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25-2-2015

 

POTERE E LIBERTÀ 4

 

Beatrice: ho incominciato a scrivere ascoltando tutte le questioni che intervengono qui a proposito del “potere” e della “libertà”. Testo: L’ultimo incontro si è chiuso su una domanda fondamentale a proposito della scienza, del metodo della scienza, ma non solo della scienza, potremmo dire del discorso occidentale in cui ci troviamo, del sistema che produce i nostri pensieri, le nostre conclusioni, i nostri discorsi, le nostre storie, i racconti delle nostre storie con tutte le certezze, le attese, le paure, i desideri eccetera, riprendo alcuni passaggi dell’intervento del 18-2-2015 che troverete sul nostro sito su internet…

Claudia: Per parlare di scienza dobbiamo parlare di metodo scientifico, è solo un modo di procedere … e quindi affrontare un problema, l’importante è questo…

Questo metodo di cui parla in effetti muove da affermazioni che sono necessariamente degli universali, e da lì parte e presuppone un corpo, lo pre-suppone, dopo di che incomincia a fare tutte le sue operazioni.

Claudia: Però se non partiamo da un presupposto non abbiamo pensiero…

Lei muove ovviamente da un qualche cosa, però la differenza tra il pensiero scientifico e ciò che mi sto trovando a dire qui con voi, è che la scienza non si stacca dall’idea che l’oggetto in quanto tale esista. Questa è la presupposizione di cui dicevo. Tecnicamente non è un problema per la scienza, lo diventa nel momento in cui parte dall’idea che l’oggetto in quanto tale sia, e che quindi se l’oggetto è, allora deve sottostare a delle leggi, deve essere osservabile, deve essere manipolabile eccetera, per questo dicevo che la scienza è necessariamente metafisica cioè non può non partire dall’idea che l’“oggetto” esiste, l’oggetto c’è, che sarebbe l’ontologia propriamente, vedere che cosa c’è, se c’è allora lo possiamo trattare. Lei diceva bene, si parte sempre da qualche cosa, però un conto è ritenere che questo qualche cosa, come fa la metafisica, sia un quid, sia una cosa che c’è, senza sapere che cosa sia, ma c’è, altro è sapere quello che si sta facendo in quel momento e cioè affermare che c’è questa cosa al solo scopo di proseguire a parlare, ma sapendo che questa affermazione non afferma nessuna esistenza, nessuna ontologia, semplicemente, afferma, ferma, cioè mette lì una certa affermazione per costruirne altre, come se non ci fosse altro da fare se non affermare una cosa per costruirne altre.

Claudia: Ma il linguaggio non funziona in un modo diverso…

No, certo, infatti sto descrivendo il funzionamento del linguaggio. Funziona così certo, l’inganno è stato quello di immaginare che questo presupposto da cui si parte sia qualche cosa, cioè abbia un suo statuto ontologico che non ha, non l’ha mai avuto e non potrà mai averlo, per un motivo: quando io considero un oggetto, un aggeggio qualunque, lo pongo come qualche cosa che è fuori dal linguaggio, che non è linguaggio ma è un’altra cosa, un oggetto che ontologicamente è quello che è, a questo punto l’interrogazione è rivolta verso l’oggetto il quale deve rispondere di sé. Chiaramente sono sempre io che gli faccio le domande e sono sempre io che rispondo, e arrivato a un certo punto mi trovo di fronte a una richiesta che può sembrare folle, ma è quella che fa la scienza agli oggetti cioè chiede all’oggetto di rispondere e dire che cosa realmente è, perché se no è sempre viziato, mediato dal linguaggio…

Claudia: ma non abbiamo nessun altro modo di farlo…

In effetti è così, anche se si è pensato per millenni che non fosse così, cioè si è sempre pensato che l’oggetto emanasse da sé qualche cosa che consentisse a noi la sua conoscenza, oggi si è più consapevoli del fatto che non posso che parlare per definire questo oggetto, la questione, a questo punto è: l’oggetto c’è senza il linguaggio? Risposta: sì/no.

Mercoledì scorso ci siamo lasciati su questa questione e cioè se è possibile che l’oggetto, di qualsiasi oggetto si tratti, sia fuori della parola, o ancora di più se l’esistenza stessa esista fuori dalla parola, ed esistendo faccia esistere le cose come la magia in certi casi impone. E questa questione, quella dell’esistenza delle cose indipendente da una struttura, da un sistema linguistico, ha qualche cosa a che fare con la questione del potere e della libertà? Perché questo è il tema. E su questo verte l’interrogazione cioè verte sulle implicazioni di una questione di questo genere. È una domanda che può sorgere solo in certi ambiti, in certi contesti, ma occorre dire che senza parola, senza il linguaggio la psicanalisi, come qualsiasi altra cosa, non esisterebbe, non sarebbe mai esistita, non sarebbe mai stata inventata. Nessuno ha mai informato gli umani che sono parlanti, o meglio, gli umani sanno di parlare ma credono che le loro parole possano nel migliore dei casi solo descrivere le cose, per esempio ciò che vedono, ciò che sentono, ciò che provano e con queste cose costruiscono le loro teorie eccetera. Se gli umani non parlassero non esisterebbero, perché le cose, se non fossero in prima istanza termini, concetti, che si dispongono in una grammatica e in una sintassi, non avrebbero un senso, un significato, non ci sarebbe significazione, non ci sarebbe un segno che rinvia a altro segno, non ci sarebbe qualcuno per cui qualche cosa significhi qualcosa. Non ci sarebbe il potere. Abbiamo definito il potere nell’accezione più ampia possibile come “l’esercizio della propria volontà su qualcosa o qualcuno”, ora considerando che gli umani possono dirsi umani, sanno di essere umani perché sono parlanti, definisco il potere come “l’esercizio della volontà di un discorso su un altro discorso” “l’imposizione delle proprie affermazioni, sulle affermazioni di altri discorsi”. Per esempio una persona con il dubbio perenne, ogni volta che chiude la porta di casa, deve riaprire e controllare perché non ricorda se ha chiuso il gas. È chiuso ovviamente, ma non può liberarsi di questo che Freud chiamava cerimoniale, questi punti fermi, “veri” del suo discorso, del suo pensiero, perché? Come se ci fossero due affermazioni all’interno di quel pensiero, una che dice “ho chiuso il gas” e l’altra più importante che afferma “è un condominio di dodici piani se salta … eccetera …” È ovvio che allora l’azione è quella di ritornare. Sono stringhe di elementi linguistici che funzionano, come se fossero due discorsi di due persone differenti e continuerà a “vincere” tra virgolette, cioè continuerà a costruirsi quell’affermazione il cui tornaconto, il cui motivo non è interrogato, cioè non è svolto dal discorso, immesso nella parola. Questi pensieri funzionano automaticamente. Questo per dire che anche all’interno del singolo discorso è come se funzionasse l’esercizio di potere, come se ci fosse un Io che impone e un Io che subisce. Le persone non ascoltano le cose che dicono, le cose che affermano, perché hanno bisogno sempre di un consenso, perché non possono giudicare da soli se vanno nella direzione giusta, questo sarà il prosieguo del mio lavoro …

Bene, a quest’ultima domanda in effetti si può aggiungere un’altra domanda: lei si chiedeva “perché le persone non ascoltano?” Si Potrebbe domandare “perché dovrebbero farlo?”, porre una domanda del genere non è così scontato, in effetti chiedersi perché dovrebbero fare una cosa del genere significa che non si sta offrendo nessuna salvezza, nessuna via regia che dovrebbe mostrare la via del paradiso, del benessere eccetera, tutto questo rimane ancora molto problematico in effetti “perché dovrebbero farlo?”. Non c’è propriamente una risposta a questa domanda se consideriamo che quello che stanno facendo è esattamente quello che vogliono fare, poi possono dire di non volere fare ciò che stanno facendo, ma lo stanno facendo, e siccome nessuno li costringe saremmo indotti a pensare che quello che fanno lo fanno perché lo vogliono fare. Il problema sta eventualmente nel non poter ammettere una cosa del genere, e non si ammette perché come diceva giustamente va in conflitto con altri pensieri.

Alessandra: l’altra volta parlavo dei “vincoli” e mi è venuto in mente “etica e morale” … Dicevo “vincoli per la persona” è una questione intorno alla quale giravo da un po’ di tempo e non riesco a trovare il modo di entrarci ma mi attira e nello stesso tempo mi fa paura, ho una resistenza che è portata in parte dall’argomento e in parte da questa mia caratteristica di avere un’idea molto ampia … Due volte fa quando ero presente mi era piaciuta molto l’indicazione di stringere il campo cioè questa metodologia ma adesso mi trovo spiazzata per via di questa metodologia … questa sera vorrei sapere come si muove il lavoro…

Ma qual è il problema connesso con questo?

Alessandra: la questione del desiderio…

Forse non è tanto il desiderio in quanto tale ma ciò che lei pensa del desiderio.

Alessandra: adesso sentendo le cose lette mi ha dato una traiettoria, una chiarificazione per me su come procedere …. Io sono partita con le idee molto confuse…

È curioso che un argomento faccia resistenza perché in genere un argomento fa resistenza per la sua complessità, per la sua difficoltà teorica, però non è questo ciò cui lei alludeva mi sembra di avere capito, c’è qualche altra cosa insieme con questa…

Alessandra: forse intuire nelle cose per mequando leggo delle cose io mi ritrovo in certe questioni in una tensione che poi diventa un ostacolo mio … Forse mi trovo in un momento di ritualizzazione della mia esistenza, con dei nodi che molto probabilmente non avevo sciolto e quindi mi trovo invischiata…

Dicevo di precisare delle questioni, cercando di determinarle il più possibile perché soltanto determinandole il più possibile ci si accorge quanto queste questioni si aprano proprio cercando di determinarle: al culmine della precisione si trova un’apertura sterminata.

Ferruccio: Pirandello aveva l’angoscia sulla comunicazione con gli altri cioè aveva sviluppato questa impossibilità di essere inteso da parte di ciascuno … nel significato di ciascuna parola qui abbiamo siamo un po’ partiti dal nominalismo…

Come conta di utilizzare Pirandello per il suo lavoro ?

Ferruccio: il suo problema “Uno, nessuno, centomila” … l’impossibilità di essere identificato quello gli derivava proprio da una mancanza di identità assunta dal padre ecco qui … Io condivido la tesi di fondo perché è psicologica e filosofica l’oggetto noi non lo possiamo conoscere però forse è vissuta in maniera un po’ angosciante proprio per i suoi problemi angoscianti, a me ha fatto venire in mente questa cosa… poi c’è il problema del narcisismo che comunica con un certo realismo sui significati primari, qui c’è libertà e potere, non tiene conto del poterecon un’ingenuità di fondo chi si muove in modo narcisistico non tiene conto del potere. Mettiamo anche l’arte, non tiene conto del potere…

Come dicevo occorrerebbe precisare un obiettivo e soprattutto un percorso di ricerca.

Claudia: se vi ricordate io volevo affrontare la questione del potere dal punto di vista di chi rinuncia, come mai ad un certo punto qualcuno decide di asservirsi volontariamente a un altro? In particolare ho pensato tutta una serie di cose i motivi per cui si fa questo … Quello che aveva colpito me è l’idea che possa nascere questo tipo di asservimento da riconoscimento della propria mancanza, nel senso “io so di mancare nella cosa x, la persona con cui mi relaziono mi mostra questa mia mancanza e la utilizza a suo favore creando un senso di colpa, cioè mi crea un senso di colpa per la mancanza che io ho, che cosa succede? Che l’altra persona che conosce anche lui la mia mancanza mi mostra che lui questa mancanza non ce l’ha per cui io mi sento manchevole di questa cosa che vedo nell’altro e mi asservo di conseguenza e avevo fatto un ragionamento che partiva dal sistema educativo io credo che ci sia qualche cosa di questo ordine qui … educativo uguale a religioso su questo tipo di senso di colpa … siccome sono un po’ all’inizio di questo ambito avrei voluto leggere qualche cosa di Freud. Io pensavo di leggere quel libro lì soprattutto sulla parte della chiesa…

Ha già qualche idea sul motivo per cui una persona accetta di sottomettersi “volontariamente” a un’altra persona?

Claudia: la mia idea è proprio questa che si giochi la gran parte dei rapporti di potere sulla colpa…

Lo diceva lo stesso Freud che non si governa senza sensi di colpa, non c’è modo di far fare alle persone quello che si vuole che facciano, quindi è perfettamente funzionale a qualunque esercizio di potere ovviamente. Però c’è questo altro aspetto: cioè lei si sente in colpa perché qualcuno le dice che non sa fare qualche cosa, ma deve essere qualche cosa che lei immagina che ci si aspetti che lei sappia fare…

Claudia: è molta parte dell’immaginario che uno ha di sé, che poi viene acquisito come personale in effetti, questo è molto vincolante sia in termini di apprendimento, di consapevolezza di quello che capita eccetera è un limite molto forte l’aspettativa di qualche cosa rispetto alla situazione presente si impedisce tutta una parte di apprendimento che sarebbe fisiologico nel momento in cui uno accetta di poter imparare … lo vivo molto nell’ambiente di lavoro c’è una grossa aspettativa sul medico, sull’immaginario medico eccetera e vedo ogni tanto capitare delle cose in questo senso, ci si dà per assunto che qualcuno sappia fare qualcosa, io sono in un ambiente universitario e quindi ho delle persone più preparate di me, sopra di me delle persone più giovani sotto di me e adesso che sono a metà strada quando ero più piccolina non lo vedevo, adesso che sono a metà strada vedo quella difficoltà lì cioè vedo dei giovani più giovani tutto un insieme di cose che potrebbero chiedere su cui potrebbero migliorarsi che non chiedono proprio perché si immaginano di dover sapere, la conseguenza che poi alla fine sono sempre allo stesso punto … Ha un effetto molto negativo sul singolo questa cosa /…/ io lo portavo più sulla fase di apprendimento proprio perché fin da quando “siamo piccolini” durante il corso ci si aspetta che sappiamo molto, è un’immagine molto evidente gli studenti di medicina in giro per gli ospedali si riconoscono dagli altri perché si muovono in un modo diverso, hanno un certo grado di inibizione e allo stesso tempo di arroganza è una cosa che si vede, questo ovviamente chi è arrivato e che ha un posto di lavoro di un determinato tipo si dà per assunto che lo sappia fare io non mi permetto di discutere su questo ma in ambito di formazione proprio l’immagine proiettata di quello che si diventerà cioè nel merito dà per assunto che si sappiano o si padroneggi tutta una serie di cose per cui questo peso è così grande che non si parla, quindi ha un effetto molto negativo…

Quindi una persona immagina che gli altri si aspettino da lui che sappia qualche cosa, e se suppone di non sapere questa cosa che altri si aspettano che lui sappia si sente in colpa, però qui forse occorre fare delle precisazioni. Lei sottolinea un aspetto specifico, e cioè qualche cosa che ha più a che fare con una fantasia, su un’idea di “sapere” e soprattutto con il senso di colpa che interviene nella persona quando immagina di non sapere ciò che ci si aspetta che invece sappia, però è la persona che immagina che l’altro si aspetti questo, l’altro non gli chiede niente, sta qui la differenza, cioè è un qualche cosa che è la persona stessa che si produce da sé, la domanda è, a questo punto, a che scopo si crea una cosa del genere, una fantasia del genere? Se lo fa c’è un motivo, e a noi interesserebbe sapere quale, perché una persona “subisce”, diciamola così, provvisoriamente dei sensi di colpa? Qual è la condizione perché si costruisca un senso di colpa? Claudia: non so se venga personalmente dalla persona singola, il punto saliente secondo me è quello che ci si aspetta determinato da un certo tipo di ruolo una definizione del proprio discorso in relazione a questo, in relazione che da sempre o da un determinato momento io per quello ritengo che ci sia un ruolo da qualche parte nell’educazione … Qualche cosa che viene passato … da un tipo di educazione, non da tutti) (questa cosa di cui raccontava rispetto ai ragazzi funziona così per tutti? Perché basta che ci sia solo un ragazzo per cui non funziona questa cosa, indica che non essendo per tutti il discorso che riguarda l’educazione possiamo metterla in forse) (io ritengo dal tipo di educazione nel senso un educazione che sia molto … e che non insegni una certa direzione, che non stimoli quella direzione lì ma a trovare la propria strada…

QQuando una madre deve educare qualcuno, un figlio in questo caso, utilizza un metodo, il metodo “premio/punizione” non ce ne sono altri, “se soddisfo la richiesta sono premiato, se non la soddisfo sono punito”, questo modello permane perché lo ritrova poi in tutti gli stadi della sua esistenza, perché tutta la civiltà è strutturata in questo modo, quindi è ovvio che cercherà di soddisfare le richieste e si sentirà in colpa se non riesce a farlo perché quando lui manca di qualche cosa la mamma non gli dice che è colpa del destino, o dell’atmosfera inquinata ma è colpa sua che non è stato capace…

Claudia: credo che una certa quota di problematicità qui venga dal fatto che si associ all’essere “io ho fatto bene quindi sono bravo e quindi mi vuoi bene, mamma” … se questo passaggio qui il bambino non lo supera…

Non solo non può ma non deve superarlo, se lo superasse diventerebbe un sovversivo, non più gestibile, non ricattabile, e questa è una tragedia per qualunque istituzione, e quindi non deve superare questa fase, deve continuare a pensare che se soltanto se bravo allora sarà premiato dalla mamma e in seguito dalla società, riconosciuto con vari riconoscimenti, premi medaglie e aggeggi vari, quindi questa sorta di addestramento prosegue sempre, perché nessuno ha interesse a interromperlo, perché è l’unico modo, il ricatto, che si può utilizzare per educare qualcuno e intendo con “educare” il modo in cui lo si pone in atto praticamente da sempre, e cioè addestrare a eseguire ordini. È come una sorta di programmazione in un certo senso cioè si dice “questo sì/questo no”

Stefania: dipende da come intendiamo l’istanza educativa, nel senso che la differenza a cui accennava Sandro secondo me è quella che comunque c’è un singolare per cui ciascuno di noi introietta in modo e per gradi diversi non questa istanza che prima era fuori e poi è dentro di noi, non tutti ce l’hanno introiettata nello stesso modo…

Intervento: sono cose che la persona si dice, si dice quello che ha detto la mamma, si dice quello che dico io e non sempre distingue fra quello che dice lei e quello che dicono altri…

Sandro: succede come nella società se non ottieni abbastanza consenso…

Intervento: però c’è poi l’assoggettamento no? quasi dovuto

Quando la persona, la mamma o chi per lei, educa il figlio o ha in animo di fare una cosa del genere, ha in mente un’idea di bene e cioè che cosa è bene per lui, e questo “bene” è in effetti una cosa soggettiva, per cui si adopererà perché il bambino obbedisca, cioè faccia quello che lei vuole, perché quello è il suo bene, qualunque cosa sia…

Intervento: potrebbe anche essere un bene per sé stesso…

Lo è, è un bene per la persona che sta addestrando non per chi subisce l’addestramento, la persona che sta addestrando farà in modo che chi subisce l’addestramento, anche lui, consideri la stessa cosa un bene. Ora questo non è che riesca il più delle volte, però l’intendimento molto spesso è questo.

Delmastro: io sto leggendo Nietzsche, in realtà ci si può collegare nel senso che il senso di colpa è una questione che riguarda chiaramente tutti, secondo me Cristo sarebbe venuto a liberare dal peccato e questo peccato secondo me è molto sul versante del senso di colpa cioè come se fosse questo fardello che in qualche modo si porta dietro, collegarlo come una sorta di causa effetto rispetto all’educazione a mio avviso rischia di morire lì … Vediamo se si riesce ad aprire la questione, io nel merito del Super Io, di cui si diceva prima, il Super Io nella tripartizione freudiana era collegato al Io e al Es e quindi questi tre termini vanno insieme, quindi siamo in una dimensione che non è più di “causa/effetto” siamo in una tripartizione “Io, Super Io, Es” e ci spostiamo già da qualche cosa di troppo razionale, troppo “umano” come avrebbe detto Nietzsche, il Super Io è qualche cosa che può riguardare soprattutto un discorso chiamiamolo così di tipo “ossessivo” che è un po’ ossessionato da qualcosa, si sente sempre in colpa, sembra sempre non riuscire a soddisfare … lui stesso, se stesso, non sa con chi prendersela e se la prende con se stesso … il Super Io è correlato alla questione dell’Es, Es un termine coniato da Groddeck che l’aveva preso da Nietzsche ovvero per tentare di dire qualcosa “non sono io che penso” ma in qualche modo ad un certo punto “mi trovo pensato”, mi “trovo sognato” il collegamento con Super Io è una forma di difesa da questo “Es”, quindi è un po’ differente rispetto alla questione forse un po’ troppo facile dell’educatore, la “colpa” dell’educatore, la “colpa”… proprio perché riguarda proprio l’aspetto di difesa rispetto all’Es rispetto a questo qualcosa che è proprio irrazionale, non sono io che pensa, io posso essere pensato poi l’Es proseguendo è stato chiamato “inconscio” …. Come mai c’è bisogno di questa difesa costante? Cioè quando non c’è la possibilità di trovare l’educatore di turno, l’impositore di turno ad un certo punto ci si inventa qualche cosa su noi stessi pur di continuare a difendersi da questo Es … Freud nei primi tempi diceva “sono desideri inconsci da tenere nascosti” a me verrebbe da dire che è qualche cosa che innanzi tutto non cessa, se la difesa deve essere incessante è perché è questo Es è qualche cosa che è incessante e quindi ritorna questa questione del tempo che a mio avviso è sempre … La prima volta tentavo di collegare alla questione della potenza e proprio in questi termini meccanici, fisici vorrei giocarmela sulla questione del tempo che questa cosa dell’incessante all’umano spaventa molto, che il tempo non può aver fine, non ha mai un inizio e non può mai avere una fine … Ad un certo punto c’è qualcosa che non ci basta più c’è da andare oltre … Nietzsche diceva una frase molto bella “una volontà libera” visto che qua c’è anche questo termine della libertà … diceva voglio raggiungere questa condizione a una volontà che ha a che fare con la libertà, una volontà un po’ differente…

 Sì, giungerà a dire “una volontà che vuole se stessa”. Groddeck nel Libro dell’Es ne parla più o meno in questi termini, qualcosa da cui l’Io si dovrebbe difendere, anche Freud ne parla in questi termini, l’Io si dovrebbe difendere da queste pulsioni, da pulsioni sessuali per esempio, e Freud illustra la cosa dicendo che queste pulsioni vanno contro un educazione perché se no perché dovrebbe difendersi, a che scopo? E la questione è proprio questa: perché qualcuno dovrebbe difendersi da qualcosa? Perché lo considera come una minaccia e perché considera come una minaccia? È un po’ la questione dell’angoscia o del nulla, del famoso “horror vacui”, ma perché dovrebbe fare paura? Perché l’idea che qualche cosa è incontrollabile, ingestibile e sfuggente da ogni parte dovrebbe creare problemi anziché mettere allegria? È una domanda alla quale potrebbe non essere semplicissimo rispondere, a meno che qualcuno abbia imparato che quelle cose sono male, perché di fatto sapere che non c’è, ammesso che sia così, la possibilità di controllo su nulla, tutto questo potrebbe invece essere accolto, e probabilmente occorrerebbe che lo fosse, come un’opportunità e non come qualcosa che fa paura, se fa paura, direbbe Wittgenstein che l’ha imparato che quella cosa fa paura, perché se no non lo sa, come fa a saperlo? Se non può controllare che questa cosa è ingestibile eccetera e allora qual è il problema?

Claudia: io direi che c’entra l’esperienza se è una cosa che non possiamo conoscere di per sé è una questione immaginaria infinita, che non possiamo pensare cioè il vuoto spaventa perché non possiamo fare esperienza, perché non la conosciamo…

Ma io non posso fare esperienza di camminare nello spazio, ma non mi spaventa affatto la cosa anzi mi piacerebbe, sarebbe divertente…

Claudia: sarebbe “immaginare” di camminare nello spazio…

Qualunque cosa se la pensa la sta anche immaginando, oppure qualcuno le ha insegnato che c’è qualche cosa che fa paura e che lei non può immaginare? Perché non può, non se la crea da sola una cosa del genere, ci sono voluti migliaia di anni di lavoro per giungere a fare queste considerazioni, e cioè che esiste un qualche cosa che non è pensabile, che è una contraddizione in termini, ma il fatto che si sia costruito questo pensiero ha richiesto migliaia di anni di pensiero appunto, e adesso qualcuno può sostenere che esiste qualche cosa che non può essere pensato, naturalmente non può provare nulla di quello che dice ovviamente, però lo può dire perché no? Non è proibito, ma non significa niente.

Teresa: volevo riprendere quello che ha detto Delmastro di Nietzsche di come accedere a un pensiero libero …

Dipende da cosa intende lei con “pensiero libero”, non è detto che sia la stessa cosa che intendeva Nietzsche…

Teresa: è vero ma come faccio a sapere che sia giusto?

È una domanda legittima certo, è la questione detta qualche volta fa del condizionamento. Le questioni sono complesse, come accade qualunque pensiero può essere usato contro chi lo produce, i sofisti erano maestri di questo, cioè qualunque proposizione che affermi una certa cosa questa proposizione che afferma quella cosa può essere confutata cioè è possibile costruire un’altra proposizione che nega la prima con ottimi argomenti e motivazioni. Di per sé potrebbe sembrare una cosa inutile, ma è un buon esercizio. C’è una cosa che volevo dire questa sera perché mi è stato detto da Stefania che ho posto un accento forse eccessivo sulla “pars destruens” del pensiero senza proporre un “pars construens”. Ciò che dicevo la volta scorsa alludeva al fatto che in questi ultimi due secoli si è giunti a considerare, come è stato fatto per esempio nella famosa crisi dei fondamenti, che non c’è nessuna possibilità di stabilire la verità, non c’è nessuna possibilità di stabilire un fondamento, nessuna possibilità di stabilire un’etica, non c’è la possibilità di stabilire alcunché. Questa è stata la crisi dei fondamenti che poi ha portato a una serie di pensatori, a parte Nietzsche ma Heidegger e altri, Wittgenstein per esempio, però tutto questo dove ha condotto? Di fatto a nulla perché tutto ciò che è stato detto a questo proposito sia da Gödel, sia da Wittgenstein, da Heidegger e da altri non ha portato a un granché, nel senso che non ha modificato il modo di pensare delle persone in genere, non gliene importa niente a nessuno, però rimane che alcune certezze sono crollate e altre possono crollare. Dicevamo la volta scorsa con Claudia del fatto che qualunque pensiero, qualunque cosa affermi, questa cosa che affermo non può essere sostenuta oltre a un certo punto perché crolla, collassa tutto quanto. Il problema come diceva giustamente Ferruccio è molto antico, era già noto ai sofisti: quando voglio chiedermi la ragione di una certa cosa posso andare avanti all’infinito, e allora alcuni hanno posto dei limiti. Uno di questi fu Tommaso, una delle “cinque vie” diceva proprio questo, che non si può recedere all’infinito, a un certo punto bisogna fermarsi, il problema è dove ovviamente. È possibile mostrare l’impossibilità del pensiero di sostenere qualunque cosa o il suo contrario, quindi abbiamo mostrato la “pars destruens”, quella che distrugge tutto e non rimane più niente, a questo punto c’è la dispersione, la desolazione e la disperazione. Però se ci pensa bene non è affatto così, perché non è vero che il pensiero è in grado di distruggere tutto, è in grado di distruggere moltissime cose certo, grosso modo tutto quello che costruisce: se l’ha costruito può anche distruggerlo in effetti, ma c’è una cosa oltre la quale non può andare e sulla quale si ferma, una cosa che c’è comunque ed è quella cosa che è indispensabile al pensiero per potere costruire, decostruire e distruggere e modificare qualunque cosa. Questa cosa non può togliersi perché se io volessi togliere questa cosa non avrei più la possibilità di pensare alcunché, quindi non potrei pensare né di costruire né di distruggere né di provare né di confutare, tutto ciò non ci sarebbe più, quindi c’è qualche cosa che rimane e che non può togliersi in nessun modo, ed è questo che può attirare l’attenzione, dopo che si è distrutto tutto, ogni forma di pensiero, ogni costruzione è stata demolita perché ha mostrato di sé di non essere in condizioni di reggere a un’obiezione critica, però una cosa resta, quella che consente di muovere obiezioni, critiche eccetera e quindi la “pars construens” è quella che indica ciò che consente al pensiero di costruire, demolire, abbattere, edificare qualunque cosa, e questo non si può togliere, quindi rimane. È quella cosa che consente di pensare, cioè è il pensiero stesso, quando lei pensa che cosa fa? Muove da un elemento, compie dei passaggi che ritiene coerenti con la premessa e giunge a una conclusione, generalmente quando si pensa si fa così…

Claudia: si può pensare con immagini, si può

No, non può pensare con le immagini se queste immagini per lei non significano qualcosa, cioè non sono segno di qualche cosa, solo allora può utilizzarle all’interno del suo discorso, se no sono niente, e perché significhino qualcosa occorre la struttura di cui stiamo dicendo. L’opera di demolizione, cioè la pars destruens, è un esercizio notevole ed è molto proficuo perché mostra di fatto che tutto ciò che si afferma ha una validità che è straordinariamente relativa ad altre affermazioni, ad altre cose, ciò di cui si è occupata la semiotica, parlo di Greimas, di Hjelmslev e cioè che il significato di ciascuna cosa non è altro che l’intersezione di una sequenza di altri significati, senza i quali non c’è niente, quindi ciò su cui ci si ferma che è una sorta di muro invalicabile, lei può urtare contro il linguaggio e il linguaggio la ributta indietro, se vuole uscirne fuori la ributta indietro, non può uscirne…

Intervento: ma forse è legato al fatto che noi funzioniamo soltanto in quel modo lì…

Ne conosce altri?

Intervento: no, infatti io non posso dire che un oggetto lo vedo perché in realtà sono all’interno del sistema stesso che stiamo utilizzando che è quello del linguaggio e di conseguenza …

Può dirlo certo però sapendo quello che fa…

Intervento: lei ha chiuso l’altra volta dicendo “l’oggetto esiste o non esiste?”, quello che ho pensato io se, nel modo in cui siamo fatti cioè nell’unico modo in cui possiamo comunicare e pensare, io non posso semplicemente dire che quella cosa esiste e quindi esiste perché quella cosa non ha nessun senso, ma quella cosa esiste in un modo che non è il mio esistere a prescindere dal linguaggio

Come lo sa? Le faccio un esempio Claudia, lei prenda una parola, la parola “oggetto”, è stata costruita tutta una serie di pensieri intorno all’oggetto, utilizzando la derivazione di oggetto latina di “objectum” “gettato contro” e anche il tedesco usa “Gegenstand” “stare di fronte” ma significa qualcosa che sta lì, ora pensi invece al greco, oggetto si dice “χρμα”. La derivazione latina che cosa dice? Dice che l’oggetto è qualche cosa che è scagliato contro, è un atto di forza, qualcosa che si pone contro di me, per il greco no, “χρμα” è una ricchezza, qualcosa che può essere utilizzato per tante cose ma non c’è nulla né di violento né di contrapposto. Il greco antico pensava necessariamente l’oggetto in un altro modo, non era quella cosa che oggi noi pensiamo come oggetto ma un’altra cosa. Quindi vede che la differenza che interviene a seguito del modo in cui si intende un certo termine può fare la differenza, e di conseguenza tutto ciò che una persona si trova a pensare, a dire eccetera è costruito in base a una quantità sterminata di informazioni che ha acquisite, che ha elaborate in un certo modo e quel certo modo è dovuto ad altri elementi, e questi ad altri ancora e così via all’infinito. È praticamente impossibile ricostruire la genealogia di un pensiero, non so se magari fra un certo numero di anni i computer potranno fare una cosa del genere, non è impossibile tecnicamente, è improbabile perché le variabili sono un numero sterminato. Quando si pensa quante variabili intervengono? Quanto ci mette una persona a cambiare un’idea? Può metterci un attimo oppure non cambiarla per tutta la vita, che cosa interviene a fare cambiare un’idea o perché rimane lì immutabile fino alla fine dei tempi? Queste sono domande che occorre porsi, non tanto per trovare una risposta, perché di risposte può trovarne quante ne vuole, più o meno soddisfacenti, più o meno sostenibili, ma è interessante che invece ciascuna di queste cose permanga come domanda, cioè continui a domandare; perché vede quando lei trova una risposta, che cosa ha trovato in realtà? Ha trovato soltanto un’altra sequenza che a suo parere soddisfa più o meno quello che si aspettava, solo questo, ma di sicuro non ha chiuso il problema, cioè non ha tolto la ricchezza di ciò che stava dicendo, perché la risposta toglie la ricchezza perché chiude il discorso e bell’e fatto: è così, invece la ricchezza del dire del suo discorso è che ciascuna cosa può essere rinviata all’infinito producendo quantità inimmaginabili di altri racconti, di altre storie, di altri eventualità, e questa è la ricchezza che tento di mostrare, come se si dicesse alla persona “guarda che le cose che dici, che pensi, non sono tutte lì, c’è molto di più, c’è una ricchezza infinita alla quale puoi avere accesso”. Tuttavia se sono assolutamente certo che una certa parola abbia quel significato che io gli ho attribuito per motivi miei e non altri, non potrò mai andare oltre quel significato, sono vincolato a quello e da lì non mi muoverò più, mentre quel termine può avere e può mostrare infiniti altri significati e ciascuno di questi può mostrare un’apertura, una via nuova da percorrere. Questo è ciò che occorrerebbe fare, cioè mostrare quanta ricchezza una persona possiede in ciò che dice e metterla in condizioni di poterne usufruire, di potersi giovare della ricchezza che ha a disposizione anziché ridursi in uno sgabuzzino al buio pensando che quello sia l’universo intero. Questo per illustrare la “pars costruens”, cioè ciò che rimane dopo che si è tentato in tutti i modi di distruggere tutto, qualche cosa comunque rimane e cioè ciò che mi ha consentito di costruire tutti quei pensieri che mi hanno consentito di distruggere tutto, il linguaggio appunto. Alessandra ha trovato una via d’accesso? /…/ È Lacan che parla di desiderio dell’Altro, perché la interessa il desiderio dell’altro?

Alessandra: secondo me si fonda molto lì la questione anche educativa l’oggetto come lei diceva prima in latino e in greco è violentemente presentato o offerto, comunque, sempre dall’altro, cioè il bambino lo conosce attraverso l’altro è comunque sempre una questione che gira attorno … insomma costruita dal discorso dell’Altro, la presentazione che l’Altro ti dà…

Con “Altro” lei intende l’accezione lacaniana o l’“altro nel senso di “altrui”?

Alessandra: lacaniana. E questo confligge con il desiderio inconscio…

Questa sarebbe una contraddizione in termini perché l’Altro in Lacan è l’Inconscio, l’altro con la A maiuscola, quello che Freud chiamava “ein anderer schauplatz” cioè l’altra scena, e quindi non può configgere con un desiderio inconscio l’inconscio stesso. Però si tratterebbe forse di precisare questa nozione di “Altro” anche in Lacan perché non è detto che le cose debbano stare come dice lui, non è così automatico, se addirittura consideriamo la parola di Nietzsche più interessante di quella di Lacan potremmo giungere a dire che non c’è nessun desiderio dell’Altro e che il desiderio non è desiderio di niente ma il è desiderio di potenza, è desiderio di esercizio di potenza, è desiderio di affermare ciò che si sta affermando, e affermandolo di affermarsi. Potremmo dire che “affermare” attiene alla struttura del linguaggio e l’affermarsi alla fantasia che da questa procede, posso dire dunque che non c’è nessun desiderio dell’Altro? L’ho appena fatto, certo che posso farlo, ma posso anche motivare un’affermazione del genere, dire che il desiderio viene dall’inconscio, ma perché dovrebbe venire da lì? E poi torniamo ancora alla questione del termine del desiderio, dipende da che cosa intendiamo con “desiderio”, lo possiamo descrivere come è stato fatto in miliardi di modi, qual è quello giusto?

Intervento: quello che arriva da una mancanza. Manca qualcosa … io non so esattamente di che cosa si tratta…

Può venirlo a sapere se vuole, oppure può continuare a pensare che ci sia qualche cosa che “manca” strutturalmente. Questo pensiero però è complesso e va articolato, non basta enunciarlo, cosa vuole dire che manca qualcosa? Come faccio a sapere che manca qualche cosa? Dicevamo forse la volta scorsa della “manque à être” di cui parla Lacan, “la mancanza a essere” e dicevo che per affermare una cosa del genere occorre sapere che cosa è l’essere, per sapere se l’essere manca di qualcosa, se no come faccio a dirlo? In base a che cosa?

Intervento: la mamma sente il pianto del bambino e soddisfa … gli dà da mangiare quindi placa il bisogno e quindi dà una risposta un soddisfacimento … Però la richiesta di mangiare oltre significa che manca qualcosa cioè vorrebbe altro dalla madre a me veniva in mente un esempio da di questa psicanalista che viaggiava in treno e ha visto questa scena una madre con un bambino in braccio che si è messo a piangere e lei gli ha dato da mangiare nel frattempo mentre allattava il bambino leggeva era distratta e questa “analista” le ha fatto notare visto il bambino agitato forse stava chiedendo qualche cosa di più che non il mangiare ma l’attenzione della madre, il gesto che accompagna il gesto del nutrire io posso dare da mangiare … io “ti to nutrendo” è diverso dal dire “ti sto dando da mangiare” cioè io la vedo un po’ così…

In genere si vede così in effetti, però è complicata la cosa perché come fa a sapere che il bambino vuole di più? O che invece piange e si agita per tutt’altro motivo che lei non sa perché lui non glielo dice?

Alessandra: no, quello che io volevo intendere con “mancanza” è questo scarto qua…

Ma è uno scarto costruito, immaginato, pensato, supposto, affermare che c’è questo scarto è difficile occorrerebbe sapere che cosa c’è, per sapere che cosa manca, se no diventa una pre-supposizione…

Stefania: io sono d’accordo con te che in una teoria a priori giustamente è come hai detto però nell’après-coup lo vedi perché i bambini, su questo ci sono degli studi, i bambini sono alimentati e soddisfatti dal punto di vista del bisogno che non sono alimentati dal punto di vista della parola sono bambini che risultano con delle mancanze … I bambini messi in istituto poi però sono solo alimentati … Solo alimentati io dico dal punto di vista del pensiero voi dite della parola … sono bambini che non possono essere interlocutori nella vita…

Un bambino che cresce all’interno di una famiglia viene addestrato a muoversi più facilmente all’interno di un sistema prestabilito. Pensa per esempio ai bambini di Sparta, venivano addestrati a uccidere, venivano addestrati a combattere, questo era il loro mestiere, lontanissimi dalla mamma, dal papà, da tutti avevano solo a che fare con uomini che li massacravano per addestrarli ad uccidere, come venivano su? Perfetti per Sparta. Assolutamente perfetti…

Intervento: ma no è diverso … un bambino in istituto io non è che sono una conoscitrice della paideia antica però stavano dentro a un sistema valoriale e quindi anche di desiderio che alimentava delle dimensioni che andavano al di là della semplice soddisfazione del bisogno biologico concreto ,,, sto dicendo che se viene a mancare rispetto a una relazione con l’altro quel qualcosa che permette l’attivazione del pensiero, della parola e di tutto ciò che non è il semplice “ti metto a dormire” e “ti do da mangiare”…

È ovvio Stefania che più stimolazioni offri a una persona, più gli offri opportunità di pensare, di avere pensieri più ricchi, più elaborati, e quindi anche di rapportarsi con chiunque con strumenti sempre più sofisticati, sempre più attenti. È il problema questo anche della macchine, ci si chiedeva come mai “le macchine non pensano come gli umani?” potrebbero farlo, però, questo è il discorso che faceva Turing, un bambino quando nasce incomincia a muoversi e quante informazioni riceve nell’arco di una giornata?

Stefania: io non vorrei, non voglio contraddire ma io quando si parla di “pulsione” poi sono d’accordo con te che è una parola e quindi è qualche cosa che rappresenta qualcosa, quindi non è che io penso che la pulsione è qualche cosa che esiste penso in termini di un qualcosa che ci permette di avvicinarci a una dimensione che non risponde solo ed esclusivamente in termini organici e fisiologici … parlo di pulsione perché mi sembra qualcosa che mi consente di avvicinare a quel quid che ci permette di dire che nell’umano esiste fin dalla nascita un qualcosa che non risponde solo al piano della soddisfazione fisiologica del bisogno…

Non ho mai sostenuto una cosa del genere…

Stefania: allora bene era per cercare di spiegare quello che voleva dire Alessandra … Io volevo dire che proseguendo il suo discorso appunto questo qualcosa che interviene nella dialettica con questo altro che è la madre, il padre, chi si prende cura del bambino è qualcosa dove entra in gioco lo sguardo entra in gioco, la parola, la voce entrano in gioco queste dimensioni qui, una dimensione desiderante, alimenti la dimensione desiderante nell’altro …

Dobbiamo fermarci qui, riprenderemo al prossimo incontro. Grazie a tutti e buona serata.