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29 gennaio 2025

 

Christos Yannaràs Heidegger e Dionigi Areopagita. Assenza e ignoranza di Dio

 

Cosa dice Massimo il Confessore? Dio è causa anche del nulla e ogni cosa è posteriore a lui, sia nei confronti dell’essere che del non-essere, ché il nulla stesso è una privazione; esso, infatti, ha essere per il fatto di non essere alcunché degli enti, e Dio è non-ente perché è e sta al di sopra di tutto, essendo egli ogni cosa e non essendo nulla in quanto trascendente, o, per dirla meglio, perché sta al di là di ogni trascendenza e di ogni sostanza. Questa era la cosa che occorreva fare credere. L’apofatismo rinvia propriamente a questa unione con Dio, che è superiore ad ogni potenza intellettiva e spirituale. Il superiore, pertanto, non esclude l’inferiore. Ecco perché l’apofatismo non rinuncia a fare ricorso alla razionalità e alla potenza noetica umana. L’apofatismo, però, ritiene che la conoscenza superiore, derivante dall’unione con Dio, non si può esaurire a quel livello inferiore che offrono i concetti noetici e le formulazioni razionali. Il valore e l’unità di questo livello inferiore consiste più precisamente nel fatto che esso rinvia all’unione superiore. È noto che ci sono cose negli umani che non possono essere dette, non possono essere spiegate… Le emozioni, le sensazioni. Heidegger analizza in maniera magistrale questo estraniamento, questa coscienza del niente, da cui sorge l’esistenza umana. E l’importanza che ha per la teologia apofatica sia la teoria filosofica di Heidegger che, più in generale, la filosofia nichilista contemporanea dell’esistenzialismo, consiste proprio nell’analisi dei presupposti della teognosia (conoscenza di Dio) apofatica vale a dire, nella chiarificazione dell’impossibilità, da parte dell’uomo decaduto, di conoscere Dio. Decaduto in senso plotiniano, cioè, è sceso giù dall’Uno ed è diventato materia. Nel rifiuto ardito di ogni consolazione necessariamente razionale di ogni relativismo nell’ambito della teologia, di ogni metafisica atta ad ampliare la coscienza del vuoto esistenziale, della non relazione. Così la tesi di Heidegger risulta più rivelatrice di qualsiasi altra teologia razionale, dal momento che essa conduce alla consapevolezza che ha di sé, la natura decaduta ed una tale consapevolezza costituisce il presupposto per accedere alla realizzazione della rigenerazione dell’uomo in questo. Qual è il discorso qui? Heidegger dice che l’uomo, l’“esserci”, è un progetto gettato; infatti, parla di ex-stasi, essere gettato fuori. L’essere gettato fuori per Heidegger comporta che l’uomo, l’esserci, è sempre altrove, è sempre in questa gettatezza, non è mai lì, non può mai essere lì perché, se c’è, è in quanto preso nella gettatezza, cioè, preso nel progetto gettato. Come se a questo punto questo l’esserci diventasse qualche cosa di simile a ciò che per Plotino era l’Uno, qualcosa che, quindi, non c’è se non nelle sue manifestazioni, come Dio per i cristiani: non possiamo conoscere Dio se non attraverso le sue varie manifestazioni. Quindi, l’idea di Christos Yannaràs è che anche Heidegger abbia riprodotto senza volere, senza sapere, questo preciso aspetto della teologia apofatica, e cioè possiamo definire l’esserci solo attraverso, come direbbe Christos Yannaràs, una teologia aferetica, dove con aferetica si intende la negazione. Quindi, l’esserci, l’uomo, è tale in quanto non c’è propriamente, possiamo dire dell’uomo solo ciò che non è, perché ciascuna volta lo determiniamo in quanto gettatezza, in quanto sempre ex-stasi, cioè, sempre come fuori da sé, sempre come altro da sé. Ora, è così in Heidegger? Sì e no. Certo, c’è questo richiamo che pone in evidenza Yannaràs, ma il problema in Heidegger, e non solo in lui, è il fatto di tenere separati - è questo che lo rende neoplatonico - l’uno dai molti. E questo è evidente anche nel suo scritto principale, Essere e tempo, dove dice che l’essere e l’ente sono due istanze separate. Lui accusa tutta la filosofia occidentale di avere preso l’ente come essere, mentre l’ente non è l’essere, l’essere è un’altra cosa, una cosa è l’essere e un’altra l’ente. Ma l’essere non c’è, l’essere si manifesta solo come la Lichtung. Lui tiene separati l’essere e l’ente; ciò cui non è mai giunto a intendere è che essere e ente sono due facce dello stesso: non c’è l’essere senza ente, così come non c’è l’ente senza essere. E qui c’è tutto un discorso che volevo fare, una questione colossale, ma lo farò dopo. Il Corpus Areopagiticum esprime con chiarezza l’apofaticità della rivelazione in Cristo. Per quanto riguarda l’amore per gli uomini, caratteristico di Cristo, penso che la teologia voglia alludere al fatto che questa persona sovraessenziale, assunta l’essenza umana, è venuta fuori dall’arcano per rivelarsi secondo la nostra capacità. Cioè, si è abbassato al nostro livello. Nascosto però, egli rimane anche dopo la sua apparizione… Qui c’è tutto Cusano, che arriverà dopo con il suo Dio nascosto. …o, per esprimersi in termini più divini, nella sua stessa apparizione. Questo mistero di Gesù rimane occulto, non può essere spiegato da nessuna parola e da nessuna intelligenza; anche se oggetto di discorsi, rimane ineffabile e, anche se oggetto di pensieri, rimane sconosciuto. Quindi, né con l’oggettività semantica della formulazione discorsiva, né attraverso categorie noetiche, è possibile spiegare il fatto concreto, razionalmente contraddittorio, dell’incarnazione di Dio. Per Kant questa cosa sarebbe falsa, perché per lui è vero ciò che non è autocontraddittorio. Se la stessa alterità del soggetto umano è accessibile attraverso l’immediatezza dell’esperienza sensibile, è impossibile che venga determinato in base a categorie razionali e oggettive, a maggior ragione non potrà essere determinata la verità esistenziale della persona teandrica del Cristo. Teandrico è il Dio fatto uomo. Se poi alcuni enti non ne partecipano (di Cristo), non dipende dall’inerzia o dalla breve durata della sua trasmissione luminosa, ma dall’incapacità degli enti stessi di ricevere la luce, non aprendosi alla partecipazione della stessa. Per quale motivo i loghia (i discorsi) garantiscono l’universalità unificatrice della conoscenza teologica? Proprio perché è un lógos ecclesiastico, lógos di comunione di persone che partecipano alla stessa esperienza di vita, lógos che istituisce e inizia questa esperienza. I detti sacri della Chiesa non sono trattati dalle finalità filosofiche e apodittiche, presuppongono per la loro comprensione, la manipolazione personale, la relazione personale con alcuni avi, i quali ci insegnano che la conoscenza è partecipazione alla vita nuova e libertà dalla morte. Senza la manipolazione non si va da nessuna parte. È la manipolazione che consente di accedere alla conoscenza. Ora, qui c’è una questione divertente. L’autore del Corpus Areopagiticum (Dionigi Areopagita) cita il seguente passo dell’Antico Testamento “l’amor tuo era per me più dolce che l’amor della donna”, proprio per evidenziare i connotati del desiderio erotico. Trattasi della medesima potenza amorosa e dello stesso impeto unificatore che ispira sia l’eros verso l’uomo che l’eros verso Dio. C’è una fortissima connotazione erotica nel cristianesimo, che spiega in parte il suo successo, anche e non solo naturalmente. La passione che si sente nei confronti di una persona dell’altro sesso, quando non è maniaco-ossessiva, è passione volta ad una pienezza di vita, ché è proprio questa pienezza che promette e verso cui tende ogni mutuo desiderio erotico. Qui c’è già l’idea che la pienezza venga dall’unione con un’altra persona. Perché dovrebbe essere così? Non è spiegato. Dio, in quanto persona, che trovasi in un’incontenibile bontà erotica, costituisce il Vangelo della Chiesa, il messaggio della sua esperienza. Colui che è la causa di tutto, per la sovrabbondanza della sua erotica bontà, trabocca fuori di sé, ed è come se si compiacesse della bontà, dell’amore e dell’eros, e della sua dimora che sta al di sopra di tutto e di tutti. Egli discende verso ogni cosa secondo una sua potenza sovrasostanziale che non lo abbandona. Perciò, coloro che hanno una solida conoscenza delle cose divine lo chiamano amante geloso per via del suo incontenibile eros verso tutti gli enti e perché eccita l’appetito erotico nei suoi confronti gli enti in virtù del quale, sia le cose desiderate che ciò che egli accoglie nella sua provvidenza, sono oggetto di gelosia. Inafferrabile e inavvicinabile, secondo la sua ousia, colui che sta al di sopra di tutto e di tutti, Dio rivela se stesso, a mo’ di operazione personale di passione erotica nei confronti di ogni sua creatura. Egli discende verso ogni cosa come sovrabbondanza in atto di bontà erotica e come amante geloso di un’esclusiva relazione personale, non solo attraverso la realtà della sua incarnazione, ma anche con lo stesso modo della sua esistenza e operazione estatica. Secondo una potenza estatica, egli trabocca fuori di sé come una capacità operativa di comunione e relazione personale. Ecco la connessione che faceva prima con Heidegger: l’ex-stasi, cioè, l’essere gettato fuori. Conclude dicendo La conoscenza apofatica delle verità divine non si può esprimere attraverso categorie noetiche, di formulazione oggettiva, ma solo attraverso espressioni di passione erotica. Ciò che la filosofia chiama sommo bene è per la chiesa bellezza partecipabile. Diciamo che kallon (buono) è ciò che partecipa al kalós, la bellezza, e per kalós intendiamo la partecipazione alla causa che rende bella ogni cosa bella. Perché c’è il bello assoluto. Ora, questo è un testo di teologia contemporanea. Cosa trarre da una questione del genere, cioè, dalla teologia apofatica? La teologia apofatica non è altro che il pensare comune, cioè, quel pensare che presuppone che ci sia qualche cosa che non può dirsi che c’è, che non può dirsi perché non ci sono le parole, perché non riusciamo a dire completamente ciò che sentiamo. L’invenzione dell’ineffabile è un’invenzione neoplatonica, non esisteva prima, non c’era nulla di ineffabile. Anzi, l’ineffabile sembrava quasi un’offesa all’intelligenza. La teologia apofatica, dicevo, non è altro che il pensare comune, ormai è diventato il pensare comune, non c’è un altro modo di pensare; quindi, l’idea che ci sia un bene assoluto, un giusto assoluto, un vero assoluto. Tutte cose che fanno da garanzia a ciò che non può essere detto, a ciò che non può essere dimostrato. Infatti, l’ineffabile sorge a un certo punto, nei primi secoli dopo Cristo con Plotino, proprio a fronte dell’impossibilità, da parte dei presocratici, dei sofisti e dello stesso Aristotele, dell’impossibilità della dimostrazione: non c’è la verità epistemica. Se non c’è la verità epistemica dobbiamo inventarci qualche cos’altro. E Platone qui è venuto in soccorso. Era già tutto pronto, bastava solo qualche piccolo aggiustamento e il discorso era già bell’e fatto: le cose stanno lassù, le idee stanno lassù, sono ineffabili, identiche a sé, ma non si possono dire; posso soltanto dire i sensibili, i particolari, ma l’universale non può essere detto in quanto tale. E qui veniamo alla questione cui accennavo poc’anzi. È vero che il neoplatonismo ha costruito, inventato, quantomeno modificato, la struttura dell’inferenza in modo definitivo? La struttura dell’inferenza nel neoplatonismo, da Plotino in poi, non può non tenere conto delle ipostasi. In Plotino, sappiamo, c’è l’Uno, l’Intelletto e l’Anima. Ma come si passa da una ipostasi all’altra? Nella processione, per procedere dall’Uno all’Intelletto - Proclo l’ha detto in modo preciso - occorre che non ci siano salti, occorre che ci sia un progredire continuo, un continuo e non un discreto. Questa forma di inferenza, che prende l’avvio dalle ipostasi plotiniane, cioè dalla processione, è totalmente differente dal sistema aristotelico, cioè, dal sillogismo. Prendete il sillogismo Barbara: tutte le A sono B, tutte le B sono C, tutte le A sono C. C’è forse processione fra questi tre momenti del sillogismo? No. In che modo da “tutte le A sono B” si passerebbe a “tutte le B sono C”? Dov’è il passaggio? Sono cose totalmente separate. La stessa conclusione che sorge non è qualcosa che procede dalla prima alla seconda e poi alla terza. La conclusione è costruita letteralmente dall’inserzione della premessa minore, che non procede dalla premessa maggiore, per nulla, ce l’ho messa io; perché non c’è nulla al mondo che mi possa confermare o dimostrare che da questa proposizione “tutte le A sono B” si passi alla proposizione “tutte le B sono C”. Cosa c’è che mi consente questo passaggio? Niente, è l’ύμάρχειν, lo decido io, ce lo metto io questo elemento per costruire la conclusione, che è una costruzione, una costruzione logica. Quindi, vedete immediatamente la differenza tra l’inferenza neoplatonica e il sillogismo aristotelico. Infatti, tutte le inferenze neoplatoniche non sono mai sillogismi. Consideriamo Anselmo d’Aosta e la sua prova ontologica dell’esistenza di Dio: non è un sillogismo perché manca il medio. Nella prova ontologica dell’esistenza di Dio di Anselmo si parte dall’idea “posso pensare la cosa più grande di tutte? La penso”. Ma in questa cosa più grande è già implicito il fatto che non solo sia un pensiero, naturalmente, ma che ci sia anche la realtà. Se è la cosa più grande di tutte non può non esserci anche la realtà; quindi, la cosa più grande di tutte che posso pensare, che è Dio, è anche reale, ché non può non esserlo, altrimenti non sarebbe la cosa più grande. Questa è la prova ontologica dell’esistenza di Dio di Anselmo d’Aosta. Non c’è nessun sillogismo, è una processione: si procede dal pensiero di tutto quanto, e all’interno del pensiero di tutto c’è anche già la conclusione, perché è implicita. Nel sillogismo aristotelico, invece, la conclusione è una costruzione che non è affatto implicita, perché dire che “tutte le A sono C” non è affatto implicita in “tutte le A sono B”, per nulla. Qui, naturalmente, occorrerebbe che qualcuno di buona volontà andasse leggersi la Logica dei termini di Guglielmo di Ockham. Sarebbe da andare a rileggere anche Abelardo. Solo per citarne due.

Intervento: È costruita già sapendo qual è la conclusione.

È già presente, esattamente come nelle tre ipostasi plotiniane. C’è l’Uno, da cui procede tutto quanto, quindi, qualunque cosa è già implicita nell’Uno, perché dentro l’Uno c’è tutto. È esattamente quello che dice Anselmo, anche se lui non si dichiarava neoplatonico rimane neoplatonico, perché essendo cristiano è anche neoplatonico: nella cosa più grande che si possa pensare, cioè nell’Uno, c’è già tutto, quindi c’è anche la realtà, c’è già tutto. Ora, riformulo la domanda da cui sono partito: il neoplatonismo ha costruito, quantomeno modificato, il concetto stesso di inferenza, di implicazione? L’ha modificato per i propri scopi. In Aristotele non era così. In tutti i sillogismi la conclusione non è mai implicita nella premessa maggiore, perché la caratteristica del sillogismo è di costruire qualche cosa che non è presente nella premessa maggiore e nella minore. Nelle due premesse non è presente, ma costruisce una terza cosa che non c’era prima, ed è questo il guadagno del sillogismo, trova cioè qualcosa che non era presente né nella maggiore né nella minore, ma è un’altra cosa, una terza cosa. Il modo sillogistico della logica formale è presente naturalmente nel Medioevo, ma è presente soltanto là dove si parla di enunciati, di discorsi, di argomentazioni, ma mai quando si parla di Dio, perché comporterebbe - ed è questo il motivo per cui probabilmente nella logica medievale non c’è traccia di una cosa del genere, perché non deve esserci traccia di una cosa del genere, perché se ci fosse, vorrebbe dire che qualcuno ha posto l’eventualità che Dio sia il prodotto di un inferenza, di un sillogismo. C’è ancora del lavoro da fare perché bisognerebbe saggiare altri testi. Ma ciò che mi muove a pensare che, in effetti, sia così è il fatto che non possa non essere che così, perché altrimenti comporterebbe, appunto, che Dio sarebbe il prodotto, il risultato di un’inferenza, di un sillogismo. E questo non è assolutamente ammissibile. Come dire che Dio viene dopo, per così dire, viene dopo gli astratti, direbbe Severino. Questo modo di pensare l’inferenza è quello che, in fondo, giustifica tutta la teologia negativa, tutto l’apofatismo noetico, dal momento che pensare per sillogismi va bene, ma solo fino a un certo punto, oltre i sillogismi non rendono più conto delle cose, per esempio di quello che io sento dentro. Ma la cosa si estende: la scienza non può spiegare tutto, e allora ciò che resta inspiegato, come lo spieghiamo? Con l’ineffabile. D’altra parte, come spieghiamo la teoria dei limiti? Quindi, appare necessario che tutta la logica medioevale, che poi è diventata la logica, quella che usiamo oggi, sia una logica teologica, una teologia apofatica, e cioè una logica fondata sull’ineffabile. Posso dimostrare la logica? No, come sappiamo non c’è una dimostrazione logica della logica, ci si ritrova rimbalzati da una cosa all’altra. Se ne è accorto vagamente Mendelson, che è arrivato alla stessa conclusione di Aristotele, ma senza la potenza di Aristotele: alla fine c’è l’analogia, cioè, la doxa; è con questa che ci confrontiamo, la doxa. Ora, Aristotele si rende conto che l’unica cosa cui si può arrivare, il principio primo, è la doxa, ed è inutile andare a cercare oltre perché si incontra sempre altra a doxa; per Mendelson no, lui semplicemente non ne parla più e bell’e fatto, che è il sistema più rapido e più efficace: si censura la questione. È questo che gli consente di scrivere 250 pagine di calcolo proposizionale, che, a partire da quello che lui stesso dice, non significa assolutamente niente. Dicevo che tutta la logica medioevale è una teologia. La logica medioevale è la logica contemporanea, con la quale tutti pensano, che è fondata sull’ineffabile. Che è un altro modo per giungere alla stessa questione, che avevamo posto forse qualche volta fa, e cioè che tutto il pensiero occidentale è fondato sull’ineffabile. Naturalmente, si arriva una considerazione del genere dopo una lunghissima serie di giri e di pensieri teoretici, non è un’intuizione che sorge così. Aristotele ci è arrivato, certo: tutta la logica, gli Analitici secondi, è fondata su che cosa? Sulla doxa, perché l’universale è fatto di particolari, l’universale in quanto tale non esiste senza i particolari, cioè l’uno senza molti non esiste. La logica medievale ha dovuto porre un rimedio a questo problema, che l’uno senza i molti non esiste, e affermare, invece, dimostrare che invece esiste l’uno prima dei molti e che è lui la causa dei molti. Senza riuscire a fare niente, naturalmente, perché non è pensabile una cosa del genere, tranne che con la fede. Già Plotino aveva inteso benissimo la cosa, cioè non puoi credere nell’Uno, devi avere la fede, non è credibile, così come Dio, non puoi credere in Dio. Certo, si dice così, ma non è il frutto di un pensiero, di un’argomentazione, perché l’argomentazione porta a distruggere immediatamente tutto quanto. Quindi, tutte le differenze che vengono compiute. Sono inferenze - così per il momento ci appare - inferenze neoplatoniche, cioè inferenze che muovono dall’idea - e questo lo diceva Proclo, ma era già in nuce in Porfirio: la divina analogia, è solo l’analogia che ci consente di risalire. Ma risalire dove? Perché, quali garanzie offre l’analogia? L’analogia è la doxa, né più né meno. Occorreva - e questo è quello che ha fatto Proclo - divinizzare anche l’analogia. Perché l’ha divinizzata? Perché è quella che ci consente di avvicinarci a Dio e, avvicinandoci a Dio, è divina anche lei.

Intervento: …

Certo, si arriva all’universale attraverso l’analogia, e cioè mettendo insieme una serie di particolari. Il problema rimane sempre quello: quanti e quali particolari devo mettere insieme? Quelli che decido io e, naturalmente, quelli che decido io sono quelli giusti. Ora, la questione che a noi interessa è l’implicazione. È davvero così, e cioè ogni implicazione oramai ha questa impronta neoplatonica, per cui non è pensabile una implicazione formale, sillogistica, se non per delle argomentazioni particolari? Ma quando si parla di questioni importanti, il bene, la giustizia, il vero, il bello, ecc., l’argomentazione non basta più, ci vuole la fede, ci vuole l’implicazione neoplatonica, quella che muove dall’idea che esista un bello assoluto, che esista un vero assoluto, un giusto assoluto, da cui si discende, per cui tutto ciò che discende dal bene assoluto mantiene naturalmente l’idea di bene assoluto. Non è più una costruzione ma una processione. E cambia tutto, perché la conclusione di Aristotele è una costruzione, letteralmente: ho una premessa maggiore, ci metto una minore e poi concludo un qualche cosa che non è implicito. Infatti, è proprio il fatto di essere costretto a fare un sillogismo che ci dice che non è implicito, sennò bastava enunciare la cosa ed era già tutto lì. Quindi, se si tratta di particolari si possono benissimo utilizzare i sillogismi, ma di fronte agli universali no, perché l’universale non deve essere un risultato. L’universale è il primo, è l’uno, è Dio, da cui scende l’assoluto, il bene assoluto. Il bene può essere dimostrato? No. E, allora, perché uno ci crede? A che scopo? Lo scopo è naturalmente quello retorico: se io riesco a fare in modo che le persone credano che esiste un bene assoluto, io, rifacendomi a questa idea di bene assoluto, posso farvi discendere tutto quello che mi pare. Questo è l’utilizzo, ma che esista un bene assoluto, un giusto assoluto, una verità assoluta, sono tutte invenzioni, li abbiamo inventati, così come abbiamo inventato Dio, è la stessa cosa. Dall’altra parte, Dio è la verità, è il bene, è tutto quanto. Ora, per fare un lavoro così occorrerebbe mettersi a leggere almeno La logica dei termini di Guglielmo di Ockham e Abelardo, anche lui. Abelardo scrisse un saggio, Sic et non, È così ma anche no, che è un testo considerato logico di Abelardo. Io ho dato un’occhiata alla logica medievale, ma di una cosa del genere non c’è traccia. D’altra parte, i logici medioevali non avevano nessuna intenzione né alcuna utilità a porre una questione del genere, perché avrebbe messo in discussione tutto quanto. Porre l’universale come risultato significa porre Dio come una costruzione. Ecco perché, rispetto all’universale, ogni inferenza deve essere neoplatonica. Lo abbiamo visto anche nella dimostrazione ontologica di Dio di Anselmo, non c’è nessun sillogismo, è una processione, che presuppone l’uno, cioè Dio; una volta presupposto l’uno, Dio, si discende, in un climax discendente, e si trovano tutte le altre cose, che sono già implicite, e devono essere già implicite, perché in Dio c’è già tutto. Se non fossero implicite vorrebbe dire che in Dio manca qualche cosa. E il sillogismo insinua questa cosa qui, perché la conclusione del sillogismo è qualche cosa che non è implicito nella premessa maggiore, cioè, nell’universale, ma viene costruito in seguito. Non è implicito, non c’è nella premessa universale, cioè nella premessa universale, cioè non c’è in Dio, ma viene costruito in seguito. E la logica medievale non poteva in nessun modo accogliere una cosa del genere. Ora, l’altra volta dicevo delle dottrine non scritte di Platone. Vediamo se troviamo qualche cosa, qualche cosa che possiamo riprendere perché utile a noi, per ciò che stiamo facendo, naturalmente. Soprattutto il Parmenide di Platone, perché lì c’è una questione, che riprenderemo, sull’Uno, come viene costruito l’Uno dal neoplatonismo. Che non è naturalmente l’uno di Parmenide, è l’uno di Parmenide platonizzato. Dopodiché leggeremo Agostino di Beierwaltes e insieme anche quell’altro testo che si chiama Platonismo e idealismo.