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28 maggio 2025

 

Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo

 

C’è una questione sulla quale mi sono trovato a riflettere in questi giorni e volevo parlarne con voi. Riguarda ciò che stiamo facendo, ovviamente. È la questione del monoteismo. Sappiamo grosso modo, da dove arriva il monoteismo, come è incominciato. I monoteismi in teoria sono quattro, considerando anche lo zoroastrismo, una religione antica che esiste ancora adesso, ma non molto praticata; ma generalmente i monoteismi che si considerano sono tre: ebraismo, cristianesimo e islamismo, che sono le religioni del libro, perché si fondano su un libro. Ora, dicevo prima, sappiamo come, quando e dove si sono prodotti, tutte queste informazioni grossomodo le abbiamo. Manca però una informazione, quella più importante: perché è sorto il monoteismo? Non perché sono sorti gli dei, che esistono da quando esistono gli umani, ma perché è incominciato il monoteismo? Perché hanno sentito il bisogno di un solo Dio? A che scopo? Ne avevano già uno sterminio. Sappiamo grosso modo che il monoteismo sorge presso gli ebrei, all’incirca sei secoli avanti cristo, più o meno ai tempi di Omero. Ora, alla domanda perché il monoteismo, la religione, il cristianesimo, dà la sua risposta, naturalmente quella religiosa: perché la verità è una, perché Dio è l’unica verità, ecc. tutte questa belle storie, che però ci portano poco lontani. Presso gli ebrei il monoteismo ha sortito l’effetto per cui hanno incominciato a sentirsi e a proclamarsi il popolo eletto. Qualcuno si sente un eletto quando c’è una verità, quando è il portatore di una verità. Ora, prima era impossibile questa cosa, era impensabile, non c’era colui che fosse il portatore della verità, anche perché, come sappiamo, l’idea della verità epistemica non era molto forte presso gli antichi greci, il concetto di assoluto era praticamente assente. Il portatore della verità, invece, deve fare conto sulla verità assoluta, quindi, unica, non ce ne sono altre, c’è solo quella. Dunque, l’ebreo si considera l’eletto, si considera e si è sempre considerato il portatore della verità. Ora, se ci pensiamo bene, tenendo conto della volontà di potenza che è presente in ciascuno, questa cosa offre alla volontà di potenza l’occasione di potere pensarsi in possesso di un potere assoluto, perché portatore della verità, dell’unica verità. Poi, con il cristianesimo, questa cosa è stata incentivata ed è aumentata di intensità; e, allora, i cristiani sono diventati i portatori della verità. Questo con una variante, perché l’ebreo è sì portatore della verità, però si sente l’eletto da Dio, tutti gli altri non sono eletti da Dio, quindi sono considerati degli scarti, gente che è possibilissimo, anzi, è quasi doveroso imbrogliare, ingannare, mentire, ecc. Il cristianesimo no, perché ha avuto un risvolto universalistico che manca nell’ebraismo, l’ebraismo non è una religione universale, è particolare, potremmo quasi dire regionale. Il cristianesimo, invece, ha avuto questa piega universale e, allora, il cristiano non è più il popolo eletto ma è quello che deve portare la novella. Quindi, ecco l’evangelizzazione, che manca invece nell’ebraismo, che non ha bisogno di evangelizzare nessuno: io sono l’eletto. La questione che a noi interessa è quella della volontà di potenza, perché verrebbe da pensare che sia stata proprio la volontà di potenza, in fondo, a sostenere, quasi a decidere, quasi a costruire, quasi a inventarsi il monoteismo, e cioè una verità unica, della quale io sono il portatore. Di cosa ha bisogno la volontà di potenza? Ha bisogno di qualche cosa che gli permetta di potere giudicare l’altro. Sappiamo bene che il giudicare l’altro è una delle cose più amabili e più ricercate. Quindi, ecco che l’essere il portatore della verità offre immediatamente la possibilità di potere giudicare, perché c’è una verità, perché ho alle spalle una verità: è quella che mi consente di giudicare, perché giudico in base a una verità, ovviamente. E, allora, il monoteismo è diventato l’apice, potremmo quasi dire, della volontà di potenza, una situazione in cui io, con una verità unica alle spalle, posso giudicare tutto e, soprattutto, tutti. Giudico perché io sono dalla parte della verità. Quindi è necessaria questa verità, che però non deve essere mai messa in discussione. Il modo migliore perché non possa mai essere messa in discussione è che sia ineffabile. La verità, così come la cercavano i greci, era una verità che era il risultato di un’argomentazione, non era la verità unica. Cercavano, sì, il principio, l’archè, ma questa idea di verità unica nasce, potremmo dire, con Plotino, perché anche in Platone non è che fosse così decisa la questione; in Plotino sì, in Plotino l’Uno diventa la verità unica, a cui ciascuno deve sottomettersi, lo dice lui stesso. Ecco allora il monoteismo, da quel momento in poi in cui si è instaurato, cioè, ha dato l’opportunità alle persone di potere giudicare gli altri, di poterli giudicare a partire da una verità, e da quel momento non si è più mosso da lì e ha fornito il massimo piacere possibile, pensabile: ergersi a giudice delle cose e delle persone. Può farlo perché c’è la verità, che quindi deve esserci naturalmente, ma, come dicevamo, non deve essere il risultato di un calcolo: deve esserci ma ineffabile. Con Agostino entriamo nel cuore della questione dell’unificazione: unificare, cioè, togliere i molti, sempre e comunque. Questo era l’obiettivo principale: togliere i molti, tutti gli accidenti che possono intervenire a minare la verità in quanto unica. E questo, verrebbe da pensare, è il motivo per cui è sorto il monoteismo e si è impiantato nell’Occidente in un modo così radicale. Anche l’altro monoteismo, l’islamismo, che nasce sette secoli dopo il cristianesimo, viene dal neoplatonismo, non è che venga da un’altra parte. Ma è l’idea, comunque, di una verità unica o, per riagganciarci a qualcosa che dicevamo forse l’altra volta, di un significato univoco. E così tutte queste operazioni, di cui parla Agostino, di unificare, di togliere tutto ciò che impedisce al significato di essere univoco e il male diventa l’irruzione dei molti. Quindi, in questo modo abbiamo incominciato a farci un’idea del perché sorge il monoteismo, perché, come dicevo, non c’era bisogno di nuovi dei, ne avevano uno sterminio, cosa se ne facevano di un altro? Ma questo altro aveva una particolarità che nessun altro Dio aveva: era unico, era la verità unica, quella che consente di ergersi a giudici su tutto e su tutti.

Intervento: …

Unificare, l’idea è sempre quella, unificare, questa è la parola d’ordine di tutti i monoteismi.

Intervento: …

Esatto, e questo qualcosa è la verità unica. E cosa fanno dire a Dio? Io sono il tuo Dio, sono unico, sono il solo Dio, non avrai altro Dio all’infuori di me. E ha funzionato perché ha incominciato con gli ebrei, che si sono sentiti gli eletti, perché loro avevano la verità assoluta, non più le piccole singole verità sparpagliate dappertutto.

Intervento: Gli ebrei non hanno imposto agli altri la loro religione…

No, perché, contrariamente al cristianesimo che ha puntato tutto sull’evangelizzazione, l’ebreo è rimasto il privilegiato, l’eletto: io sono l’eletto, voi non siete niente. Ecco perché non ha fatto proseliti, non ha fatto quella evangelizzazione che ha fatto il cristianesimo, perché Dio ha detto che noi siamo gli eletti e gli altri no.

Intervento: Lo sterminio degli ebrei…

È Dio che li punisce, non hanno soddisfatto le sue richieste, il suo desiderio, che non si sa mai qual è e quindi non lo soddisfano mai, quindi sono sempre in colpa. Ma in ogni caso questo conferma che loro sono gli eletti e questa cosa non si condivide con gli altri. Se io sono l’eletto non voglio che lo siano anche gli altri, perché Dio ha detto che l’eletto sono io. Quindi, potremmo azzardarci a dire che la volontà di potenza è ciò che ha generato il monoteismo: la necessità di avere una verità unica alle spalle e che è quella che mi consente di giudicare tutti, cioè, ergermi a giudice universale, perché io ho la verità. In questo modo la volontà di potenza è totalmente soddisfatta.

Intervento: Anche a fantasia di abbandono…

La fantasia di abbandono è molto presente negli ebrei: l’essere abbandonati da Dio. Poi, è stata ripresa anche da Plotino perché quando uno si allontana da Dio si allontana dal bene e, quindi, va verso il male. E, quindi, allontanandosi da Dio o sentendosi abbandonato da Dio, chiaramente scivola sempre di più verso il basso, verso la materia, verso il nulla. Però, la questione che lei pone è interessante perché potremmo porre una questione che è difficile da articolare perché non abbiamo sufficienti informazioni. Ma era presente la fantasia di abbandono, così come è presente nel cristianesimo e nell’ebraismo, presso gli antichi greci oppure no?

Intervento: C’era la questione dell’esilio.

Sì, cioè, non partecipare più di tutti i vantaggi della polis, essere considerato alla stregua dei barbari. La questione si poneva perché mi stavo domandando se la fantasia di abbandono, che è così frequente dappertutto, sia anche quella una sorta di invenzione del cristianesimo, così come il femminismo he è stato inventato dal cristianesimo, ché non c’era prima. La fantasia di abbandono, l’essere abbandonati: si tratterebbe di pensarci bene, si dovrebbe andare a vedere anche la letteratura greca. Per esempio, nell’Odissea, nell’Iliade, ci sono queste figure dell’abbandono?

Intervento: …

Per il cristiano Dio è colui che non abbandona mai. Quindi, è qualcuno che, in fondo, mette al riparo dall’abbandono. Però, è da vedere... ci penseremo meglio. Bisognerebbe trovare qualche riferimento. Verrebbe da pensare, così d’acchito, che l’abbandono, così come è pensato nell’Occidente, sia un’invenzione del cristianesimo. Per il momento è solo un’ipotesi da verificare. Ma torniamo alla creatio come posizione della differenza, cioè, la creazione pone una differenza: Dio crea le cose, ma queste cose non sono Dio. Per quanto concerne il desiderio di conoscenza dell’uomo, questo significa che nella conoscenza il carattere trascendente dell’essere creato va realizzato trascendendo l’essere creato e orientandosi al fondamento. L’esperienza della temporalità dell’essere mediante l’esperienza della temporalità interiore, attuata nel ritorno del pensiero in se stesso… È il ritorno del pensiero in se stesso che fa esistere il tempo. …diventa il punto di partenza finché il pensiero irretito nel tempo diventi consapevole di sé in riferimento al suo fondamento intemporale. Se a questo tempo che ciascuno avverte non è altro che… E qui c’è tutto Platone. …una reminiscenza del tempo, dell’idea del tempo. Il diventare consapevole della struttura a priori proprio del pensiero… A priori. Di nuovo siamo con Platone, sono le idee. …la comprensione della verità interiore del pensiero come riflesso della verità eterna che determina il pensiero... Perché ciò che sento dentro lo sento ed è vero perché è dato da Dio. Senza Dio non sento niente dentro. Infatti, prima del monoteismo non sentivano praticamente niente, è dopo che si è incominciato a sentire. …costituisce il punto di partenza della trasformazione del pensiero nella verità immutabile e intemporale. Quindi, il punto di partenza per costruire questa verità assoluta, questa verità unica, è platonicamente l’idea che questo tempo che io avverto lo avverto perché mi rimanda a un tempo che sta lassù, a un tempo a priori. Questo per dire quanto l’influsso di Platone sia potente. Quindi, come vedremo anche in seguito, l’obiettivo è, sì, certo, l’unificazione, giungere all’Uno, ma all’Uno come la verità assoluta, la verità unica, non ce ne sono altre. E qui si aggancia alla questione dei numeri, perché anche il numero sembrava qualche cosa di unico. I numeri non sono tuttavia solo l’intimo fondamento delle idee, ma agiscono anche nell’atto del nous, che si rivolge all’esterno. Essi (i numeri) entrano a costituire l’essere sensibile come ombra dell’intelligibile, l’essere è numero unificato. Gli esseri sono numero esplicato. L’essere è numero unificato, è il numero. Poi, gli esseri sono numero esplicato. Lo Spirito è il numero che muove se stesso. Che si anima. Il vivente è numero che comprende in sé gli altri. Poiché l’essere deriva dall’Uno... Qui c’è tutto Plotino, naturalmente. …è necessario che, se questo è Uno, esso sia numero... Per questo si è detto che le forme sono unità e numeri: perché l’Uno occorre che sia anche numero, tra le altre cose. …e questo è il numero essenziale. Diverso, invece, il numero composto di unità, che è l’immagine… Quello che usiamo. È essenziale il numero che viene contemplato nelle idee… Quello è il numero essenziale, quello identico a sé e immutabile. …e che insieme rigenera, ma soprattutto è quello che è nell’essere, è collegato all’essere ed è prima degli esseri e nel quale gli esseri trovano fondamento, sorgente, radice e principio. Questo è tratto dalle Enneadi di Plotino: l’idea del numero, che poi ricomparirà quando parlerà del bello e dell’ordine, ordine che viene del numero. Dio pensa e conosce gli enti in se stessi, in quanto sono sue idee. La scienza di Dio è identica agli enti e nello stesso tempo è causa del fatto che gli enti esistono al di fuori di Dio. Il Padre, che è l’immutabile, l’eterno, ecc., parla e la sua parola è il Figlio, è il verbo; le cose si dicono e dicendosi esistono (lo Spirito, l’Anima): questo è il funzionamento, detto in modo rapido. Qui ancora l’atemporale, che è importante perché questa verità unica non è soggetta a mutazioni, quindi è fuori dal tempo. Se fosse nel tempo ovviamente muterebbe e non sarebbe una verità unica. Principio della scienza e dell’essere è il principio atemporale stesso che è pura scienza, conoscenza, pensiero, ed è unità dell’essere ideale e del pensiero di questo essere. Dall’interpretazione agostiniana di Genesi, 1, risulta evidente che creare in principio significa creare mediante la parola. Questa parola è identica al pensiero, alla scienza e alla conoscenza divina. La parola di Dio è tutto, è conoscenza, sapienza, possibilità, ogni cosa. Creare in principio… Questo “in principio” in Agostino non significa che era prima di adesso; non è una successione temporale, è atemporale, perché anche il tempo è una creazione di Dio. Creare in principio significa costituire un essere nuovo rispetto al principio, è caratterizzato da una propria modalità ontologica, esplicando l’essere delle idee che precedono intemporalmente gli enti temporali. Creare in principio sarebbe l’idea di Platone, che diventa qualche cosa. Ma questo non è il principio, nel senso che viene prima, ma nel senso che, come dicevo, questo in principio è intemporale, significa che questa cosa avviene simultaneamente, avviene perché Dio pensa, parla… Perché parli esattamente non si sa; a un certo punto questa parola è il Figlio, il verbo, questo crea lo Spirito, l’anima, la psiché e, quindi, le cose si animano, esistono. Questa identità di pensiero e di linguaggio, intesa sia come atto immanente al principio divino, sia come posizione dell’essere temporale, può essere espressa ricorrendo alla metafora della visione. La visione di Dio, che costituisce una unità intemporale con l’oggetto della visione (le idee) costituisce l’essere nel tempo. Per Dio la visione, il vedere le cose, non è temporalizzato: non c’è la cosa e poi la vedo; vederla e farla esistere sono la stessa cosa. Ora una citazione dalle Confessioni. Tutte queste cose che tu hai creato, noi le vediamo perché esistono, mentre è perché tu le vedi che esistono. /…/ Il numero costituisce la forma determinata di un ente, la sua bellezza, il suo ordine interno, la struttura razionale dell’ente in sé, il rapporto tra i singoli enti e tra questi stessi enti e il principio. In modo analogo alla reductio, che abbiamo descritto, la conoscenza del numero creato e del carattere numerico dell’ente rimanda al fondamento di questo numero, il numero assoluto. Di nuovo mettono in atto questo procedimento: c’è il numero assoluto, che è l’idea, e poi c’è il numero, quello che usiamo per fare i conti. Questa modalità è esattamente quella che utilizzò, se vi ricordate, Porfirio nell’Isagogé, quando commenta le Categorie di Aristotele. Come risolve il problema, di Aristotele, per il quale le categorie non sono nient’altro che ciò che si dice della sostanza e la sostanza è le categorie? Ponendo, sì, una sostanza, che è quella di cui parla Aristotele, ma poi pone un’altra sostanza, che sta al di sopra e che è immutabile, una. Poiché non poteva tollerare che la sostanza non fosse nient’altro che le categorie, si è dovuto inventare quest’altra sostanza. Qui è la stessa cosa: non si può tollerare che il numero sia soltanto quello che usiamo per fare i conti. No, il numero è fondamento dell’unità, è fondamento dell’ordine, quindi, di tutto quanto; quindi, ci deve essere un numero al di sopra, che è il numero ideale, che è appunto ineffabile. Il numero creato… Quello che usiamo. …che causa la forma, la bellezza e l’ordine del mondo si basa a sua volta sul numero assoluto, che è identico all’intelletto divino o alla sapienza del Creator come luogo dei numeri.

Intervento: C’è sempre un trascendente che governa l’immanente.

Sì, sempre. L’immanente sono i molti, il trascendente l’Uno, immutabile ed eterno, anzi, prima dell’eternità, al di sopra del cielo, Iperuranos, sopra il cielo, letteralmente. Dio non ha creato l’universo nell’universo, quasi introducendo in qualcosa che esisteva preliminarmente. Dio non ha nemmeno agito come il Demiurgo platonico, che porta qualcosa di già esistente dal disordine all’ordine. Questo faceva il Demiurgo nel Fedone. Poiché non vi era nessuna cosa dalla quale Dio avrebbe potuto produrre gli enti, e poiché egli non aveva fra le mani un elemento da cui trarre, cielo e terra, non resta che pensare la creazione come un atto assoluto. Cioè, non possiamo pensare che esistesse qualcosa prima di Dio. Perché questa verità è una, se esiste qualcosa prima di lei, vuol dire che non è più unica, c’è dell’altro. Invece no, l’altro non ci deve essere.

Intervento: La questione dell’archè. Presso i greci era sempre nell’ambito dell’immanente. È stato con Platone che si è data la priorità del trascendente sull’immanente.

Esatto. Basti pensare ai primi fisici, Anassimene, ecc., l’idea del principio come l’archè, l’acqua, il fuoco, ecc. È sempre qualcosa di molto pratico, di tangibile, non c’era il trascendente perché non c’era il concetto di assoluto. Questo incomincia a prendere forma con Platone, poi diventa un’istituzione, un’ipostasi con Plotino. Il concetto di creatio ex nihilo (creazione dal nulla) non esprime quindi soltanto la differenza tra creazione umana e creazione divina ma rende manifesto anche il carattere assoluto di questo atto creativo e la sua differenza rispetto a ciò che è da creare. Questo creare è pertanto inizio assoluto o assoluto fare iniziare l’altro. Vedete l’idea che ci sia qualche cosa che a un certo punto crea i molti. Questi molti iniziano, principiano a partire dall’Uno, a partire da Dio, è lui che li fa esistere. E questo è il primo modo, un modo anche abbastanza potente, di gestire i molti. Il nulla dal quale Dio crea è in fondo Dio stesso, “ex nihilo facere” è identico a “in principio quod est de te facere o in sapientia facere. Cioè, sei tu che hai fatto dal principio tutte le cose dal nulla. Qui c’è una nota. Che la creatio ex Nihilo non possa essere ritenuta come una concezione genuinamente cristiana diventa evidente tenendo conto che a Porfirio risale la tesi secondo cui anche la materia stessa è stata creata dal Demiurgo, il quale non ha bisogno di qualcosa di preesistente. Tutto, quindi, giunge da Dio. Questa tesi viene ripresa e sviluppata da Ierocle. Quindi questa idea, dice Beierwaltes, non è neanche tanto un’idea cristiana, perché era già presente in Porfirio, il quale dice che il Demiurgo non ha bisogno di qualcosa di preesistente, mentre per Platone sì, per cui c’è un caos primordiale e poi il Demiurgo che sistema le cose. Porfirio arriva, invece, a concepire il Demiurgo come qualche cosa che crea ex nihilo. Andiamo un po’ avanti. Il Creatore pone allo stesso modo del Demiurgo negativamente il limite di ogni realtà e attraverso essa, positivamente, la sua propria essenza... Cioè, c’è un negativo e un positivo, il negativo è che è illimitato, il positivo perché questa limitazione è la sua essenza. …alcunché di determinato, di limitato, essenzialmente. Il limite determina in questo modo la singolarità e la identifica nella sua propria alterità rispetto ad ogni altra. Ogni ente allora deve presentarsi anzitutto per essere identificabile come tale, come un qualcosa di delimitato e di misurato. Ecco che sono il numero. Ecco che torna il numero, quello che misura, che delimita: delimitando le cose le determina, le fa esistere; quindi, le cose esistono in quanto sono limitate e sono limitate in quanto esiste il numero, e il numero esiste in quanto c’è l’idea dell’Uno. Il Demiurgo neoplatonico e il Creatore cristiano operano nella stessa maniera, facendo in modo che l’ente sia delimitato, determinato, misurato e, quindi, moderato. La smisuratezza, più o meno nel senso della materia informe agostiniana, deve essere formata con la misura, la mancanza di misura all’interno di qualcosa che è già formato è un accidente superabile. Nelle nozioni di péras, apéiron e iperbolé (limite, indeterminato, ciò che eccede) è presente ancora una volta la tradizione che si è sviluppata, andando alle origini, a partire dal Filebo di Platone, tranne che le dottrine non scritte di Platone stesso, sino alla triade procloniana, péras, apéiron, michtòn (limite, illimitato e via di mezzo). Secondo l’ipotesi di lavoro di Theiler queste problematiche desumono dall’ambito del tardo neoplatonismo, elementi essenziali per la comprensione di Agostino perché chiariscono i presupposti filosofici strutturali del pensiero agostiniano, che derivano dal neoplatonismo greco. La bellezza in quanto numero, posta con la creazione, che determina ordine, si fonda sul numero assoluto dell’intelligenza di linee, ossia nella sapienza del Creatore in quanto luogo dei numeri. Questi sono gli elementi strutturali del suo essere immutabile e della sua verità. Essi sono immutabili come questo stesso essere. Se i numeri sono il fondamento di ordo, forma e pulchritudo dell’ente (ordine, forma e bellezza dell’ente), se essi a loro volta si fondano sulla sapienza divina, come i suoi elementi strutturali, se la sapienza in quanto verbo, è al contempo, sia essa nelle forme, che essa mette in atto nella creazione, allora i numeri coincidono in mente divina con queste forme paradigmatiche atemporali dell’ente creato, sono identici alle idee…