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26 febbraio 2025

 

Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo

 

Beierwaltes in questo libro ci suggerisce molte cose a cui pensare, in particolare riguardo al movimento dialettico, che lui giustamente riconduce a Plotino, al neoplatonismo, a questo movimento dall’Uno all’Intelletto e all’Anima e che poi torna all’Uno, che è un movimento dialettico, è esattamente quello che descrive Hegel. Partendo da una questione, quella che riguarda quelle parole che compaiono nella Bibbia, “Io sono colui che sono”, ecc., dice a pag. 56. La “ripetizione” del primo “io sono” nel secondo è da intendersi - come vedremo - come rafforzamento riflessivo del primo, come autoesplicazione dell’identità o come pura affermazione che afferma se stessa, e cioè l’essere puro. Essa esclude tutto ciò che è negativo, estraneo, altro, contrario, molteplice, dunque ogni non-essere o nulla. Questa ripetizione dice che c’è soltanto l’Uno, escludendo i molti. Questa negazione (Aufhebung) della negazione non è però, come per esempio in Proclo, negazione della dialettica negativa, cioè negazione del pensiero e del discorso in quanto tali di fronte all’impensabilità dell’Uno... L’Uno non è pensabile, quindi non posso dirne niente. …ma è invece tratto fondamentale dell’essere stesso; colui che di sé dice “Io sono colui che sono” negatio negationis. Cioè, nega che ci sia qualcosa che gli si oppone, nega che ci sia dell’altro. “Dio non è una parte del tutto, ma qualcosa al di fuori del tutto, o piuttosto qualcosa di anteriore o di superiore al tutto. Per questo non gli conviene la privazione o la negazione, ma a lui, e a lui solo, è propria la negazione della negazione, che è il nocciolo e l’apice dell’affermazione più pura, secondo la parola: ‘io sono colui che sono’”. La pura affermazione è un atto del pensiero e della parola. Il raddoppiamento dell’“io sono” significa perciò essenzialmente che l’essere divino da nulla limitato riflette se stesso. Autoaffermazione quale autoriflessione implica che il pensante e il pensato, siano in un certo modo “differenziati”, e tuttavia già sempre superati l’uno nell’altro, in base all’eternità dell’atto in cui non c’è né prima né dopo. Qui c’è una questione importante, perché riguarda la dialettica. L’autoriflessione, dice, implica che il pensiero pensante e il pensiero pensato sono sì differenziati ma si integrano. Ma come si integrano? Ché il pensiero pensato è quello che determina il pensiero pensante. In Hegel c’è sempre questo aspetto, Beierwaltes sfiora la questione ma non l’affronta mai con forza. La questione della dialettica hegeliana andrebbe affrontata in modo più deciso, perché queste due istanze, l’in sé e il per sé, possono venire integrati a condizione che ciascuno dei due sia determinato. Allora, l’in sé si autoriflette nel per sé – che poi sarebbe il suo significato - e dal per sé torna all’in sé e solo a questo punto l’in sé è il tutto, è l’intero. Ma in questa operazione è necessario che ciascuno dei due, l’in sé e il per sé, sia determinato. Perché? Supponete per un istante che tanto l’in sé quanto il per sé siano, ciascuno dei due, anche l’altro simultaneamente. Come integro l’in sé con il per sé se l’in sé è anche il per sé? È già “integrato”, cioè, l’in sé è già il per sé, perché non potrebbe esistere senza il per sé. Sta tutta lì la questione, che rende impraticabile la dialettica perché, per poterla praticare, devo presupporre che i due elementi (tesi e antitesi) siano determinati; solo così li posso sintetizzare, posso integrare i due. Ma se la tesi è l’antitesi, e viceversa, l’integrazione non integra più niente, perché non può determinare nessuno dei due in quanto separato dall’altro. In questo modo, però, si demolisce tutta la dialettica. Demolendo la dialettica si demolisce il comunismo, perché la dialettica la riprese Marx volgendola in materialismo dialettico e materialismo storico. Il passaggio di Marx è quello dall’idea, come era per Hegel, alla prassi, cioè all’agire: l’agire dell’uomo è contraddittorio, per cui bisogna integrare ciò che contraddice il mio agire, per fare in modo che il mio agire sia integrato anche da quegli aspetti che sono apparentemente negativi. È la stessa cosa che diceva Hegel riferito all’idea; invece, Marx poi l’ha riferito alla prassi, all’agire, all’agire storico: nella storia le cose si svolgono in un certo modo, ci sono degli eventi, ma questi eventi non sono mai definiti unicamente, come per esempio potrebbe fare la metafisica che lo determina in quanto tale; no, è quello che è ma è anche tante altre cose. Per questo indicavo la dialettica come quel processo per cui ciascun elemento ha in sé già le condizioni del suo superamento, cioè, comporta il negativo che poi viene integrato. Sì, così funziona, certo, ma rimane il problema di questi due elementi, tesi e antitesi, che potremmo anche chiamare uno e molti, è la stessa cosa, o l’in sé e il per sé: possiamo benissimo intendere il per sé come il significato dell’in sé, è ciò che l’in sé dice ciò che l’in sé è. Ma se, come dicevo, questi due elementi non possono in alcun modo essere separati, allora non possono in alcun modo neppure essere integrati. Come integro qualche cosa che è già quell’altra cosa che dovrebbe integrarla? Perché ha avuto tanto successo la dialettica? Sì, certo, perché Marx l’ha ripresa, ovviamente perché a lui serviva, partendo dalla dialettica servo-padrone di Hegel, per mostrare che il servo, cioè l’operaio, deve, eliminando il padrone, mettersi al posto del padrone, in fondo. In un altro modo, questa integrazione chiaramente modifica anche il servo, che non è più quello di prima, ma diventa lui stesso padrone dei mezzi di produzione. Ora, però, ciò che a noi interessa è che questo movimento dialettico, in effetti, identifica il servo e il padrone come entità, come istanze determinate. Solo così Marx può pensare che un giorno il proletariato prenderà il potere e diventerà il padrone del mondo. Al di là di tutta una serie di considerazioni che possono farsi a questo riguardo, rimane il fatto che queste due istanze, il proletariato e il capitalismo, sono viste e pensate come entità metafisiche, nonostante Marx disprezzasse la metafisica, però, la utilizza per determinare queste due istanze. L’unico modo per non trovarsi immersi totalmente nella metafisica è invece considerare che ciascun elemento della dialettica è simultaneamente l’altro e, quindi, non potrà mai integrarsi perché non può, perché in quanto tale è indeterminato. È come se dicessimo che il servo, il proletariato, non potrà diventare mai capitalismo, perché il proletariato è già capitalismo, lo è già, quindi non può diventarlo. Ci sarebbe molto da discutere su questo, ma adesso non è la cosa che più ci interessa, perché a noi interessa invece intendere come questo processo dialettico sia divenuto il processo del pensiero comune. Beierwaltes ci mostra con precisione come questo movimento dialettico, reso celebre da Hegel, in realtà non è altro che neoplatonismo. Quindi, non siamo usciti per nulla dal neoplatonismo. A pag. 58. L’autoriflessione di Dio è così necessariamente un eterno cerchio. Hegel: in sé, per sé, in sé. Il punto di partenza e il punto di arrivo, sono in lui identici: “processu ergo (deus) non recedit a primo, sed accedit ad primum… Accedit, non recedit, cioè, non ritorna ma accede al primo, e così ogni volta è sempre primo, è sempre la prima volta. …et sic novissimus est primus”. Il cerchio riflessivo in cui si realizza trinitariamente l’identità dell’essere puro non ammette prima né dopo; ciò vuol dire in generale: non ammette nulla di un senso proprio differente, nel senso cioè di una reciproca esclusione. Certo, perché integrandosi è chiaro che non esclude più l’altro perché lo ha integrato. Ma qui c’è un grossissimo problema, anche se appare come un dettaglio, ma non lo è, perché sì, certo, questa integrazione avviene con la sintesi, ma per potere compiere questa integrazione è necessario che le due istanze siano metafisicamente determinate, altrimenti non lo posso fare. Si rivela qui il paradosso di qualsiasi dottrina della Trinità: il dover mantenere l’unità dell’essenza nella diversità delle persone - difficoltà che per Eckhart si avvicina quasi a una aporia: data la prevalenza dell’unità nel concetto di Dio riuscire ancora a concepire con un minimo di plausibilità la differenza delle persone divine: “inseparabilis distinctio et tamen distinctio, videat qui potest” (è una distinzione che non è separabile, tuttavia, sono distinti, lo prenda in considerazione chi riesce a farlo). Ma questa aporia delle tre persone, che sono uno ma rimangono tre, è l’aporia delle tre istanze di Hegel (tesi, antitesi, sintesi), che rimangono distinti ma sono uno. Naturalmente, la questione è complicata perché con questi tre momenti, tesi, antitesi e sintesi, che diventano uno, è posto esattamente lo stesso problema che si poneva nella teologia: ci sono tre persone ma sono distinte, però, sono una; ci sono tesi, antitesi e sintesi, che sono distinti e allo stesso tempo sono uno. Come fanno? La soluzione a questo problema ce la dirà fra poco, quando parlerà dell’estasi mistica. A pag. 63. Quale puro pensiero e puro essere egli (Dio) pensa solo se stesso, e ciò significa: il suo essere: “L’essere è qualcosa di così puro e di così sublime, che tutto ciò che Dio è, è un essere. Dio non conosce nient’altro che essere, non sa null’altro che essere, l’essere è il suo anello. Dio non ama che il suo essere, non pensa che il suo essere”. Lui solo, dunque, è l’identità di pensiero ed essere, è l’essere che si pensa come unità o il pensiero che è in modo assoluto: “in ipso solo esse est intelligere ... ubi esse non est ipsum intelligere… Essere e pensiero sono la stessa cosa. Perché interessa questo a Beierwaltes? Perché questo accostamento tra pensiero ed essere? Perché in fondo, l’in sé, pensandosi, cioè, riflettendosi nel per sé, diventa essere, cioè, solo a quel punto diventa essere, diventa qualche cosa solo attraverso il pensiero. A pag. 64. Eckhart descrive l’atto dell’autoaffermazione o autoriflessione divina, espresso nell’“Io, sono colui che sono”, come un ribollire (bullitio) o un “partorire se stesso”. Tenete sempre conto che possiamo fare continuamente un raffronto con la dialettica hegeliana: è come se l’in sé partorisse il per sé. Ribollire o partorire se stesso è atto trinitario: chi nasce è l’Unigenito, il Figlio o la Parola. Il Padre, che è l’essere, esprime se stesso nella Parola e come Parola, la quale - identica al Padre - è essere puro. Nel parto riflessivo di se stesso il primo “io sono” “si ripete” nel secondo e come secondo, senza raddoppiarsi in senso quantitativo. Dobbiamo sempre avere presente la dialettica hegeliana: l’in sé non è che si raddoppia con il per sé, ma questo per sé è come partorito. Ma, dice, se lo partorisce c’è uno sdoppiamento; no, perché è un ribollire, per cui… vi ricordate Plotino, lo definiva come una specie di debordamento. Ci sta dicendo, in fondo, che nella dialettica il primo elemento produce il secondo, cioè, l’in sé produce il per sé per autoriflessione. Ma l’autoriflessione è l’emanazione, è la processione di Plotino: l’Uno che, pensandosi, produce l’intelletto. È come se l’in sé, pensandosi, si trovasse a essere per sé, ma questo per sé si accorge immediatamente che è sempre lui stesso e, quindi, il per sé se lo riprende e diventa effettivamente in sé. Sempre, naturalmente, mantenendo questa distinzione metafisica tra i due, che sono determinati e individuati. A pag. 68. Se Dio non fosse essere assoluto, sarebbe nulla in senso radicale, oppure sarebbe fondato per mezzo di qualcosa che fosse prima di lui. Ma ciò sarebbe in contraddizione col suo essere e col suo concetto. La tesi esse est deus o deus est esse, così chiarita, si rivela come la quintessenza più conseguente dell’argomento ontologico di Anselmo: Dio può essere pensato soltanto come essere… Non posso pensare qualcosa che non è essere, che non è. …non è possibile pensare che non sia. Poiché è qualcosa di cui nulla di più alto può essere pensato, poiché dunque è il Sommo, egli è la perfezione sussistente, i fondamenti incondizionato e in-fondato: senza “perché”, il “perché” stesso. In questo suo essere-fondamento privo di fondamento, essere-motivo senza motivo, si fa particolarmente evidente la differenza nei confronti dell’ente. Che, invece, è sempre debitore dell’essere. A pag. 72. Qui definisce Dio come il totus-intra e totus extra-esse, il tutto nell’essere e il tutto fuori dell’essere. …vuol dire dunque che l’ente può sussistere soltanto per mezzo di lui, per mezzo dell’essere quale fondamento, che lui stesso è però nello stesso tempo assoluto, ab-solutus, nel vero senso della parola, unico e Uno, e non si perde (nell’atto del creare) a causa dell’ente né si disperde in esso; e questo perché non è nell’ente formaliter, secondo l’essenza, bensì virtute, vale a dire per mezzo della sua possibilità/capacità di agire: di fondare e mantenere l’essere. Distinguendo tra essere ed ente, fra assoluto e individuale, “non togliamo”, come dice Eckhart, “l’essere alle cose, né distruggiamo il loro essere, ma anzi gli diamo fondamento (lo consolidiamo)”. Un ente, che sussiste immediatamente ed esclusivamente da Dio, cioè dall’essere, rimanda al fondamento cui partecipa. Tutto questo discorso è il discorso del neoplatonismo, e cioè qualunque elemento rimanda a quell’elemento da cui procede. Ma se Hegel avesse fatto esattamente la stessa cosa? Perché il per sé dovrebbe tornare sull’in sé? Perché procede dall’in sé, quindi, procedendo dall’in sé, direbbe Plotino, è naturalmente portato a ritornare là da dove arriva. Sì e no. Sì, perché è vero che senza l’in sé non c’è neanche il per sé, perché il per sé non è altro che l’in sé che riflette se stesso e, quindi, diventa molti; ma anche no, perché questo per sé, i molti che vogliono, avrebbe detto Plotino, ritornare all’Uno, si trovano in una posizione molto particolare per cui è come se fosse naturale che i molti debbano tornare all’Uno e, quindi, questo è Plotino ovviamente, l’Uno sia prioritario su tutto. I molti scompaiono nell’Uno, il per sé scompare - anche se non è proprio la parola più appropriata - ma integrandosi nell’Uno questi molti, il per sé, diventano l’in sé, non sono più il per sé. E il per sé dove è andato? È scomparso a vantaggio dell’Uno, cioè, dell’in sé. Questa è la dialettica, che rimane un processo fondato sull’Uno, da cui procede l’Intelletto, potremmo dire l’in sé, da cui procede il per sé, che poi ritorna sull’Uno, cioè, sull’in sé. È esattamente lo stesso processo, cioè il processo dialettico di Hegel che non si discosta minimamente da Plotino. A pag. 75. …come identità di ipsum esse e essentia (egli è ciò che è; egli è colui che è), come immutabilità - privo di processualità temporale - semplicità che esclude i contrari… Questo è l’obiettivo. Hegel parla del pensiero assoluto. Il pensiero assoluto ha eliminato i molti, ha eliminato il per sé, non c’è più, diventa un pensiero assoluto; è come il concreto che ha eliminato tutti gli astratti e, allora, diventa il tutto. È la stessa cosa che dice Hegel, la stessa cosa che dice Plotino: questo ritorno verso l’Uno dove i molti scompaiono. I molti hanno avuto la loro funzione, perché sono stati prodotti dall’Uno che si riflette, che riflette se stesso, che ha prodotto l’Intelletto, poi l’Anima, ma, producendo l’Intelletto, produce qualche cosa che è, produce l’essere; ma questo essere è sempre debitore dell’Uno, al quale vuole tornare, perché procede dall’Uno. Non c’è mai, né in Plotino, né in Hegel, né altrove, l’idea che invece l’uno e i molti sussistano ciascuno per conto proprio, e cioè che i molti non procedano dall’uno, che non ci sia la processione. Per esempio, in Aristotele questa cosa non c’è: i molti diventano sì l’universale, ma i molti, cioè il particolare, non sono posti come enti metafisici, tali per cui esiste l’universale ed esistono i molti; no, l’universale è i molti, è il particolare, sono la stessa cosa, non li posso distinguere in alcun modo. A pag. 79. Qui parla di Schelling, uno dei tre pensatori più noti dell’idealismo tedesco: Fichte, Schelling, Hegel. Nel primo libro della Filosofia della mitologia, che sviluppa il concetto di un rigoroso monoteismo (l’unicità assoluta di Dio), Schelling si confronta con il problema dell’essere nell’orizzonte del problema di Dio. È impossibile che Dio sia essere in senso partecipativo, se deve essere l’assolutamente unico. Non può partecipare di qualche cosa. Ma se non può partecipare di nulla, non partecipa neppure dell’essere. “Ora, se Dio non è un essere, qualcosa che all’essere soltanto partecipa, non resta altra possibilità se non che egli sia l’Ente stesso, ipsum Ens, e questo è appunto quel concetto preliminare di Dio che dobbiamo necessariamente porre se vogliamo porre Dio (non: un Dio). Dio è dunque l’Ente stesso”. Ora, qui Schelling lo pone come l’ente perché attraverso questa idea che ha lui, che l’essere non può partecipare di altro, e allora, se non può partecipare non è essere, non può essere altro che ente. È una cosa che non è che sposti moltissimo la questione, perché pone l’ente come l’Uno. “Come dico: egli (Dio) è l’Ente stesso, così devo dire: è l’Uno stesso, con cui si esprime appunto che l’unità non gli viene attribuita come predicato, non è detta di lui, bensì egli stesso e l’Uno. Qui c’è sempre la questione importante del salto che fa Hegel rispetto anche alla logica, cioè, non è più una logica predicativa: il per sé non è ciò che è predicato dall’in sé. Il per sé appartiene, per così dire, all’in sé in quanto è un processo. Ma è la stessa cosa che diceva Plotino: l’Intelletto non è un predicato dell’Uno, perché l’Uno non ha predicati, l’Intelletto è un debordamento. Cos’è dunque l’“ente stesso” - a differenza dell’“essere”? Nel rispondere a questa domanda non bisogna lasciarsi fuorviare da un’abitudine di pensiero improntata al concetto boeziano (o scolastico) e heideggeriano di una differenza ontologica che intende o l’esse come il fatto universale, fondante e comprensivo del singolo ens, oppure il Sein come il risultato o l’evento (Ereignis) della differenza tra essere e ente, in cui l’ente però non può mai costituire il fine della ricerca; nella storia dell’essere, l’essere in quanto ente ha sempre impedito - nell’orizzonte del pensiero heideggeriano - la memoria del Sein, no dell’essere. Intanto non bisogna lasciarsi fuorviare da Heidegger, che pone l’ente in un altro modo. Per Heidegger, come sappiamo, tutta la filosofia erroneamente si è occupata dell’ente pensando di occuparsi dell’essere; perché, se parlo dell’essere, se lo determino, se lo studio, ecc., lo pongo come ente. È esattamente la stessa questione del movimento: se parlo del movimento lo fermo, ne parlo come quiete e, quindi, non sto parlando del movimento. La stessa cosa è per Heidegger: se parlo dell’essere, di fatto sto parlando dell’ente, non sto parlando dell’essere; dell’essere, non posso parlarne. Da qui tutti i suoi marchingegni, la barra, la Y in Sein, perché diceva che non si può dire l’essere, l’essere è ineffabile. Questo ineffabile, però, è ciò che consente all’ente di apparire, perché senza l’essere non c’è l’ente, che sarebbe nulla senza l’essere, senza l’ineffabile. A pag. 80. Benché non si possa negare un nesso oggettivo fra la differenza ontologica di Heidegger e quella schellighiana, l’esplicazione di Schelling procede, almeno da un punto di vista terminologico, in senso contrario: essere è - almeno a partire dalle Stuttgarter Privatvorlesungen e dai Weltarter - esclusivamente inizio indeterminato, “materia”, possibilità (potenza) o fondamento dell’ente stesso, mentre quest’ultimo è la realtà in sé sussistente, compiuta, la realtà quindi che doveva essere, la quale si annuncia linguisticamente appunto nella determinatezza del participio. Se l’“ente stesso”, o come lo chiama Shelling “ciò che è l’ente…”, viene pensato come identico a Dio, allora non può essere il puramente-essente o ciò che meramente può essere, anzi è qualcosa di libero rispetto all’essere... E Dio deve essere libero da tutto, non può essere vincolato da qualche cosa. …quale pura possibilità, qualcosa che lo nega: l’ente nel senso di ciò che è per se stesso come soggetto. Questo soggetto, quale puro potere di essere, che, come tale, è essente (e non soltanto passibile di essere, cioè, meramente-essente), deve essere però contemporaneamente oggetto, che, per il fatto di essere oggetto, è essente. Pone l’ente sì come soggetto, ma questo soggetto è anche qualche cosa, quindi è oggetto. Vi ricordate ciò che diceva anche Hegel: soggetto e oggetto sono due momenti dello stesso; infatti, l’in sé e il per sé sarebbero soggetto e oggetto che si integrano e diventano la stessa cosa. A pag. 82. Spirito perfetto e cioè assoluto è soltanto l’unità del separato: “che nell’in sé, o nell’essere-soggetto, è per sé, che quale soggetto è oggetto di se stesso ….cosicché…” è entrambi “in una identica forma”, senza che soggetto e oggetto si limitino vicendevolmente. Quindi, lo Spirito perfetto è l’unità di questi due elementi separati. Ma l’in sé e il per sé sono separati. Ciò che invece stiamo ponendo da tempo è che non solo non sono separati, ma sono inseparabili, perché non posso separarli, esattamente così come non posso separare il mio dire da ciò che il mio dire dice. Questo è lo Spirito che è presso di sé, che si possiede liberamente. Quindi, questa unità di due elementi separati: tesi e antitesi. Soltanto alla fine di questo processo lo Spirito è giunto a liberare il proprio inizio dalla sua astrazione o negatività, in quanto l’ha estratto dalla sua inizialità: Spirito è essenzialmente processo fuori da se stesso (un voluto esser-fuori-di-sé), senza che il suo carattere assoluto vada perduto nell processo. Altrettanto essenziale gli è anche però il ritorno o rientro in se stesso. Essere-presso-di-sé significa dunque: anche nel suo essere-fuori-di-sé, nella sua “de-cisione” lo Spirito è in-sé, nella sua essenza. Sostiene, rimanendo se stesso, l’andar via da sé col recuperarlo in sé. Questa è la sua dialettica. C’è l’uno, l’in sé, che si riflette, diciamola in modo molto banale, che si pensa: è l’Uno di Plotino che pensandosi produce l’Intelletto per eccesso di bontà. Però, vedete, qui è precisissimo: soltanto alla fine di questo processo; allora, come direbbe Severino, tutti gli astratti scompariranno e diventeranno il concreto, solo alla fine di questo processo. Che è un processo iniziatico, in un certo senso. Se, invece, pensate ad alcune posizioni di Aristotele, così come abbiamo visto, non c’è nessuna iniziazione, non è un processo che va verso qualche cosa, che deve a un certo punto raggiungere la sua meta, il suo télos, ma ciascun elemento è simultaneamente uno e molti, non deve raggiungere niente, ha già raggiunto tutto quello che poteva raggiungere. Non c’è un processo che abbia un fine, quale fine dovrebbe avere? Può avere un fine se l’in sé si riflette, diventa per sé, ma questo per sé deve tornare sull’in sé. Non è che questo per sé se ne va per i fatti suoi, a destra e manca; no, deve tornare sull’in sé, e si compie il processo che per Hegel conduce allo Spirito assoluto, che per Plotino è l’Uno, il ritorno all’Uno. Passiamo al capitolo dedicato a Plotino nell’idealismo tedesco. All’inizio ci sono alcuni cenni storici che potrebbero essere interessanti perché situano un po’ tutta la questione così come è stata affrontata da allora, cioè nel diciottesimo secolo, gli anni di Hegel, di Schelling, di Fichte, Novalis, di Goethe, ecc. A pag. 95. In contrasto con la tendenza delle storie della filosofia di Jacob Brucker, di Dietrich Tiedeman e di Wilhelm Gottlieb Tennemann, che hanno esercitato un’influenza determinante sulla coscienza del loro tempo, alla fine del XVIII e all’inizio del XIX secolo si fa strada un giudizio più equo sulla filosofia neoplatonica - giudizio che giunge talvolta fino all’ammirazione e all’imitazione. Decisiva per questa trasformazione, che è allo stesso tempo un rafforzamento della coscienza, è, tra le altre, l’opera soprattutto di Goethe, di Novalis, di Schelling, dei giovani Fichte e Hegel. Gli stessi filosofi, o gli storici della filosofia che avevano anche accesso alla problematica filosofica del loro tempo, affermano l’esistenza di un’affinità oggettiva fra neoplatonismo e idealismo. Quindi, non è una cosa che ha rilevato soltanto Beierwaltes; lui giustamente nota che è stata una cosa posta già nel diciottesimo secolo da molti pensatori e, quindi, era una cosa molto evidente per loro questa prossimità tra l’idealismo, la dialettica, e il neoplatonismo. Francamente questa affinità non è sempre “documentabile” sulla base di nessi storici concreti. Si manifesta piuttosto principalmente sia nella forma che nell’interrogativo o motivo fondamentale del pensiero, i quali, in condizioni storiche mutate, fanno riferimento allo stesso problema o alla stessa cosa. Oggetto di questo capitolo sarà la ricezione di Plotino - del testo o in generale della forma di pensiero - nella filosofia idealista, rappresentata da Schelling e da Hegel. Il fatto che la discussione specificamente filosofica sia preceduta da riflessioni intorno a Novalis e a Goethe non è inteso come ossequio alla confusione leggermente irrazionale, oggigiorno di moda nella filosofia, tra pensiero e poesia, ma la sua giustificazione in un fatto storico: il pensiero di Novalis e di Goethe è impressionato e stimolato da Plotino o da elementi neoplatonici. Questa “affezione” non è francamente così profonda, durevole e universale, autorizzarci a parlare - come, ad esempio, nel caso di Ficino - di platonismo. Sorprendente è tuttavia il fatto stesso che si arrivasse, attraverso le stratificazioni storiche, alla scoperta di Plotino - molto meno a portata di mano di Platone e Aristotele di Spinosa o Bruno. Era più difficile procurarsi i testi, però, evidentemente interessavano perché avevano visto molto bene la stretta connessione tra l’idealismo e il neoplatonismo. A pag. 99. Qui è Novalis in una lettera a Friedrich Schlegel. Non so dice se ti ho già scritto del mio caro Plotino. Dal Tiedemann sono venuto a conoscenza di questo filosofo, che pare nato apposta per me, - e mi ha quasi spaventato la sua affinità con Fichte e con Kant - e la sua affinità ideale con loro. Mi è più vicino, più affine, di entrambi. Qualcuno mi ha detto che la mia scoperta non è nuova, e che questa corrispondenza singolare è già stata notata nella vita di Maimon. Ma allora perché non se ne parla? In Plotino c’è ancora molto da sfruttare - ed egli sarebbe certo degno, prima di chiunque altro, di venire riproposto all’attenzione del pubblico. Ecco, questo è ciò che pensavano di Plotino negli anni in cui veniva ripreso manifestamente dall’idealismo, e cioè come un pensatore straordinario che occorreva riprendere, studiare e riproporre.