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25 maggio 2022

 

Aristotele Retorica

 

Il lavoro che abbiamo compiuto intorno al linguaggio è ciò che ci consente oggi di affrontare la volontà di potenza, cioè la volontà di dominare l’ente, in modo molto più deciso e determinato. Per fare questo abbiamo dovuto affrontare un po’ di cose che ci hanno condotti alla possibilità di costruire una proposizione non negabile dal linguaggio. Tante volte abbiamo detto che non è possibile uscire dal linguaggio, perché se dico che sono fuori del linguaggio lo dico e, quindi, sono nel linguaggio. Certo, ma non basta una cosa del genere. Non basta anche perché dire che non-A è impossibile, cioè uscire dal linguaggio è impossibile, rende, sì, certo, possibile A, ma non necessario: è possibile ma non necessario. Se io nego l’impossibile affermo il possibile, non il necessario. Occorre un passo in più, e cioè occorre costruire una proposizione che, sì, certo, neghi la possibilità che il linguaggio possa negare se stesso, ma attraverso un’argomentazione che dice che, cogliendo il modo in cui funziona il linguaggio, proprio a partire dal suo modo di funzionare, noi possiamo dire che il linguaggio non può negare se stesso, per il suo stesso funzionamento. Quindi, non è più un’affermazione così a caso, ma diventa un’affermazione ineluttabile, sempre all’interno del linguaggio, naturalmente. Ora, potremmo anche dirla questa proposizione; in effetti, abbiamo già tutti gli elementi e in buona parte l’abbiamo già anche detta. Occorre partire da una proposizione che risulti certa, e dobbiamo sceglierne una, o meglio, trovarne una che abbia la caratteristica di essere certa, quindi, di non poter essere negata, perché negandola negherebbe se stessa che nega. È stato Platone, più propriamente la lettura di Heidegger del Sofista di Platone, a suggerirci qual è questa affermazione. Avete già capito immediatamente qual è, ma ve la dico lo stesso. Platone la enuncia come λέγειν τί, dire qualcosa, e Platone ha precisato che non si dà un λέγειν senza il τί. Questo è importante perché ci dice che, se dico, dico qualcosa, e questo qualcosa non è un’aggiunta, ma è ciò che fa esistere il mio dire; perché se il mio dire non dice qualcosa è dire niente o, più propriamente, è niente, perché dire nulla è nulla, non è neanche dire. Quindi, la proposizione che dice che, se dico, dico necessariamente qualcosa, non può negarsi, nel senso che se tolgo il dire allora non c’è neanche il qualcosa, non c’è più niente e bell’e fatto; se tolgo il qualcosa, che il dire dice, daccapo il dire dice nulla, non è neanche dire, perché se è dire è dire qualcosa. Dunque, questa affermazione non può negarsi, perché se la negassimo, così come abbiamo provato a fare un attimo fa, svanirebbe: se nego il qualcosa che il dire dice svanisce il dire, se nego il dire svanisce il qualcosa che dice, cioè, svanisce l’atto di parola e non c’è più niente. In questo modo abbiamo costruita una proposizione che non può negarsi, perché negandosi nega la possibilità stessa di negare, perché negare è un dire, un dire qualcosa, ma se nego il dire scompare tutto, la possibilità di dire, di negare, tutto. Quindi, una proposizione che non può negarsi, perché negandola nega la possibilità stessa di negare qualcosa, come conseguenza del fatto che anche il negare è un dire qualcosa. Questo è il primo passo, ma dobbiamo cogliere il punto in cui si innesta la volontà di potenza, che ancora non si è innestata; si innesterà a breve. Di nuovo, il dire è ciò che il dire dice: λέγειν τί. Sono la stessa cosa? No. Non occorrerebbe precisare il dire qualcosa, se fossero lo stesso. Sono distinti. Voglio dire che il ciò che il dire dice non è il dire, anche se è la condizione della sua esistenza: senza il ciò che il dire dice non c’è il dire, semplicemente. Ma non sono lo stesso o, se la volessimo dire con Hegel, sì, sono due momenti dello stesso, ma distinti. Cosa vuole dire che sono distinti? Che ciò che il mio dire dice non è il dire. Faccio un esempio per rendere la cosa più semplice. Se io dicessi “Cesare”, che cosa significa questo nome proprio? Significa tutte quelle cose che diciamo, pensiamo di Cesare, cioè, tutte le sue determinazioni, il suo significato; come dire che tutte queste determinazioni sono ciò che il mio dire “Cesare” dice. Proviamo a togliere tutte le determinazioni, cosa rimane? Cesare è lì, sospeso nel vuoto, non ha nessuna determinazione e, quindi, è nulla, non c’è nessun significato, è un suono, un rumore, è niente. Cesare diventa qualcosa, il mio dire dice qualcosa, in quanto Cesare è determinato da una serie di cose: è italiano, è presente, una nobile persona, tutto quello che voglio dire di Cesare. Ma Cesare e le sue determinazioni non sono la stessa cosa, sono due cose distinte, il λέγειν non è il τί, non sono separabili. Questo già Platone lo sapeva perfettamente, ma non ha portato la cosa alle estreme conseguenze, sennò non saremmo qui a fare questi discorsi, sarebbero già stati fatti venticinque secoli fa. Ora, dunque, Cesare è ciò che è in quanto determinato dalle sue determinazioni; quindi, sappiamo che Cesare, senza queste determinazioni, è niente, è un suono, un rumore, è nulla. Non posso neanche dire che Cesare c’è, perché anche questa è una determinazione. Abbiamo detto che togliamo tutte le determinazioni, cioè lo rendiamo irrelato. A questo punto ciò che a noi interessa è il fatto che Cesare non è le sue determinazioni, sono due cose distinte. Se sono due cose distinte, come appare che siano, sennò non ci sarebbe bisogno di determinazioni. È quello che cercava Platone, cioè trovare l’ente che risponde di sé senza determinazioni, senza mai trovarlo ovviamente, perché qualunque cosa io pensi o dica è già una determinazione. Dunque, la determinazione, come abbiamo detto, non è Cesare. Che cos’è ciò che non è Cesare? È appunto ciò che Cesare non è. Dunque, per potere dire che cos’è Cesare devo dire ciò che Cesare non è, e cioè, le sue determinazioni. Una determinazione qualunque, per esempio, che è italiano, non è Cesare. Quindi, determino qualcosa attraverso qualcosa di indeterminato, perché le determinazioni che determinano, che definiscono Cesare, sono indeterminate, non hanno limiti, sono, come diceva Anassimandro, πειρον, indeterminate, infinite. A questo punto si potrebbe dire – ed è una cosa con la quale Platone si era già scontrato – io non saprò mai che cos’è Cesare, non saprò mai che cos’è l’ente. Saprò delle determinazioni, ma queste determinazioni non sono l’ente, il τί non è il λέγειν. Qui interviene la volontà di potenza. Perché se io non saprò mai che cos’è Cesare, ma voglio invece che sia, allora devo compiere una sorta di artificio, di menzogna, di inganno, e cioè immaginare che Cesare sia ciò che io voglio che sia. E questo è l’unico modo per poterlo finalmente determinare, cioè, Cesare è ciò che io penso che sia. Ecco perché Platone diceva che il sapere è un δοξάξειν, è un credere di sapere, che diventa sapere nel momento in cui lo trasformo prima in opinione e poi in ideologia. Vale a dire, mi occorre questa volontà di determinare l’ente per potere parlare di Cesare, sennò non ne posso parlare. E questo potremmo dire che non è facoltativo; se voglio parlare di Cesare devo determinarlo, ma determinandolo dico cose che Cesare non sono. Quindi, o parlo, e allora determino, dicendo ciascuna volta altro rispetto a ciò che voglio determinare, oppure taccio per sempre. Dunque, la volontà di potenza, cioè la volontà di dominare l’ente, si instaura proprio qui, nel momento in cui, dicevamo forse l’altra volta riprendendo gli eleati, si spalanca l’abisso, io rigetto l’abisso, rigetto l’impossibilità di determinare l’ente e dico di averlo determinato. Dico di averlo determinato: ecco il δοξάξειν, non so, credo, immagino di sapere. A questo punto sarebbe ancora più preciso “fingo di sapere”, ma devo farlo se voglio parlare, non posso non farlo. Dunque, ci troviamo a questo punto con la volontà di dominare l’ente, che risulta necessaria se vogliamo parlare, questa finzione appare necessaria, non possiamo evitarla. È lì che si sono fermati gli eleati; hanno visto questo abisso ma non hanno saputo gestirlo, usando un termine non proprio appropriato, cioè non hanno pensato che aggirare questo abisso fosse necessario per potere parlare. Non è necessario ignorarlo, ma questo è un altro discorso. Però, a questo punto la volontà di dominare l’ente diventa l’unico modo di parlare e l’unico motivo per cui si parla, non ce ne sono altri; l’alternativa è tacere per sempre. È difficile, si tratterebbe anche di fermare i pensieri, risulta complicatissimo. Di che cosa è fatta questa volontà di determinare l’ente? Da dove arriva? Su cosa si fonda? Qui c’è un’altra questione importante. Tutto ciò che gli umani hanno sempre fatto pensando è stato fatto immaginando l’esistenza di un fondamento che garantisse il proprio dire. Qual è il fondamento di tutto, di qualunque pensiero, decisione, teoria, tutto? La chiacchiera, non ce ne sono altri. Da lì veniamo, dalla chiacchiera, potremmo anche dire dall’analogia, dalla somiglianza, dall’apparire, dal come se. Questo è il fondamento di tutto, non c’è qualche altra cosa prima, e questo lo avevano visto benissimo tanto Platone quanto Aristotele: non c’è altro dopo di questo, oltre la chiacchiera non c’è più nulla. La chiacchiera dà il fondamento ed è fatta di quelle cose che i più credono. Diceva Aristotele che la verità è quello che i più pensano che sia, ecco che cos’è e da lì partiamo; sennò non partiamo da niente, non c’è nulla su cui appoggiare saldamente il piede per fare un passo. Quindi, partiamo dalla chiacchera, dalla retorica, dalle figure retoriche. Le figure retoriche non sono altro che dei modi per determinare ciò che i più credono, cioè per determinare delle verità. Verità naturalmente in questa accezione, e cioè come quello che i più credono essere vero. In base a che cosa? Alla chiacchiera, ovviamente, non c’è nient’altro che possa garantire alcunché. Lo abbiamo visto anche nella logica matematica, dove al fondo c’è l’analogia, vale a dire, la chiacchiera: sembra che sia così, sarà così! E, poi, come lo provo? Potrei dire che sembra sia così, ma voglio dimostrare che sia così. Sì, ma come? E ricomincia tutto il meccanismo, al fondo del quale trovo l’analogia, e cioè la chiacchiera, da cui non esco in nessun modo. Ciò che stiamo leggendo di Aristotele sono cose che vanno lette tenendo conto di questo, e cioè del fatto che lui rileva quali sono le credenze più diffuse, le opinioni più salde, più praticate, ciò che i più credono. Che cos’è creduto per lo più? Che procedono da cose – e qui sta una questione interessante – che non vengono più messe in discussione, non debbono più essere interrogate. Tutte le figure hanno questa caratteristica, espongono cose che non hanno più bisogno di essere interrogate, perché sono considerate vere. E non devono essere più interrogate, perché se io comincio a interrogarle è finita, non ne vengo più fuori in nessun modo; tutte le figure retoriche sono costruite così. Spesso qui intervengono i miti, a quel tempo erano ben presenti. Il μῦϑος è anche la parola, è il racconto, è anche la fantasia, tante cose; come spesso accade con le parole greche, a seconda di dove interviene cambia di significato. I miti sono una risposta a qualcosa di impossibile. Che cosa è impossibile? Sapere. Questo Platone, a malincuore, lo aveva inteso: non è possibile sapere. Vi ricordate della virtù: è insegnabile o non è insegnabile? Forse sì, forse no. Ma fintanto che non sappiamo che cos’è la virtù, non sappiamo di che cosa stiamo parlando, e come facciamo a sapere che cos’è la virtù, cioè, come facciamo a sapere che cos’è l’ente? Bella domanda, perché per sapere esattamente che cos’è l’ente, dovrebbe essere lui stesso a rispondere. Lui chiaramente non risponde, io rispondo per lui, ma, rispondendo per lui, lo determino e, determinandolo, ecco che si avvia tutto il processo infinito, metto immediatamente in atto l’πειρον, l’indefinito, l’indeterminato, ecc. Dunque, la volontà di potenza, è indispensabile per potere parlare, per potere determinare. Ogni volta che affermo qualcosa lo determino, lo fermo letteralmente. Ma, fermandolo, non sto propriamente dicendo che cos’è, sto dicendo soltanto ciò che io voglio che sia, e il ciò che io voglio che sia non necessariamente collima con il ciò che è, anzi, praticamente mai. Quindi, la volontà di dominare l’ente la ritroviamo scritta nei testi di retorica, come questo di Aristotele, il quale ci racconta quali sono i modi più diffusi, più comuni, cioè quelli più credibili, perché poi lo scopo della retorica è di rendere credibile un discorso in modo da ottenere un certo risultato: è questo l’obiettivo. L’avvocato che deve difendere l’assassino deve dimostrare che lui non voleva fare del male, anzi, voleva del bene a questa persona, quelle venti pugnalate sono state un incidente, è caduta venti volte sul coltello. Dicevo rendere credibile. Come si rende credibile qualche cosa se non mettendo ciò che voglio dire nella stessa posizione in cui si trova ciò che la persona già sa, “sa” nell’accezione del δοξάξειν, non dell’έπιστήμη; l’έπιστήμη è una fantasia. Dunque, mettendo una certa cosa nella stessa posizione di ciò che la persona crede di sapere, vuole sapere o pretende che sia così. È così che si persuade: confermando nell’interlocutore il suo potere, perché ciò che lui crede di sapere è ciò che gli conferisce potere sulle cose, sul mondo. Io lo confermo, dico “Sì, è vero, tu hai potere!”. Se io non lo confermassi, anzi, se confutassi la sua credenza, la sua superstizione, ne farei un nemico e non approverebbe mai le cose che io vado dicendo. Può accadere, certo, ma devo fare un giro lunghissimo di persuasione, e comunque, in questo giro lunghissimo dovrei rimettere in atto gli stessi meccanismi, perché se non attribuisco all’altro potere, lui non mi seguirà mai, cioè, se non gli fornisco l’unica cosa che per lui è importante, l’unica cosa che vuole: dominare l’ente, dominare il mondo, dominare qualcuno, a seconda dei casi. L’ente può essere qualunque cosa, anche un pensiero, dominare il pensiero; è sempre una modalità della volontà di potenza. Ecco, quindi, come leggeremo la Retorica da questo momento in poi, tenendo conto del modo in cui il discorso trova la via per dire all’altro “guarda che hai potere sulle cose”, cioè che “le cose stanno come tu pensi che stiano”. Ecco perché Aristotele parla delle massime, che sono importanti, sono affermazioni universali, ritenute vere da tutti, proprio perché universali. Poi ci sono gli entimemi, che sono le deduzioni, le argomentazioni, ma queste argomentazioni, queste deduzioni, come ci ha già detto Mendelson, non ci sono senza induzioni, e l’induzione non è altro che un esempio, che procede da un’analogia. Quindi, gli entimemi e gli esempi non è che siano due cose così diverse: l’uno necessita dell’altro, perché anche per fare un esempio io utilizzo un procedimento logico deduttivo per giungere a un’induzione; sono continuamente all’opera entrambi. 1389a. I giovani per quel che riguarda il carattere, sono inclini ai desideri, e portati a fare ciò che desiderano. Questa sembra quasi una massima, cioè un’affermazione universale, che nessuno metterebbe in discussione: i giovani, si sa, sono così. Ci sono anche proverbi che dicono più o meno questo, ci sono proverbi per qualunque cosa. I proverbi sono massime, che escludono la possibilità di essere interrogati, di essere messi in discussione, calano come dei macigni: è così! Tra i desideri fisici sono inclini a seguire soprattutto quello sessuale, e in questo sono incapaci di controllarsi. Sono incostanti e volubili nei loro desideri, il loro desiderio è intenso ma viene meno rapidamente, in quanto la loro volontà è acuta più che forte, come la fame e la sete dei malati. Sono passionali, impulsivi e pronti ad abbandonarsi alla collera; inoltre, sono succubi della loro impulsività. Sono tutte affermazioni universali, dove non c’è nessuna messa in discussione di quello che sta affermando: sì, può darsi che alcuni giovani siano così, ma tutti? La massima dice “sì, tutti”, perché è posta universalmente. Ponendo un’affermazione universale, come dicevo prima, si esclude quasi automaticamente, la possibilità che venga messa in discussione, quindi, è accolta immediatamente. È come dire “tutti credono questo, è la cosa più ovvia, più normale, quindi, e anche tu sei una persona normale, ragionevole e, quindi, non puoi che pensare così”. Il che sottolinea ancora che ciò che tu pensi è vero, tu sai come stanno le cose, ti do fiducia, ti do credito, ti do potere. Poi, prosegue con altre amenità. Naturalmente, poi oppone i giovani ai vecchi, che invece sono più accorti. Sono tutti luoghi comuni, nel senso letterale del termine, cioè ciò che le persone pensano per lo più. Sono questi, dice Aristotele, gli argomenti che occorre utilizzare per rendersi favorevole il pubblico o il giudice o quello che è. Dirgli quello che lui vuole sentire, e cosa vuole sentire? Vuole sentire che lui sa come stano le cose: è questo che vuole sentirsi dire. Non vuole sentirsi dire che non ha capito niente, che nulla è come pensa lui. Poi, parla dei vecchi, che hanno vissuto molti anni, che sono stati tante volte ingannati, che hanno più volte sbagliato, e poiché la maggior parte delle cose umane sono spregevoli, non affermano nulla con fermezza in ogni circostanza si meravigliano meno di quanto sarebbe necessario; inoltre, credono sempre ma non sanno nulla. Credono sempre, credono di sapere, hanno fatto del δοξάξειν il loro credo ufficiale. Perché? Perché hanno accumulato esperienza e immaginano che le cose si ripetano sempre allo stesso modo: per induzione, se è sempre stato così, lo sarà anche questa volta. I vecchi hanno questa prerogativa: tendono a universalizzare ciò che hanno vissuto. Lo fanno tutti, ma i vecchi di più, perché hanno immagazzinato più ricordi, più memoria, ecc. 1389b. Sono inoltre cinici, in quanto il cinismo consiste nell’interpretare tutto in senso deteriore. Sono sospettosi a causa della loro diffidenza, e sono diffidenti per esperienza. Hanno fatto dell’esperienza un universale. Per lo stesso motivo non amano e non odiano intensamente, ma, secondo il precetto di Biante, amano come se in seguito dovessero odiare e odiano come se in seguito dovessero amare. Sono meschini perché sono stati umiliati dalla vita: non desiderano nulla di grande o di straordinario, ma solo quello che basta per vivere. Non sono generosi… Sono vili e inclini ad avere timore… Sono attaccati alla vita… ecc.

Intervento: Non è cambiato nulla…

Gli umani sempre quelli sono, anche se vanno in giro con strumenti tecnologici. 1390b. i giovani, infatti, sono coraggiosi ma incapaci di controllo, i vecchi assennati ma vili. Per parlare in termini generali, gli uomini maturi possiedono unite le qualità positive che la giovinezza e la vecchiaia si spartiscono, e hanno in misura equilibrata tutto quello che negli altri è in eccesso o in difetto. Il corpo giunge al pieno del suo vigore tra i trenta e i trentacinque anni, l’anima intorno ai quarantanove anni. E questo basti a proposito della giovinezza, della vecchiaia, della maturità e del carattere proprio di ognuna. 1391a. …il potere presenta alcune caratteristiche che sono identiche a quelle della ricchezza, altre che sono migliori. I potenti sono più ambiziosi e di carattere più virile de ricchi, poiché aspirano ad azioni che hanno possibilità di compiere in virtù della loro potenza. Però, della potenza del potere, di fatto, non ci dice nulla. Anche lui dà per acquisito che ciascuno sappia che cos’è il potere, dà per acquisto che ciascuno lo cerchi, dà per acquisito che sia la cosa migliore da ottenere, ma non sappiamo perché. 1392a. Parliamo innanzitutto del possibile e dell’impossibile. Se di due contrari è possibile che uno esista o sia esistito, anche il suo opposto sembrerà possibile. Ad esempio, se è possibile che un uomo diventi sano, è possibile anche che si ammali, poiché la potenzialità dei contrari è la stessa, nella misura in cui sono contrari. /…/ Se di qualcosa è possibile la fine, è possibile anche l’inizio… Lui aveva riflettuto bene sulla questione del possibile, dell’impossibile e del necessario, ecc., negli Analitici Primi e Secondi. Dice che Se di qualcosa è possibile la fine, è possibile anche l’inizio, è possibile, non necessario. 1393a. …dal momento che in ciascun tipo di discorso, il fine stabilito è un bene – l’utile, ad esempio, il bello, il giusto – è evidente che tutti dovranno prendere da questi le opportunità delle amplificazioni. Se qualcuno ha qualche virtù e dobbiamo difenderlo, è chiaro che amplificheremo queste sue virtù, cercando di sminuire al massimo i difetti. Indagare in generale sarebbe parlare a vuoto, poiché per l’uso pratico i particolari sono più importanti degli universali. /…/ Le argomentazioni comuni sono di due generi, l’esempio e l’entimema. La massima, infatti, è parte dell’entimema. Parliamo in primo luogo dell’esempio, poiché l’esempio è simile all’induzione, e l’induzione è un principio. Lo pone come principio, principio nel senso che avvia qualche cosa, non che sia un principio primo. Due sono le specie di esempi. Una specie di esempio consiste nel parlare di fatti avvenuti in precedenza, un’altra nell’inventarli noi stessi. Quest’ultima comprende da un lato la similitudine, dall’altro le favole, quelle esopiche, ad esempio, o quelle libiche. Sta dicendo che, in fondo, per persuadere è bene raccontare favole, cioè raccontare cose che confermino i pregiudizi che la persona ha, pregiudizi che gli vengono naturalmente da quella che chiamiamo chiacchiera, da ciò che ha sentito dire, da ciò che i più affermano, ecc. 1393b. …se si dicesse che i governanti non devono essere designati per mezzo del sorteggio, poiché equivarrebbe a scegliere come atleti non gli uomini capaci di gareggiare, ma quelli designati da un sorteggio, o a scegliere tra i marinai chi deve fare il pilota, come se dovesse farlo chi è designato dalla sorte e non chi è capace. Contro la democrazia, ovviamente. 1394a. Le favole si adattano bene ai discorsi deliberativi e hanno il pregio che, mentre è difficile trovare avvenimenti simili realmente verificatesi, è facile inventare favole: esse devono essere fatte come le comparazioni, sempre che uno sia capace di cogliere l’analogia, e questo è facile grazie agli studi filosofici. È più facile procurarsi argomenti per mezzo delle favole, ma per l’oratoria deliberativa risultano più utili quelli tratti dagli avvenimenti reali, poiché gli eventi futuri per lo più sono simili a quelli del passato. Si devono utilizzare come dimostrazione gli esempi se non si dispone di entimemi (è da questi infatti che si forma l’argomentazione); … Quindi, se non si dispone di un’argomentazione, si ricorre agli esempi. …se al contrario si dispone degli entimemi, gli esempi devono essere utilizzati come testimonianze, come conclusioni degli entimemi, poiché, se vengono posti all’inizio, si crea un’apparenza di induzione, e l’induzione non si addice ai discorsi retorici, a parte pochi casi; posti invece in conclusione sembrano testimonianze,… Alla fine del discorso può dire “tant’è che questo tizio un tempo ha fatto una cosa bellissima” e fa l’esempio, ma lo fa dopo l’argomentazione; non parte dall’esempio per poi fare tutte le sue argomentazioni, non riesce bene la cosa. /…/ La massima è un’affermazione che non riguarda il particolare – ad esempio, che genere di uomo sia Ificrate – ma è di carattere universale, e che non concerne tutti gli universali – ad esempio che il diritto è il contrario dello storto – ma solo ciò che è in rapporto con le azioni e che può essere scelto o evitato in funzione di esse. Di conseguenza, poiché l’entimema è come un sillogismo su argomenti del genere, le conclusioni e le premesse degli entimemi, una volta eliminato il sillogismo, sono all’incirca delle massime. Questo è l’obiettivo da raggiungere, il fatto che un’argomentazione concluda con qualche cosa che sia simile alla massima, cioè a un universale; perché abbiamo detto che l’universale ha questa prerogativa, di essere pensato come un qualche cosa che è valido per tutti, sempre: questo è l’universale. Ad esempio: Qualunque uomo che sia saggio per natura / non deve mai fare istruire figli eccessivamente sapienti. Questa è una massima. Ma se vi si aggiungono la causa e la ragione, il tutto forma un entimema. Ad esempio: Perché a parte l’accusa di oziosità / si procurano l’invidia maligna dei concittadini. Per il troppo sapere, ecco che segue quello precedente. Inoltre: Non esiste uomo che sia del tutto felice. Inoltre, anche il verso: Non esiste uomo che sia libero, è una massima, ma preso con quel che segue forma un entimema: perché è schiavo o delle ricchezze, o della fortuna. Cioè, si dimostra il perché l’uomo non è libero. L’entimema serve a questo, a dire il perché di qualche cosa. Però, capite che se io dico che non esiste uomo che sia libero, è una massima, un universale, che tutti quanti grosso modo sono disposti ad accogliere. Se, invece, inserisco degli entimemi, e cioè perché è schiavo o delle ricchezze o della fortuna, allora qualcuno potrebbe obiettare perché io gli fornisco il destro; potrebbe dire che è schiavo della ricchezza, allora è colpa sua, per cui si merita di essere infelice. Se ci si limita – questo lo diceva anche Perelman – a dire meno cose possibili, si fornisce all’avversario meno possibilità di appigliarsi al mio dire; quindi, affermare il più possibile massime universali. Come diceva da qualche parte Aristotele, parlare a un giudice è come parlare a un bambino un po’ stupido; bisogna dirgli delle cose che lui riesce a capire e che non lo interrogano, che non gli fanno compiere quella cosa che Hegel chiamava la “fatica del concetto”; questo in retorica è da bandire assolutamente. Per mantenere il potere sull’interlocutore, potere che si mantiene illudendolo di avere lui stesso del potere, occorre evitare la possibilità che lui possa agganciarsi a qualcosa che noi diciamo e che può essere messa in discussione. Le massime sono fatte per non essere mai messe in discussione, sono frasi calate dal cielo, come se un dio le avesse dette e, quindi, nessuno osa obiettare alcunché, perché sono cose che si immagina che tutti credano: quelle che Aristotele chiamava verità. 1394b. Un mortale deve avere pensieri mortali, non immortali. Come dire: stai al tuo posto! Sei mortale, quindi, è inutile che ti fai delle idee, andare chissà dove con i pensieri. Ricordati che sei mortale e non un dio. 1395a. Pronunciare massime si adatta agli uomini di età più avanzata, ed è adatto a soggetti dei quali si ha esperienza: di conseguenza, parlare per massime senza avere un’età di questo genere è sconveniente, come anche raccontare favole, mentre parlare di ciò di cui si è inesperti è indice di stoltezza e ignoranza. Come se un tredicenne tirasse fuori delle massime di vita: nessuno naturalmente gli crederebbe, perché non ha l’età, non ha l’esperienza, non ha vissuto, non ha niente. Un segno certo di questo fatto: soprattutto i villici sono conoscitori di massime, e si fanno riconoscere facilmente per tali. Dice che le persone poco colte, i villici, amano le massime perché, come dicevo prima, evitano la “fatica del concetto”; quindi, poche massime chiare, che non devono essere messe in discussione. Chiaramente allora c’era soltanto il discorso; certo, c’era il teatro, ecc., ma non esisteva la televisione, che oggi rende questo molto più facile, perché si mostrano delle immagini che immediatamente funzionano come massime, cioè come universali, e quindi vengono immediatamente accolte. /…/ È necessario servirsi anche di massime abusate e comuni quando si rivelino utili, perché per il fatto di essere comuni sembrano essere veritiere, in quanto tutti sono d’accordo. Ecco fatta la verità. /…/ Inoltre, alcuni proverbi sono anche massime, ad esempio “un vicino attico” (un vicino inquieto e sempre attivo, un rompiscatole). Si devono utilizzare le massime anche contro l’opinione corrente (per “opinione corrente” intendo qualcosa come “Conosci te stesso” e “Nulla di troppo”), sia quando il carattere dell’oratore debba apparire migliore, sia quando la massima sia espressa con emozione. Un esempio di massima espressa con emozione potrebbe essere quella di una persona adirata che affermi che è falso il fatto che un uomo debba conoscere se stesso: “Un uomo come questo, se avesse conosciuto se stesso, non si sarebbe mai ritenuto degno di un comando”. Questo per contrastare il luogo comune, una massima che contrasta l’opinione corrente. Che però rimane, perché questo è soltanto un caso particolare; dice “un uomo come questo”, quindi, indica un caso particolare, qualcosa di determinato. Dopotutto, non mette in discussione la massima, la quale dice che per lo più è così; poi, c’è il caso che, di fatto, ne incrina la credibilità. Sono tutte istruzioni per costruire massime, cioè argomenti credibili. E perché funziona questo? Lo abbiamo detto prima: perché io confermo le cose che la persona già sa, quindi, confermo che lui sa come stanno le cose.