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29 gennaio 2020

 

Scienza della logica di G. W. F. Hegel

 

Prefazione alla seconda edizione, pag. 9: A questa rielaborazione della Scienza della logica, della quale viene qui in luce il primo volume, io mi sono bensì accinto colla piena coscienza sia della difficoltà della materia di per se stessa e quindi della sua esposizione, sia dello stato imperfetto in cui la trattazione era rimasta nella prima edizione; ma per quanto, avendo ancora per molti anni continuato ad occuparmi di questa scienza, mi sia affaticato a riparare a questa imperfezione, sento nondimeno di avere assai ragioni per ricorrere ancora all’indulgenza del lettore. Ora un titolo a questa indulgenza può anzitutto fondarsi nella circostanza che la metafisica e la logica dei tempi andati non fornivano, per il contenuto, quasi altro che un materiale esterno. Per quanto queste discipline siano state universalmente e abbondantemente coltivate (l’ultima fino ai nostri tempi), pure cotesta trattazione non toccò il lato speculativo. Anzi, non si fece, nell’insieme, che riportar sempre lo stesso materiale, ora assottigliandolo fino ad una triviale superficialità, ora invece ripescando di nuovo e tirandosi dietro tutta quanta la vecchia zavorra. Vi ho letto questo non tanto per l’interesse teorico quanto per mostrarvi l’approccio di Hegel, che si era reso conto che tutta la trattazione della logica, compresa quella degli antichi, per esempio di Aristotele, in effetti, abbia una sorta di vizio di forma, e cioè ha sempre parlato della logica tentando di definirla ma, cercando di fare questo, utilizzando altre cose rispetto alla logica. L’obiettivo di Hegel, invece, è di mostrare la logica in atto, partendo unicamente dalla logica senza distinguerla dal metodo (metodo e logica sono la stessa cosa), partendo, quindi, unicamente dagli elementi che intervengono pensando logicamente, cioè, senza fare ricorso a qualcosa di esterno alla logica stessa. A pag. 10. Molto più importante è che in una lingua le determinazioni del pensiero sian venute a mettersi in rilievo come sostantivi e verbi, ricevendo così l’impronta dell’oggettività. La lingua tedesca si trova in questo molto avvantaggiata in confronto delle altre lingue moderne. Molte sue parole possiedono anzi anche la proprietà di avere significati non solo diversi, ma opposti, cosicché anche in questo non si può non riconoscere un certo spirito speculativo della lingua. Per il pensiero può ben essere una gioia d’imbattersi in coteste parole, e di riscontrare già in una maniera ingenua, lessicalmente, in una sola parola di opposti significati, quella unione degli opposti che è un risultato della speculazione, benché sia contraddittoria per l’intelletto. Vedete come già incomincia ad apprezzare il fatto che ci siano parole che hanno un significato opposto; per Hegel sono parole che contengono in se stesse la loro negazione, il negativo. A pag. 11. Ora che in tal guisa si faccia un passo innanzi al di là della forma dell’astrazione, dell’identità, per cui una determinatezza, per es. come forza, è resa indipendentemente dalle altre; che in tal guisa si dia risalto alla forma del determinare, ella differenza, la qual resta insieme, come un che di inseparabile, nell’identità, facendo così di tal forma una rappresentazione correte, - tutto cotesto è di una importanza infinita. Si tratta di accorgersi che fin ad adesso si è sempre cercato di tenere separate le cose. A pag. 13. …l’esattezza e verità del pensiero che vi s’immischia vien fatta interamente dipendere dal dato stesso, non attribuendosi alle determinazioni del pensiero per sé prese alcuna efficacia determinatrice del contenuto. Quindi, non sono le cose in quanto se stesse a essere importanti nel pensiero normale, ma il dato, cioè qualcosa di esterno dal quale si immagina di dover ricavare, per es., una definizione. Un tale uso delle categorie, che fu già chiamato la logica naturale, è inconscio; e se nella riflessione scientifica si assegna ad esse categorie nello spirito quel rapporto secondo cui esse servono come mezzi, si fa del pensare in generale un che di subordinato alle altre determinazioni spirituali. Delle nostre sensazioni, dei nostri istinti, dei nostri interessi, noi non diciamo già che ci servano. Non sono dei mezzi per qualche cosa. Anzi, essi valgono come forze e potenze indipendenti, cosicché noi siamo appunto questo stesso sentire, questo bramare e voler la tale cosa, questo porre il nostro interesse in questo o in quest’altro. Noi possiamo anzi acquistar coscienza di esser noi, che serviamo ai nostri sentimenti, istinti, passioni, interessi (per non parlar delle abitudini), piuttosto che di aver quelli in nostro possesso; meno che mai, dunque, potremmo aver coscienza che, nella nostra intima unità con quelli, essi ci servano come mezzi. Qui sta incominciando a mettere in discussione un metodo rispetto alla scienza della logica, che è quello, come dicevo prima, di ricavare una definizione della logica da qualche cosa che non è la logica. Ora dei concetti delle cose non diremo certamente che li dominiamo, o che le determinazioni di pensiero, delle quali essi sono il complesso, ci servano. All’incontro, il nostro pensiero deve limitarsi a seconda di esse, e il nostro arbitrio o la nostra libertà non deve volerle acconciare a modo suo. In quanto dunque il pensiero soggettivo è il nostro più proprio ed intimo atto, e il concetto oggettivo delle cose costituisce la loro stessa natura, noi non possiamo tirarci fuori da quell’atto, non possiamo stare al di sopra di esso, come nemmeno possiamo sorpassare la natura delle cose. Possiamo ciò nondimeno prescindere dall’ultima determinazione. Essa coincide colla prima, in quanto darebbe una relazione dei nostri pensieri verso la cosa; ma con ciò non darebbe se non un che di vuoto, poiché la cosa ne risulterebbe insieme posta quale una regola per i nostri concetti, mentre per noi la cosa non può essere appunto altro che i vari concetti che di essa abbiamo. Quando la filosofia critica intende il rapporto di questi tre termini come se noi mettessimo i pensieri come un mezzo fra noi e le cose piuttosto che concluderci, o unirci, con esse, ad una tal maniera di vedere è da opporre la semplice osservazione che coteste cose appunto, che dovrebbero trovarsi all’altro estremo, al di là di noi e al di là dei pensieri che ad esse si riferiscono, sono esse stesse enti di ragione, anzi, come affatto indeterminate, un unico ente di ragione – la cosiddetta Cosa in sé della vuota astrazione. Se noi immaginiamo che i nostri pensieri stiano in mezzo tra noi e le cose, chiaramente ci neghiamo la possibilità di avere accesso alla cosa e, quindi, la cosa in sé, rimane appunto inaccessibile. A pag. 16. Il punto di maggior rilievo, per la natura dello spirito, è il rapporto non solo di ciò che lo spirito è in sé, verso quello ch’esso è realmente, ma di come lo spirito sa se stesso. Dice che questo è il punto di maggior rilievo: come lo spirito sa se stesso. Questo sapersi è, perciò, in quanto lo spirito è essenzialmente coscienza, la determinazione fondamentale della realtà sua. Quale realtà può conoscere lo spirito se non se stesso? Depurare pertanto queste categorie, che operano soltanto istintivamente come impulsi, e che son dapprima portate nella coscienza dello spirito come isolate, epperò come mutevoli e come intralciantisi, mentre procurano così allo spirito una realtà a sua volta isolata e malsicura, depurarle, e sollevar con ciò in esse lo spirito alla libertà e alla verità, questo è il più alto compito logico. Sbarazzarsi di tutto ciò che, parlando della logica, non è la logica. Questo intendimento di parlare della logica, utilizzando solo ciò che appare come logico nel pensiero, è qualcosa che aveva già posto in atto nella Fenomenologia dello spirito. In effetti nella Fenomenologia parte dalla coscienza, dalla certezza immediata, dal fenomeno, cioè, da ciò che mi appare, non ho altre cose da cui partire. Naturalmente, Hegel si chiede come accade che mi appaia qualcosa, come accade questo fenomeno, ed ecco che compie tutto il percorso della Fenomenologia dello spirito fino ad arrivare al punto in cui dice che qualcosa mi appare perché c’è già un tutto, perché è già dentro un intero, cioè, è già nel linguaggio. …troppo frequenti e ardenti mi si son mostrati i contradittori incapaci di riflettere come le loro osservazioni ed obiezioni contenessero categorie ch’erano presupposizioni, bisognose esse stesse di una critica, prima d’essere adoprate. Sta dicendo che le critiche e le obiezioni che gli vengono fatte muovono da presupposizioni che non vengono in nessun modo messe in discussione, non vengono come direbbe Heidegger, problematizzate. Essa è cagione di quel malinteso fondamentale, di quella pratica cattiva, cioè rozza, consistente in ciò che nel considerare una categoria si pensa qualcos’altro, e non la categoria stessa. Questo è importante. Si pensa qualche cos’altro nel pensare la categoria, non si mette mai in discussione la categoria stessa, cioè di che cosa si stia parlando quando si sta parlando di una categoria. Una simile incoscienza è tanto meno giustificata, in quanto che cotesto altro consiste in altre determinazioni di pensiero e in altri concetti, mentre in un sistema di logica queste altre categorie debbono appunto anch’esse aver trovato posto, ed avervi formato oggetto di considerazione per se stesse. A pag. 23, Introduzione. A proposito di nessuna scienza si sente così forte il bisogno di cominciar subito dalla cosa stessa, senza riflessioni preliminari, come a proposito della scienza logica. In ogni altra scienza l’oggetto ch’essa tratta, e il metodo scientifico sono distinti uno dall’altro; e così pure il contenuto non costituisce un cominciamento assoluto, ma dipende da altri concetti, e si connette, tutto attorno, con altra materia. A queste scienze è perciò concesso di parare in guisa semplicemente lemmatica della loro base e del loro insieme, come anche del metodo, di presupporre come già conosciute ed ammesse, le forme delle definizioni, ecc. così da poterle senz’altro applicare, e di giovarsi dell’ordinario ragionamento per stabilire i loro concetti generali e le loro fondamentali determinazioni. Questo è quello che fa generalmente un discorso, cioè, parte da una serie di presupposizioni; come già diceva anche Husserl – si parte dalla Lebenswelt, dal mondo della vita – o dalla chiacchiera, come diceva Heidegger, non si parte da chissà quali ragionamenti. Quando uno è piccolissimo non parte da elucubrazioni sofisticatissime; gli si insegnano due o tre cose e con quelle va avanti, portandosele comunque appresso come delle determinazioni che non hanno più bisogno di essere messe in discussione, non hanno più bisogno di essere pensate, perché sono quelle che sono, perché sono quelle che hanno dato l’avvio a tutto il suo discorso, a tutto il suo racconto. La logica all’incontro non può presupporre alcuna di queste forme della riflessione, o di queste regole e leggi del pensare, perché esse fanno parte del suo stesso contenuto e non debbono esser fondate che dentro la logica stessa. È dal movimento della logica, dal riuscire a capire che cosa accade nella logica, che possiamo unicamente trarre le “leggi della logica”, ammesso che ci siano. Ma non solo la dichiarazione del metodo scientifico; anche il concetto stesso della scienza in generale appartiene al contenuto della logica, costituendo propriamente l’ultimo risultato di essa. Quello ch’essa è essa non lo può perciò dir prima;… Sta dicendo che non possiamo dire che cos’è la logica prima di metterla in atto, prima che incominciamo a praticarla. …ma l’intera sua trattazione produce questa sua conoscenza di se stessa come suo ultimo fastigio e suo compimento. È la trattazione della logica che produce la conoscenza della logica, ché non viene prima. In pari maniera il suo oggetto, il pensiero, o più determinatamente il pensiero concettivo, viene essenzialmente trattato dentro l’ambito di essa; il concetto di questo pensiero si genera nel corso della logica, e non può perciò essere assegnato in via preliminare. … Quando si prende la logica come scienza del pensare in generale, s’intende con ciò che questo pensare sia la semplice forma di una conoscenza, che la logica astragga da ogni contenuto… Che sia un’altra cosa rispetto a ciò di cui sta parlando. …e che il cosiddetto secondo elemento che apparterrebbe ad una conoscenza, vale a dire la materia, debba esser dato da un’altra parte, per modo che la logica, come quella da cui questa materia sarebbe affatto indipendente, non possa dar altro che le condizioni formali di una vera conoscenza, non già contenere essa stessa una verità reale, e nemmeno esser soltanto la via per giungere a questa, appunto perché ‘essenziale della verità, il contenuto, rimarrebbe fuori di essa. Se vi ricordate, questa è una questione che aveva già posta nella Prefazione e anche nella Introduzione della Fenomenologia dello spirito. Ora, prima di tutto, è già fuor di proposito il dire che la logica astragga da ogni contenuto, che insegni soltanto le regole del pensare, senza entrare a considerare il pensato e senza poter tenere conto della sua natura. Poiché, infatti, la logica deve avere per oggetto il pensare e le regole del pensare, ha anzi in cotesto il suo particolare contenuto; ha in cotesto anche quel secondo elemento della conoscenza, una materia, della cui natura si occupa. Cioè: la logica è fatta in modo tale per cui non possiamo cercare di intendere la logica se non facendola funzionare, se non in atto. A pag. 25. Il concetto che fino a qui si è avuto della logica è basato sulla separazione, presupposta una volta per sempre nella coscienza ordinaria, del contenuto della conoscenza dalla forma di essa, sulla separazione cioè della verità e della certezza. Come vi ricorderete, già nella Fenomenologia trattava di questa divisione tra certezza e verità: la certezza procede dal calcolo; la verità, invece, viene dalla fede. Nella Fenomenologia Hegel si era accorto che questi due momenti sono, in effetti, due aspetti complementari, e cioè occorre tanto il calcolo quanto la fede, nel senso che il tenere separati questi due momenti non consente di intendere come ciascuno di questi momenti si compenetri nell’altro. Perché ci sia il calcolo occorre la fede; perché ci sia la fede occorre il calcolo. La fede nel calcolo, per es., la troviamo nel sistema aritmetico, la fede che un numero sommato ad un altro produca una somma. D’altra parte, la fede procede da un calcolo, cioè, da un pensiero, da una riflessione, in un certo senso da un calcolo logico, e cioè la fede è una conclusione e, in quanto conclusione, procede da un calcolo. Si presuppone in primo luogo che la materia del conoscere sussista già in sé e per sé quale un mondo bell’e compiuto al di fuori del pensiero, che il pensiero sia di per sé vuoto, che sopravvenga a quella materia estrinsecamente quale una forma, si riempia di essa, e solo con questo acquisti un contenuto e così diventi un conoscere reale. Il sapere che si adatta alla realtà, per conoscere la realtà. Questi due elementi poi … vengono ordinati l‘uno di fronte all’altro per modo che l’oggetto sia un che di già per sé compiuto, un che di già pronto, che per la sua realtà possa perfettamente fare a meno del pensiero, e che all’incontro il pensiero sia qualcosa di manchevole cui occorra completarsi in una materia, e cioè rendersi a questa adeguato quale una cedevole forma indeterminata. Verità è l’accordo del pensiero coll’oggetto… Abbiamo l’oggetto e il pensiero. Verità come adæquatio rei et intellectus, come adeguamento del pensiero alla cosa. In terzo luogo, in quanto la diversità della materia e della forma, dell’oggetto e del pensiero non vien lasciata in quella nebbiosa indeterminatezza, ma vien presa più determinatamente, è ciascuna di coteste una sfera tagliata fuori dall’altra. Tenere le cose separate, le une dalle altre: questo è ciò che Hegel si accorge che la filosofia, il pensiero, fa continuamente, cioè, per dirla in termini severiniani, è come se si trovasse sempre di fronte a degli astratti senza mai cogliere il concreto, il tutto, l’insieme. Nel suo ricevere la materia e formarla, il pensiero non va perciò oltre a se stesso; il suo ricever la materia e il suo acconciarsi ad essa rimane una modificazione sua; esso non diventa con ciò il proprio altro… Così anche in quanto si riferisce all’oggetto il pensiero non giunge, nel suo uscir da sé, all’oggetto, ma questo rimane quale una cosa in sé, quale un mero al di là del pensiero. Finché tengo separato il pensiero dall’oggetto, il pensiero non potrà mai cogliere l’oggetto, potrà sempre presupporlo, potrà fare solo questo. Soltanto nel momento in cui soggetto e oggetto sono lo stesso, allora c’è il sapere, c’è la conoscenza. Queste vedute intorno al rapporto fra soggetto e oggetto esprimono le determinazioni costituenti la natura della nostra coscienza ordinaria, la coscienza apparente o fenomenica. Ma quando questi pregiudizi si trasportano nella ragione, quasi che nella ragione avesse luogo lo stesso rapporto, quasi che un tal rapporto avesse in sé e per sé verità, allora essi diventano gli errori di cui la filosofia è la confutazione condotta attraverso ad ogni parte dell’universo spirituale e naturale, o meglio, gli errori che impediscono l’accesso alla filosofia, e che perciò convien deporre alla sua soglia. Come dire: pensando in questo modo non si ha nessun accesso all’intero, al linguaggio, è impossibile vedere ciò che sta accadendo, e cioè che c’è un linguaggio in atto, che sta facendo cose. Ma l’intelletto riflettente si impadronì della filosofia. Occorre sapere esattamente che cosa vuol dire questa espressione che altrimenti si adopera in vari significati come termine di battaglia. Per intelletto riflettente o riflessivo è da intendere in generale l’intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto contro la ragione, cotesto intelletto, si conduce quale ordinario intelletto umano o senso comune, e fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri sian soltanto pensieri, nel senso che solo la percezione sensibile dia loro sostanza e realtà, e che la ragione, in quanto resta in sé e per sé, non dia fuori che sogni. Ora in questa rinuncia della ragione a se stessa il concetto della verità va perduto, la ragione vien ristretta a conoscer soltanto una verità soggettiva, soltanto l’apparenza, soltanto qualcosa cui la natura dell’oggetto stesso non corrisponda. Il sapere è tornato ad esser l’opinione. Tutto il sapere, il sapere scientifico, è un’opinione; così è un’opinione tutto ciò che si pensa di potere stabilire tenendo separato il soggetto dall’oggetto. A pag. 27. L’accennata riflessione consiste nel sorpassare il concreto Immediato, e nel determinarlo e dividerlo. Ma la riflessione deve anche sorpassare queste sue determinazioni divisive, e metterle anzitutto in relazione tra loro. Se non le metto in relazione non succede niente. Ora in questo punto del metterle in relazione vien fuori il loro contrasto. Cotesto riferire della riflessione appartiene in sé alla ragione; il sollevarsi sopra a quelle determinazioni che va fino alla visione del loro contrasto, è il gran passo negativo verso il vero concetto della ragione. Il gran passo negativo sarebbe l’accogliere il negativo che è presente nel positivo. Ma quella visione cade, in quanto non sia condotta a termine, nell’errore per cui si crede esser la ragione, quella che viene a contraddire se stessa. Essa non si accorge che la contraddizione è appunto il sollevarsi della ragione sopra le limitazioni dell’intelletto, e il risolver queste. Invece di muover di qui l’ultimo passo in alto, la conoscenza dalle insoddisfacenti determinazioni intellettuali è fuggita indietro all’esistenza sensibile, persuasa di possedere in questa la stabilità e la concordia. Sta dicendo che per quanto riguarda il pensiero, tutto ciò che è stato fatto, e che si continua a fare, è continuare a scartare il negativo come se fosse qualcosa di inutile; cioè, l’opposto di quello che dico, l’altro rispetto a ciò che dico, come qualcosa di inutile che deve essere eliminato. Facendo questo, dice Hegel, succede un problema, e cioè se tolgo la ragione d’essere di ciò che dico, cioè il suo negativo, mi ritroverò a dovere pensare, quasi necessariamente, che ciò che dico corrisponda alle cose come stanno. Questo perché non c’è un negativo che mi dice “sì, ho detto questo ma le cose non stanno così, o non soltanto”; cioè, mi ritrovo a dovere immaginare che ciò che dico abbia un garante al di fuori da ciò che dico, perché se rimango in ciò che dico allora ciò che dico si altera, dilegua mentre lo dico; dileguandosi, non ne ho più il controllo. Per averne il controllo, devo immaginare che ciò che dico sia esattamente quello che è, per virtù propria e non per altro, sennò devo spostare il mio controllo su quell’altro ma quell’altro si rivela infinito, e non controllo più niente. Siamo a pag. 29. La vuotezza delle forme logiche sta anzi unicamente nella maniera di considerarle e di trattarle. In quanto, come determinazioni fisse, cadono una fuori dell’altra, e non vengono tenute assieme in una unità organica, coteste son forme morte, né risiede in esse lo spirito, che è la loro concreta unità vivente. Mancano così del vero contenuto, - di una materia, che sia in se stessa una sostanza e un valore. Il contenuto, di cui si trovano mancanti le forme logiche, non è altro che una ferma base e concrezione di queste determinazioni astratte; ed una tal essenza sostanziale si suol per quelle forme andarla a cercare fuori. Ma il sostanziale o reale, quello che riunisce assieme, in sé, tutte le determinazioni astratte, ed è la loro schietta ed assolutamente concreta unità, è appunto la ragione logica. Qui Hegel incomincia a darci un’idea di che cosa intende per logica. La logica è ciò che mette insieme gli astratti mostrandoli come un concreto, mostrando che sono di fatto un concreto, mostrando che sono all’interno di un sistema, che è il tutto, l’intero. Il tutto è da intendersi nell’accezione che utilizziamo, cioè un tutto rispetto a cui non c’è un al di fuori. Parla di vuotezza delle forme, forme della logica, come ad es. “se A allora B”. Tutte queste cose, i due termini e il connettivo, sono delle forme vuote. Quando invece non sono più delle forme vuote? Quando incomincio a riflettere su questi elementi e li considero non per se stessi, ma come il risultato di un processo storico. Vale a dire, queste cose non vengono dal nulla, vengono da una serie infinita di pensieri e di ragionamenti, hanno una storia alle spalle. Se non tengo conto di questo rimangono delle forme vuote che, sì, posso utilizzare, ma le utilizzo così come utilizzo un cacciavite, senza sapere nulla di ciò che sto facendo mentre le utilizzo. E ciò che sto facendo, utilizzandole, è di mettere in atto, di mettere in moto, la storicità di questi elementi, mostrandone e non scartandone tutta la ricchezza. Al contrario, la forma vuota scarta la ricchezza, cancellando tutto ciò che quella cosa non è e che si suppone non sia. A pag. 30. Dal ragionamento dipende allora anche che cosa (e fino a che limite ed estensione) s’abbia a prendere in considerazione, oppure escludere. Ma al ragionamento stesso resta aperto il più molteplice e svariato opinare, sopra di che alla fine soltanto l’arbitrio può fermare una stabile determinazione. In questo procedimento, consistente nel cominciar la scienza colla sua definizione, non si parla del bisogno di mostrar la necessità dell’oggetto della scienza, la necessità della scienza stessa. È il problema della definizione: chi definirà la definizione? E questa definizione da dove arriva? Quando mi fermo? È il problema delle cinque vie di Tommaso: per definire qualcosa a un certo punto mi devo fermare, sennò c’è un regresso all’infinito. Ma dove mi fermerò? Questo è un arbitrio: mi fermo dove voglio io, dove mi fa comodo, dove mi serve. A pag. 31. La scienza pura presuppone perciò la liberazione dall’opposizione della coscienza. La scienza non ha bisogno della coscienza, non ha bisogno di riflessione – Heidegger diceva appunto che la scienza non pensa. Essa contiene il pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppure la cosa in se stessa in quanto è insieme anche il puro pensiero. Come scienza, la verità è la pura autocoscienza che si sviluppa, ed ha la forma del Sé… Scienza in senso hegeliano, naturalmente. …che quello che è in sé e per sé è concetto saputo, e che il concetto come tale è quello che è in sé e per sé. Possiamo semplicemente dire che soggetto e oggetto sono lo stesso. Il contenuto della scienza pura è appunto questo pensare oggettivo. Lungi quindi dall’esser formale, lungi dall’esser priva di quella materia che occorre a una conoscenza effettiva e vera, cotesta scienza ha anzi un contenuto che, solo, è l’assoluto Vero, o, se si voglia ancora adoprare la parola materia, che, solo, è la vera materia, - una materia, però, la cui forma non è un che di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero, e quindi l’assoluta forma stessa. Questa è la materia di cui si occupa. La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella sua essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito. Vien celebrato Anassagora come quegli che per primo abbia pronunciato che il Nus, il pensiero, è il principio del mondo, che l’essenza del mondo è da determinarsi come il pensiero. Egli pose con ciò il fondamento di una veduta intellettuale dell’universo, una veduta la cui forma pura dev’essere la logica. Qui non si ha già da fare con un pensiero intorno a qualcosa, che stia per sé come base fuori del pensiero, non si ha da fare con forme che debbano fornire semplici note della verità; ma le forme necessarie e le proprie determinazioni del pensiero sono il contenuto e la suprema verità stessa. La propria determinazione del pensiero, cioè, i modi con cui il pensiero si autodetermina, il modo in cui il linguaggio determina se stesso: questa è la verità, non ce n’è un’altra. A pag. 32. L’idea platonica non è altro che l’universale, o più determinatamente il concetto dell’oggetto. Solo nel suo concetto qualcosa ha realtà; in quanto è diverso dal suo concetto, cessa di essere reale;… Se io tolgo l’oggetto dal concetto, questo oggetto si annulla, non è più niente. A pag. 36. L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico, - e intorno alla cui semplicissima intelligenza bisogna essenzialmente adoprarsi, - è la conoscenza di questa proposizione logica, che il negativo è insieme anche positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata. Il mettere insieme il negativo e il positivo non è che cancelli tutto; semplicemente, pone una contraddizione rispetto a una cosa determinata, non al pensiero in generale ma a ciò che il pensiero sta giudicando in quel momento. Il che significa che non si annulla assolutamente niente, ma che questo elemento, a cui aggiungo il negativo, si incrementa, diventa più ricco, per cui posso pensarlo di più e meglio. Se incomincio a pensare che tutto ciò in cui credo è magari anche così ma non soltanto, allora il mio pensiero si arricchisce, cioè, mi accorgo che in ciò che dico c’è molto di più di quello che intendo dire. Cotesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco che non il precedente. Essa è infatti divenuta più ricca di quel tanto ch’è costituito dalla negazione, o dall’opposto di quel concetto. Contiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche di più, ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto. Per questa via deve il sistema dei concetti, in generale, costruir se stesso – e completarsi per un andamento irresistibile, puro, senz’accogliere nulla dal di fuori. Il che induce a pensare che quando si elabora, si riflette intorno al linguaggio, non possiamo andare a cogliere qualche cosa che sia fuori del linguaggio per spiegare il linguaggio, al di là del fatto che fuori non c’è nulla, perché se pensassimo che c’è qualcosa fuori del linguaggio ci troveremo presi in una serie di problemi insolubili; quindi, necessariamente, se vogliamo parlare del linguaggio, dobbiamo restare nel linguaggio, sapendo di essere nel linguaggio. È lo stesso discorso che fa rispetto alla logica: per parlare della logica dobbiamo restare nella logica, sapendo che non possiamo uscire dalla logica e che la stiamo utilizzando per parlare di se stessa; esattamente come si fa con il linguaggio. A pag. 43. Nella maniera filosofica di dividere, invece, è il concetto stesso quello che si deve mostrare come fonte delle sue determinazioni. Qui sta parlano della filosofia tradizionale, che divide senza integrare. Ma anche il concetto della logica fu dato nell’Introduzione come il risultato di una scienza che stava al di là, epperò anch’esso fu presentato qui come una presupposizione. Si parte da una presupposizione per poi accorgersi che è una presupposizione. Si parte, direbbe Heidegger, dalla chiacchiera per potere accorgersi che è possibile “uscire” dalla chiacchiera, e cioè incominciare ad accorgersi di ciò che c’è ancora da pensare. La logica si determinò conseguentemente come la scienza del pensiero puro, scienza che aveva per suo principio il puro sapere, l’unità non astratta, ma concreta e vivente perciò che in essa è come superata l’opposizione, propria della coscienza, fra un soggettivo esser per sé, ed un secondo essere simile, un essere oggettivo, ed è conosciuto l’essere come puro concetto in se stesso, e il puro concetto come il vero essere. Come vi dicevo prima, il soggetto l’oggetto sono lo stesso. Questi son perciò i due momenti, che son contenuti nell’elemento logico. Ma essi, ora, son conosciuti come inseparabili e non (secondo che accade nella coscienza) in quanto ciascuno è anche per sé; se non che, poiché son nello stesso tempo conosciuti come diversi (eppure non essenti per sé), l’unità loro non è astratta, morta, immobile, ma concreta. Questo accade quando mi accorgo del concreto, quando mi accorgo che questi momenti appartengono a un intero, cioè, sono momenti del linguaggio e non entità astratte poste chissà dove. Naturalmente, sono poste nel linguaggio con tutto ciò che questo comporta. Questa unità costituisce insieme il principio logico quale elemento, per modo che o sviluppo di quella differenza, che vi è fin dall’inizio, ha luogo soltanto dentro questo elemento. Siccome infatti la partizione, secondo fu detto, è il giudizio del concetto, il porre la determinazione che gli è già immanente, epperò la sua differenza, così questo porre non s’ha da intendere quasi fosse un risolvere di nuovo quella concreta unità nelle determinazioni sue quali avrebbero a valere nel loro essere per sé. Ciò sarebbe qui un semplice tornare indietro al punto di vista antecedente, ossia all’opposizione della coscienza. Se non mi accorgo che questi elementi sono integrati fra loro e cerco la separazione, torno indietro al punto in cui io stesso immaginavo la coscienza essere per sé come un qualche cosa che è separato dalla coscienza. Invece questa opposizione è sparita; quell’unità resta elemento, e il distinguere della partizione e in generale dello sviluppo non esce più ormai da essa. Con ciò quelle precedenti determinazioni per sé esistenti … le determinazioni come quelle di un soggettivo e di un oggettivo, o anche di un pensare e di un essere, oppure di un concetto e di una realtà … coteste determinazioni, ora, nella loro verità, cioè nella loro unità, son degradate a forme. Nella differenza loro, quindi, restano esse stesse in sé l’intero concetto, e il concetto, nella partizione, è posto unicamente sotto le sue proprie determinazioni. Rimangono distinti, ma integrati nell’intero, non sono più separati. In conseguenza la logica dovrebbe anzitutto dividersi in logica del concetto come essere, e del concetto come concetto, … in logica oggettiva e soggettiva. Concetto come essere e concetto come concetto. Il concetto come essere è l’aspetto oggettivo, il concetto in quanto tale; quindi, il concetto come concetto, come pensato. Ma dietro l’elemento fondamentale dell’unità del concetto in se stesso, epperò della inseparabilità delle sue determinazioni, queste debbono anche per lo meno star fra loro in relazione. Ci sarà pure qualcosa che le mette in relazione. Di qui risulta una sfera della mediazione, il concetto come sistema delle determinazioni della riflessione, delle determinazioni cioè dell’essere come trapassante nell’esser dentro di sé del concetto, mentre il concetto, in questa guisa, non è ancora posto per sé come tale, ma è insieme affetto dall’essere immediato come da qualcosa che gli è anche estrinseco. Questa è la scienza dell’essenza, che sta di mezzo fra la scienza dell’essere e la scienza del concetto. Nella partizione generale di quest’opera logica cotesta scienza fu collocata ancora sotto la logica oggettiva, poiché, quantunque l’essenza sia già l’interno, pure il carattere di soggetto è espressamente da riserbare al concetto. Si configurano tre figure: l’essere, l’essenza e il concetto. L’essere e il concetto sono i due estremi, l’in sé e il per sé; ma come si tengono uniti se non attraverso una relazione? La relazione tra i due non è altro che l’essenza di questa che a questo punto potremmo intendere come il segno di de Saussure e di Peirce. Il segno, quindi, il significante e il significato; l’essere, l’immanente, e il concetto, il significato. Ma cosa li tiene insieme? Cosa fa di questi due elementi un intero, anche se appaiono separati? Un intero, cioè un segno, una relazione. L’essenza di questi due elementi è di essere relazione. A pag. 46, Nota 2. Se l’espressione “atto oggettivante dell’io” può far venire in mente altre produzioni dello spirito, per es. quella della fantasia, è da notare che si parla di determinare un oggetto, in quanto i momenti del suo contenuto non appartengono al sentimento e all’intuizione. Tale oggetto è un pensiero, e determinarlo vuol dire in parte produrlo, e in parte, in quanto è un presupposto, avere altri pensieri sopra di essi, svilupparlo ancora, pensandolo. Questo oggetto, qualunque esso sia, è un pensiero. Determinare questo pensiero significa produrlo. Andiamo un pochino oltre: definire un qualcosa significa produrre quella cosa, significa in un certo senso farla esistere. Quindi, qualcosa esiste nel momento in cui io lo determino, in cui lo penso. Naturalmente, questo pensare la cosa non è che mi fa apparire miracolosamente qualcosa, ma qualcosa è qualcosa in quanto è pensato, e solo in quanto è pensato una qualunque cosa diventa pensabile. Lo dicevamo la volta scorsa: ciò che mi appare, il qualcosa, è qualcosa in quanto è pensato, cioè in quanto è determinato. È proprio in quanto è pensato che posso pensarlo; questo qualcosa non viene da un al di là dell’intero, ma procede dall’intero; quindi, è già pensato, ed è per questo che è pensabile. A pag. 48. La logica soggettiva è la logica del concetto, - cioè dell’essenza che ha tolta via la sua relazione a un essere o alla sua apparenza, e nella determinazione sua non è più esterna, ma è quel che sussiste liberamente per sé, il soggettivo determinantesi in sé, o meglio, il soggetto stesso. Questo è il movimento che ci ha descritto molto bene nella Fenomenologia dello spirito, cioè il movimento che muove dalla coscienza all’autocoscienza, toglie l’autocoscienza, cioè il significato, ma a questo punto, togliendo il significato, ripiegandolo sul significante, il significante diventa altro da ciò che era prima. Siccome il soggettivo dà luogo ad esser preso per l’accidentale e l’arbitrario, come in generale per quelle determinazioni, che rientrano sotto la forma della coscienza, così qui non si deve dare alcun peso particolare alla differenza di soggettivo e oggettivo, differenza che si svilupperà poi meglio nel corso della logica stessa. La logica si divide dunque in generale in logica oggettiva e soggettiva. Ma più determinatamente essa ha queste tre parti:

I. La logica dell’essere

II. La logica dell’essenza e

III. La logica del concetto

La prima è un lavoro intorno all’essere, intorno al significante, a ciò che appare. L’ultima, il concetto, il suo significato, senza il quale ciò che appare è nulla. L’essenza sta nella relazione tra i due, nel loro essere una relazione; quindi, non più due separati, ma una relazione.