metafisica. Comunemente si si ritiene che sia Aristotele, ma non è vero; a parte che metafisica è un termine che allora non esisteva, Aristotele parla di proto filosofia, di filosofia prima, quella che si occupa dei principi primi; poi sappiamo dove vanno a parare i principi primi: nella δόξα. Quindi, questo passaggio dall’ἀλήθεια all’όρθότης è il passaggio che segna l’avvento della metafisica. Non è un caso che tutto il neoplatonismo sia appunto neoplatonismo, cioè, si basi e si fonda su Platone. Ricordate il mito della caverna: esce fuori e vede finalmente come stanno veramente le cose, come sono veramente cose; cosa che non era pensabile per un Eraclito, per un Anassimandro, per un Democrito. Per Platone, sì: le cose stanno così. Naturalmente, vedi delle cose, ma quelle cose che vedi le vedi in quel modo, perché? Qui, naturalmente, si fermano tutti i presocratici: se vedi in questo modo è perché ti piace vederle in quel modo, direbbe Protagora; Democrito direbbe perché in qualche modo si sono combinate per una serie di vicende in questa maniera, ma possono ricombinarsi in tutt’altra maniera in qualunque momento. Per Platone no, per Platone questa cosa che vedo, questo libro, non è qualcosa di caduco e di diveniente, com’era per i presocratici, ma è garantito dall’idea, ed è l’idea che è il bene assoluto. Perché? Perché è identica a sé, immutabile ed eterna. E qui abbiamo incominciato a costruire il concetto di Dio, abbiamo messo i primi mattoncini. Immutabile, eterno; poi, si è arrivati anche al di sopra dell’eterno: prima dell’eterno, al di sopra dello spazio. Pensate a Platone al suo iperuranio: iper, sopra, uranos, cielo, quindi, sopra il cielo. Questione ripresa dal cristianesimo a proposito dell’Uno: c’è l’Uno-che-è e l’Uno-Uno, che non è propriamente; e, allora, se non è perché ce ne occupiamo?
Intervento: …
È quell’ineffabile che non si può dire, ma che è la condizione per il dire. Il Padre è l’ineffabile, ma il Padre è ciò da cui procede il Figlio, cioè il dire, la parola, il verbo. Quindi, la parola, il verbo, procede dall’ineffabile. Questo è il miracolo avviato da Platone e poi stabilito, sancito, istituzionalizzato, da Plotino. Il Figlio è il verbo, quindi, è i molti; mentre il Padre no, il Padre è l’Uno. Hanno la stessa sostanza, sono sempre lo stesso, Dio che è uno e trino. Però, la questione era e continua a essere, in effetti, una questione fondamentale, perché tutto il pensiero occidentale a tutt’oggi poggia sulla convinzione assoluta, ormai diventata cosa naturale, ovvia, che esista una verità, che debba esistere una verità; altrimenti, non posso più imporre le mie idee, i miei pensieri, e mette in difficoltà, in discussione, le cose in cui credo. Non se ne parla perché le cose in cui credo, se le credo, è perché sono così, non posso mettere in discussione la realtà delle cose, cioè, non posso mettere in discussione l’idea che sta sopra il cielo, perché non ho accesso, e se non ho accesso come faccio a modificarla, a manipolarla, ecc.? Da qui l’invenzione anche della fede, naturalmente, che era necessaria, lo sappiamo bene da Plotino. Non c’è modo di argomentare, di dimostrare nulla in tutto ciò, devi sentirlo dentro, al di fuori dell’argomentazione. L’argomentazione è quella cosa, è il Figlio, che avvicina al Padre, cioè, ciò che è fuori da ogni argomentazione. Serve l’argomentazione per accorgersi di qualche cosa che è fuori dall’argomentazione, cioè, fuori dal linguaggio. Beierwaltes era partito dalla questione della felicità. Perché la felicità? Perché la felicità è sempre stata considerata come quella condizione in cui si è raggiunta la verità. Conosco la verità, quindi, sono felice, non ho più bisogno di altro. Fondamento della vita felice è la verità assoluta. Veritas ipsa e non l’apparire di qualche verità contingente che costituisse, insieme ad altre verità, la trama di una teoria. La verità assoluta è la forma di tutte le singole verità. Fondamento universale dell’essere vero, di ciò che esiste nella creatio. Allo stesso modo essa, in quanto suprema similitudo, è la forma di ogni somiglianza. Cioè, l’analogia è retta a sistema, l’analogia diventa Dio, praticamente. Fondamento e principio, in base al quale gli enti sono simili tra di loro e sono simili al principio. Qui è chiaro che si pone la questione, ne abbiamo già parlato, ma continua a insistere questa somiglianza. Come lo so che c’è la somiglianza? Da dove viene questa cosa? La somiglianza è inserita argomentativamente all’interno di inferenze. Ma Aristotele, che era avveduto, si era accorto che tra A e B non c’è niente al mondo che garantisca che ci sia una connessione, e allora questa connessione la impongo io: ύπάρχειν, comando. La verità è la suprema somiglianza con se stessa, il supremo accordo con sé. Qui la verità è l’όρθότης, l’accordo con qualche cosa, con sé, badate bene, perché lì stava già il problema, che una cosa è in disaccordo con sé, nel senso che il λέγειν non è il τί: λέγειν τί, se dico, dico qualcosa, ma il qualcosa che dico non è il dire. Il problema è sempre lo stesso: come le metto insieme queste due cose? Come fare in modo che ci sia accordo tra i due? C’è l’adeguamento, la soluzione arriva in questo modo. La verità è identica con la immutabilità di cui si parlava, con l’essere in sé. L’essere in sé è la verità di Dio. L’espressione essere in sé, secondo Agostino, l’interpretazione dell’“Ego sum qui sum”, ossia dell’espressione fondamentale che Dio riferisce a se stesso. Come l’hanno risolto i teologi il problema del λέγειν τί? Con il Padre e il Figlio. Sono la stessa sostanza: il Padre produce, con Plotino diciamo emana, dal Padre procede il Figlio; quindi, non è più altro. Ecco che i molti vengono integrati. Prima ancora di Hegel, c’è una integrazione dei molti attraverso questa figura del Padre e del Figlio e dello Spirito. Questo essere è immutabile perché è identico a sé, quindi, non c’è movimento in questo essere, tutto è immobile, statico; anzi, non c’è neanche l’immobilità, non c’è niente di niente. Però, il problema connesso con il λέγειν τί è risolto dalla processione Padre-Figlio, dove è come se il τί procedesse dal λέγειν; non che sono la stessa cosa, sono distinti, sì, ma sono la stessa cosa, non c’è l’uno senza l’altro. E, soprattutto, non c’è la necessità né la possibilità di ricondurre l’uno all’altro, a scapito suo: se tolgo il τί scompare anche il λέγειν, e viceversa. Ricordate il λέγειν τί? È il dire qualcosa. E il λέγειν τί κατά τίνός è il dire qualcosa, su qualche cos’altro. Quindi, la risoluzione di questo problema è già qui, è già nei primi Padri della Chiesa. Quindi, dice, l’essere è immutabile, ma “deve” essere immutabile, perché ciò che produce, cioè, il Figlio, non-essere – però, parlare di non-essere già avrebbe comportato il rogo – ma questo Padre che procede nel Figlio… Questo Figlio deve naturalmente essere della stessa sostanza e, infatti, è consustanziale al Padre. Se è altro gli si oppone, diventa il nulla. Possiamo dire che il Figlio di Dio è il nulla? Vedete come in questo modo si è incominciato a risolvere il problema, il problema del linguaggio, perché tutta la teologia, come abbiamo già detto, è un un’operazione colossale per risolvere il problema del linguaggio, cioè questo problema qui del λέγειν τί. Il τί si oppone al λέγειν, è il negativo del λέγειν, ma non si possono eliminare, non posso eliminare uno dei due a vantaggio dell’altro, perché scompare anche l’altro; ma gli si oppone come il negativo - Hegel lo aveva intravisto: il per sé è il negativo dell’in sé. Quindi, c’è qualche cosa che si oppone al Padre, ma se c’è qualche cosa che si oppone al Padre, allora il Padre non è più l’essere tutto, l’essere intero, perché c’è qualche cosa che gli si oppone, che è altro. C’è un’alterità, e allora il Padre rischia di diventare lui altro da sé, che è una cosa impensabile. Immutabilmente a se stesso, si contrappone a una forma inferiore di essere che, in quanto creato e temporale, non è e non può mai essere propriamente se stesso. Lui crea delle cose e dopo queste cose sono il creato, ciò che lui ha creato. L’essere è quindi l’essere supremo, non il supremo all’interno della medesima dimensione, ma la suprema unità nella molteplicità. Il compito è sempre questo: ricondurre tutto all’Uno. Esso è l’essere genuino perché si fonda su se stesso senza essere dedotto… Cioè, non viene da altro. È l’essere vero perché rimane sempre se stesso e si custodisce come tale... Rimane accanto a se stesso, cioè, non c’è movimento, non c’è alterazione. …è l’essere semplice e puro perché esiste in sé senza differenza, e perciò è semplicemente se stesso. Tutti questi aspetti dell’unitario essere di Dio vengono tenuti fermi allorché l’essere divino viene pensato come la verità in sé, il supremo accordo con sé.... Ecco l’accordo con sé, che bisogna assolutamente stabilire, perché non c’è accordo fra il λέγειν e il τί, sono in disaccordo, si oppongono, sono diversi, e bisogna trovare un accordo, trovare un accordo tra la A e la B nell’implicazione “se A allora B”, accordo che già Aristotele diceva che non c’è. …la pura autoidentità. Il predicato verità coglie l’essere vero di Dio, il suo essere in sé, il suo immutabile presente intemporale, il puro è, ma insieme il suo essere principio che permane in sé nell’atto con cui costituisce l’essere. E qui si incontrano difficoltà, naturalmente.
Intervento: Vorrebbe che fosse l’immutabile divenire…
Esatto, questa era l’idea portante: bisogna trovare un immutabile divenire, un finito infinito. L’è di Dio diventa criterio e impulso per il movimento di trascendenza dell’uomo. Pensa a Dio e scoprirai l’è, dove non può esistere il fu e il sarà. Di conseguenza, per essere anche tu così trascendi il tempo. Il tempo ha costituito sempre un intralcio, perché il tempo è movimento, spostamento, divenire. E quindi, naturalmente, Dio deve essere immutabile e fuori del tempo; l’eternità di Dio viene da lì, non può essere soggetto al mutamento del tempo, e quindi è eterno. Il problema è che è il tempo che consente la possibilità di significare qualche cosa, cioè, è il rinvio, il rimando. Se tolgo questo tolgo anche a Dio. Da qui la teologia negativa, altra soluzione. La teologia negativa o apofatica, come dicevano i teologi antichi: di Dio posso solo dire ciò che non è. L’aspirazione alla felicità coincide con la volontà di possedere l’immortalità. Cioè, essere fuori del tempo, essere fuori del divenire, essere identico. Tutti gli uomini vogliono essere beati e, se essi veramente lo desiderano, essi desiderano nel contempo essere immortali. Cioè, vogliono sbarazzarsi dei molti, perché l’immortalità comporta l’identità a sé, la non diversità, un non diveniente.
Intervento: È un passaggio un po’ gnostico…
Sì, c’è sempre, questa oscillazione nel neoplatonismo con lo gnosticismo, è facile scivolare. Qui in Agostino, nei Dialoghi ho segnato solo una frase, ma importante; dice della felicità: È non essere, infatti, ciò che soggiace al divenire, alla dissoluzione, al cangiamento e che è soggetto come ad un morire momento per momento. Il non essere e il divenire, è la morte. La vita è Dio, è l’immortale, è il non-tempo, è l’intemporale. Questa è la vita, il divenire è la morte. Un po’ riprende quello che diceva anche Platone dell’uno e dei molti: l’uno è il bene e i molti sono il male.