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29-1-2014

 

La filosofia della mente è una teoria abbastanza recente e a che fare con la psicologia cognitiva. Un aspetto curioso, tanto per incominciare, è che il concetto di “mente” non è definito, nessuno lo definisce, nessuno dice che cosa intende con mente esattamente, il che ci fa supporre che per tutte queste teorie il sapere di che cosa si sta parlando sia irrilevante.

 

Le proprietà della mente sono identiche alle proprietà del cervello in base al principio dell’indiscernibilità degli identici per cui se l’oggetto x è identico all’oggetto y allora ogni proprietà di x deve essere anche una proprietà di y.

 

E cioè questa identità tra la mente e il cervello sarebbe supportata dal fatto che se un oggetto x è identico all’oggetto y allora entrambi devono avere le stesse proprietà, questa in retorica si chiama petizione di principio. Cioè non è possibile dire che una cosa è uguale a un’altra dicendo che una cosa è uguale a un’altra se ha le stesse proprietà, questo non dimostra che le prime due siano uguali fra loro, questo non dimostra assolutamente niente. Una cosa importante sulla quale ho insistito da sempre, quando si legge in un qualsiasi testo teorico in generale, è sapere costruire contro esempi, cioè un altro esempio che dimostra il contrario oppure che mostra almeno un caso che non è così. I comportamentisti dicono che il comportamento è un insieme di disposizioni a comportarsi in un determinato modo a seconda degli stimoli ambientali, lo stimolo ambientale è uno stimolo che viene dall’ambiente circostante, non da me, io faccio parte dell’ambiente ma non sono io stesso uno stimolo ambientale, dunque cosa dire di questa definizione? Cioè il comportamento non è nient’altro che una reazione a stimoli ambientali, ma non è mai capitato a nessun di voi di mutare umore o di svegliarsi male una mattina senza avere subito nessuno stimolo ambientale? Oppure un brutto sogno, è uno stimolo ambientale? Direi proprio di no, però questo brutto sogno può determinare il comportamento di tutta la giornata, può fare prendere delle decisioni anche importanti in base a questo “malumore” chiamiamolo così. Se i comportamentisti conclusero che il comportamento è semplicemente un insieme di disposizioni a comportarsi in un determinato modo a seconda degli stimoli ambientali, possiamo concludere che invece il comportamento non è un insieme di disposizioni a comportarsi in un determinato modo, anche, ma non soltanto, quindi mentre loro pongono una sorta di affermazione universale “il comportamento è questo” noi diciamo che c’è almeno un caso, ne basta solo uno, per cui non è così. Se incontro qualcuno, mi presentano questo qualcuno, questo qualcuno mi ricorda per motivi miei un personaggio antipatico che ho conosciuto tempo prima, me lo ricorda tantissimo, allora sarò mal disposto nei confronti di questo personaggio e allora la mia condotta sarà differente, muterà, e muterà in base a qualche cosa che non procede per nulla da uno stimolo ambientale ma da fantasie.

 

Il comportamentismo logico sosteneva che le descrizioni di stati mentali (che non sappiamo cosa sono) come “sento dolore” non erano altro che disposizioni a comportarsi in un certo modo ad esempio se sento dolore è perché mi sto comportando o sto per comportarmi in un certo modo e allora mi muovo, grido, mi tocco la ferita eccetera, il fatto che ci si stia comportando in modo volontario, ad esempio ho sete quindi prendo dell’acqua o involontario, per esempio il battito cardiaco quando si avverte un pericolo o si ha paura, tutto questo è irrilevante giacché la volontarietà, a seconda dei comportamentisti psicologi e logici, non esiste, ciò che si definisce volontario è solamente la registrazione di uno stimolo, che può essere sia ambientale che fisiologico, é la disposizione ad agire in un certo modo a seconda delle stimolo registrato quindi la volontà, il desiderio, la fantasia non esiste, volontario non è altro che la registrazione di uno stimolo e la disposizione ad agire in base a questo stimolo, nient’altro che questo, una delle critiche era questa: non è possibile identificare il dolore con un singolo processo cerebrale o biochimico tanto più che durante l’esperienza conscia del dolore sono attive diverse aree cerebrali (dicono che il dolore è un fatto identificabile con un processo cerebrale perché quando uno prova dolore si illumina una certa parte del cervello – dicevo, non è possibile perché sono attive diverse aree cerebrali quindi non è possibile sapere quale sia la responsabile, ammesso che ce ne sia una responsabile ) dunque sarebbe per lo meno arbitrario scegliere un processo piuttosto che un altro al fine di identificarlo come “esperienza del dolore” la quale quindi non è identificabile con un singolo processo o stato cerebrale, come dire che la teoria dell’identità si arena proprio sulle nuove conoscenze neuro scientifiche cioè loro stessi si confutano. Poi un altro, Putnam, che abbiamo già visto in altre occasioni, dice:

Lo stato del dolore non è identificabile con uno stato cerebrale o con una disposizione comportamentale ma è uno stato funzionale svolge una determinata funzione che è quella di determinare un danno all’organismo.

Ne siamo sicuri? E se io ho mal di denti? Questo dolore che provo da quale pericolo mi metterebbe al riparo? Lui per fare una critica dice che lo stato del dolore non è identificabile con uno stato cerebrale perché svolge una funzione: quella di evitare un danno all’organismo. Quale danno dovrebbe evitare un mal di denti? O un mal di testa, mi salva la testa? Perché? Se ogni volta che ci si trova di fronte a un’affermazione come queste, alquanto arbitrarie, con la tendenza a porsi come universali si costruisce una contro argomentazione o un contro esempio si ha l’occasione di accorgersi immediatamente che ciò che stanno affermando non è affatto universale, è qualcosa che nella migliore delle ipotesi è una possibilità, è possibile che accada, o meglio “non è impossibile che non accada”. I funzionalisti sono quelli che attribuiscono agli stati mentali una funzione:

Il filosofo funzionalista ha sostenuto che i sistemi rappresentazionali (i sistemi di rappresentazione) appartenenti a organismi biologici hanno come fine evolutivo quello di rappresentare il mondo interno e il mondo esterno, in base a che cosa non si sa, Dretske distingue seguendo lo psicologo cognitivo Jerry Fodor dice che la vera esperienza di K cioè la rappresentazione sensoriale è di l’avere pensieri, credenze, giudizi su esperienze, K che sarebbe la rappresentazione concettuale, questo sarebbe il fine dei sistemi rappresentazionali (…) le rappresentazioni sensoriali non possono cambiare ma solamente migliorare o peggiorare le proprie prestazioni, vanno dal basso verso l’alto e quindi il soggetto non ha la possibilità di modificarle dall’alto verso il basso quindi (il basso sarebbe la percezione bruta, l’alto sarebbe la coscienza, la consapevolezza della rappresentazione) sono sistemi incapsulati e dominio specifici per esempio le onde sonore possono essere modulate dal sistema uditivo ma non da quello visivo.

Ma è sicuro? Oppure sono modulate anche, certo, soprattutto dal sistema uditivo ma magari possono essere modulate anche da quello visivo, ciò che io vedo può modificare ciò che sento? Ciò che mi dice una persona che io detesto e che dice cose assolutamente stupide, questa mia valutazione, queste mie considerazioni possono variare non soltanto ciò che sento ma anche il modo in cui lo sento, per esempio posso sentire una voce assolutamente sgraziata, fastidiosa, mentre lo stesso suono per un’altra persona può essere piacevole eccetera, non solo, ma se poi questa persona mi diventa simpatica allora anche al sua voce cioè il suo suono cambia, non è più sgraziata ma diventa un suono tollerabile quanto meno quindi qualcosa si è modificato non è esattamente lo stesso (… un fonema io lo sento per come è stato pronunciato) dice Fodor noi abbiamo più volte distinto tra quello che il sistema di input calcola e quello che l’organismo consciamente o meno crede, uno degli aspetti che ci interessano di questa distinzione è costituito dal fatto che i sistemi di input (cioè ciò che entra) essendo incapsulati informazionalmente (cioè sono informazioni chiuse all’interno di un sistema) calcolano tipicamente le rappresentazioni degli oggetti distali???? Sulla base di una quantità di informazioni che è minore di quella che l’organismo ha a disposizione in proposito, queste rappresentazioni vanno corrette alle luce delle conoscenze generali per esempio le informazioni depositate nella memoria ed i risultati simultanei dell’analisi degli input di altri domini, chiamiamo il processo attraverso cui si giunge a queste rappresentazioni corrette fissazioni delle coscienze percettive qui non dice niente di quello di cui parlavamo prima, prima lui parlava di gamma di suoni la capacità di distinguere una vasta gamma di suoni implica che nel sistema uditivo siano a disposizione diversi moduli ognuno dedicato a riconoscimento e all’elaborazione dei dati sonori specifici non si parla di fonemi e nemmeno di significanti ma di suoni (...) qui aggiunge Fodor i processi modulari (quelli di prima quelli incapsulati) hanno accesso a sistemi centrali che non elaborano le informazioni in modo incapsulato bensì attraverso alla formulazione di credenze e giudizi, a differenza delle rappresentazioni sensoriali le rappresentazioni concettuali definite da Dretske, definite anche meta rappresentazioni possono essere cambiate dal soggetto, il soggetto può cambiare il parere che ha su un’esperienza sensoriale ma non può cambiare l’esperienza sensoriale che viene rappresentata dai suoi sistemi sensoriali e percettivi.

Il gusto è una sensazione percettiva fa parte dei cinque sensi ora ci sono delle situazioni, a parte le condizioni di malattia ma anche andando avanti con gli anni certi sapori si modificano non sono gli stessi, io ho cambiato gusti da quando ero bambino un sacco di volte, delle cose non mi piacevano, mentre adesso invece quel gusto mi piace, lo apprezzo, il gusto è sempre lo stesso? È difficile stabilirlo (sì ma la percezione sensoriale è sempre il gusto non è il tatto) stiamo parlando di un’esperienza sensoriale che viene rappresentata da un sistema percettivo, può essere uno qualunque, qui stiamo parlando del gusto, Fodor dice non può cambiare l’esperienza sensoriale cioè se sento una cosa ruvida non posso sentirla liscia. Non sta dicendo che quello che vedo non è quello che tocco, è ovvio, sono sensi diversi, sono porte di ingresso differenti che funzionano differentemente. Dunque il sapore che una persona sente può essere differente da quello che sente in un’altra occasione però quella cosa “apparentemente” è sempre la stessa, facciamo finta che lo sia, quindi di fatto io ho cambiato l’esperienza sensoriale, ciò che mi rilasciava questo “senso”. Adesso abbiamo fatto l’esempio del gusto, è cambiato non è sempre esattamente lo stesso mentre quello che vorrebbero farci credere è che l’esperienza sensoriale che viene rappresentata dal sistema percettivo è sempre la stessa, ma non è così, oltre al fatto che “come possiamo stabilire che la rappresentazione sensoriale è sempre la stessa?” in base a che cosa? Qual è il parametro? È il fatto che possa modificarsi per esempio anche in base anche a delle condizioni dei così detti stati d’animo che posso modificare, oltre al fatto, dicevo, come faccio a stabilire che è lo stesso? In base a quale criterio io stabilisco che un’esperienza sensoriale è la stessa? Sono io a deciderlo ovviamente perché la sento io, ma se sono io come faccio a dire che è esattamente la stessa di prima? I vecchietti hanno cambiato il loro modo di “vedere” le cose, non solo ma anche i colori cambiano, i sapori cambiano, delle volte anche il tatto non è più lo stesso (sì ma quello che cambia è il concetto) no, è quello che io sento, cioè la mia esperienza percettiva. Un concetto lo formulo a partire da una mia esperienza sensoriale, stando a Fodor (il gusto rimane sempre gusto non cambia) non sta dicendo questo Fodor, che il gusto è sempre il gusto e la vista è sempre la vista e il tatto è sempre il tatto, che di per sé non significa assolutamente niente. Dovremmo incominciare a definire queste cose e allora diventano problemi: il gusto, qual è? Il tuo? Il mio? Quale?

Alcune reti neurali sono capaci di apprendere attraverso i propri errori rilanciando automaticamente i valori delle unità che le compongono a seconda dei feedback derivati dagli output (feedback sarebbe il controllo retroattivo) se la rete esegue l’output corretto cioè fa quello che deve fare (mantiene i valori delle unità cioè non si modifica) se invece non lo esegue li cambia in modo casuale finché il margine di errore l’output non diviene davvero minimo, ad esempio alcune reti neurali artificiali (ché è di questo che si occupa l’intelligenza artificiale) sono capaci attraverso l’apprendimento auto organizzato per mezzo di opportuni feedback di distinguere sott’acqua le mine dalle rocce, altre reti neurali sono capaci di apprendere automaticamente e sempre attraverso opportuni feedback a distinguere i diversi volti e addirittura le espressioni emotive ed il sesso con un margine di errore rilevante, alcune reti artificiali sono state in grado di apprendere le regole sintattiche della lingua inglese nonché la loro corretta pronuncia sempre mediante auto organizzazione.

Questo è interessante perché fino a qualche tempo fa questo non era possibile, si riteneva che fosse uno dei limiti delle macchine mentre adesso lo fanno, cioè sono in condizioni di auto correggersi attraverso programmi ovviamente, esattamente come fanno gli umani che si auto correggono attraverso prova ed errore. Per esempio se Simona deve sedurre un fanciullino, primo prova in un certo modo e poi prova in un altro finché ci riesce. L’idea di volere individuare dei processi “mentali” attraverso le varie teoria della psicologia cognitiva, cognitivismo eccetera, escludendo il linguaggio totalmente, comporta dei problemi, oltre al fatto che alcuni concetti non vengono definiti, non si sa che cosa siano, al di là di questo c’è il fatto che si suppone che questi test che vengono fatti rappresentino o mostrino uno stato di cose e cioè che l’osservazione sia il criterio universale, qual è il problema nei confronti dell’osservazione? Il problema dell’osservazione, e di questo se ne è accorta, non il cognitivismo naturalmente, ma la fisica in particolare, la fisica dei quanti, il problema dell’osservazione è sempre uno solo è l’osservatore. È l’osservatore che deciderà che cosa ciò che osserva significa, questo limite dell’osservazione è ciò che rende l’osservazione inaffidabile, tutto ciò che io osservo, cioè i test che posso fare non significano niente finché non sono interpretati. Vi faccio un esempio: Eleonora vede questo aggeggio qui e dice che è rosso, anche tuo papà dice che è rosso, anche Simona, Cesare, Beatrice, tutti hanno detto che è rosso, questo di per sé, non ha nessun senso, nessun significato finché qualcuno di noi non interpreta la cosa e dice “ecco, se questo è rosso per ciascuno di noi, allora è rosso”. Il sistema inferenziale utilizzato nelle prove, nei test, è sempre quello induttivo ovviamente, si fa un certo numero di prove, si constata, in base ai criteri di verifica che io ho stabilito, che queste prove portano in quella direzione. Qual è il limite di un sistema del genere? È che se io faccio vedere a Eleonora una certa immagine e a Eleonora si illumina una certa aerea del cervello, allora io immagino di connettere una certa percezione sensoriale a un funzionamento di una specifica area del cervello, il problema è che non si accende soltanto quella, se ne accendono anche altre in primo luogo, secondo, non si sa in realtà se l’accensione di quell’area del cervello sia un effetto di quella cosa o di altro, e questo non è possibile verificarlo. Le scienze cognitive considerano che le credenze, i desideri eccetera, non sono osservabili quindi non sono scientifici, è scientifico solo ciò che è osservabile. Ma perché “scientifico” dovrebbe essere solo questo? Ovviamente è una decisione “io decido che è scientifico ciò che posso osservare” perché immagino che potendo osservare certe cose, possa compiere delle misurazioni, poi il criterio alla fine è sempre questo: la misurazione. Volevo tornare un momento alla questione del comportamento, mi era sfuggita il comportamento semplicemente è un insieme di disposizioni a comportarsi in un determinato modo a seconda degli stimoli, cioè il comportamento è un modo di comportarsi. Il comportamento dunque è osservabile, vari comportamenti sono osservati, quindi possono essere misurati appunto, dopo di che? Dopo di che occorre qualcuno che interpreti questa serie di dati, di informazioni, in base a che cosa avverrà questa interpretazione? Può essere qualcuno, può essere una macchina, in ogni caso la questione è la stessa perché a qualcuno le informazioni che ha lui, che gli serviranno per interpretare questi comportamenti, glieli ha messi qualcuno, la mamma, la nonna, le cose che ha scritte, gli esami che ha dato all’università eccetera, e per la macchina è la stessa cosa, quindi la sua interpretazione sarà comunque una interpretazione soggettiva, inesorabilmente. Si tratta qui di intendere che questa cosa che per i cognitivisti è fondamentale, un criterio che loro chiamano “terza persona”, oggettivo, anziché quello “prima persona” quindi soggettivo e cioè che l’osservazione non è oggettiva, non lo è in nessun caso, a meno di stabilire che il mio criterio di valutazione è un criterio oggettivo. Però questo è un fatto assolutamente personale. Cosa accade quando si toglie di mezzo il linguaggio? Come in questo caso? Accade un fenomeno interessante e cioè ci si sbarazza immediatamente di tutto ciò che ha a che fare con il significato. La filosofia analitica ha lavorato su questo, anche la semiotica in un altro modo, trovando non poche difficoltà come abbiamo visto in precedenza quindi hanno deciso, almeno in parte, di sbarazzarsi della questione del linguaggio, sbarazzandosi della questione del linguaggio ci si sbarazza immediatamente della questione del significato, e cioè non ha più nessun rilievo sapere se ciò di cui sto parlando significa qualcosa, e se sì? Che cosa? Da questo punto in poi tutto quello che si dice non significa assolutamente niente. Sono fantasie, fantasie al pari di Cappuccetto Rosso. L’idea originale era quella di stabilire, di trovare un significato di ultima istanza, quello che avrebbe potuto dire che cosa è veramente un qualche cosa, questo non è stato possibile, sempre per via del funzionamento del linguaggio, e allora lo slittamento è stato verso l’osservazione, cioè l’ideale, fantasmatica, calcolabilità dei processi così detti mentali, senza sapere che cosa sia un processo mentale, ma la domanda “che cos’è qualche cosa?” pur mantenendo tutta la sua portata ontologica è importante perché mostra che portando questa ricerca alle estreme conseguenze non solo non si trova il significato di ultima istanza, ma si reperisce che il significato di volta in volta è costruito dal gioco linguistico all’interno del quale è inserito. La conseguenza di tutto ciò è che ciò che dicono i cognitivisti per esempio, la filosofia della mente eccetera è vero, al di là del fatto che si possono quasi sempre trovare contro esempi come abbiamo fatto, ma è vero all’interno del gioco che stanno facendo, fuori da questo gioco tutto ciò che dicono, tutta questa immensa mole di libri stampati non significa niente, è un gioco e non può dire come stanno le cose, non lo può fare. Si è tentato di farlo cercando di sapere che cos’è il significato di ultima istanza, ma questo non si è trovato, e allora si è semplicemente abbandonata la questione, non risolta ma abbandonata, ma abbandonarla significa che il significato di tutto ciò di cui queste persone parlano non c’è, non significa niente, non stanno parlando di niente. È questo il problema che si incontra quando si abbandona il linguaggio, se si resta all’interno della struttura del linguaggio si incontrano altri problemi certo, ma questi problemi che si incontrano indirizzano verso una soluzione e cioè che non c’è uscita dal linguaggio, nemmeno loro possono uscire dal linguaggio, tutto ciò che dicono, tutto ciò che costruiscono, e a loro non viene neanche in mente una cosa del genere, ma può costruirsi perché esiste il linguaggio, e si costruisce nel modo in cui si costruisce perché il linguaggio funziona in un certo modo. Non solo queste scienze, qualunque altra disciplina incappa negli stessi problemi è ovvio, la filosofia, la fisica, la matematica, cioè tutte quelle discipline che immaginano di potere costruire affermazioni universali. L’affermazione universale dice che ogni volta che si verifica una certa cosa allora necessariamente si verifica quest’altra, che è esattamente quello che cercano di stabilire: cioè ogni volta che io vedo un accendisigari si dovrebbe accendere una lampadina dentro la testa, in un certo posto preciso, cosa che non è ovviamente. La critica potrebbe essere portata anche molto oltre ma per il momento ci fermiamo qui, giusto per intendere che qualunque cosa si dica nell’ambito della filosofia della mente, del cognitivismo in generale, non significa niente, non significa niente perché non ha nessuna possibilità di dire come stanno le cose, il modo in cui lo fanno loro è abbastanza ingenuo e squinternato, è una fantasia che però mostra quali sono le fantasie più comuni ultimamente: se il linguaggio non ha potuto rispondere di sé, cioè dire qual è il significato di ultima istanza, allora si cerca di far rispondere la realtà, la realtà che dice come stanno realmente le cose, che è un’altra fantasia.