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24 dicembre 2024

 

Proclo Commento al Cratilo di Platone

 

Proclo è bizantino, è nato a Costantinopoli. Siamo nel quinto secolo d.C., quindi, quasi due secoli dopo Plotino. Lui, però, si è formato ad Atene, dove ha sempre vissuto. Aveva una formazione greca per quanto riguarda la filosofia. È importante Proclo perché, nonostante il suo odio nei confronti dei cristiani - infatti, ha scritto anche un libro contro i cristiani, ce l’aveva a morte con loro - nonostante questo, il suo lavoro ha costituito, per ironia della sorte, il fondamento del cristianesimo. Proclo è stato molto letto da Boezio e da tutti i teologi medioevali, per la sua posizione, in cui è come se avesse – Proclo era vero ovviamente neoplatonico - preso Plotino e ne avesse dato una forma teorica, ma più accettabile dal greco antico, tenendo sempre conto che, in fondo, almeno uno degli obiettivi dei neoplatonici è sempre stato quello di conciliare Aristotele con Platone. Di fatto, Platone e Aristotele sono inconciliabili perché uno mette la verità lassù, l’altro, Aristotele, mette la verità quaggiù, propriamente nella doxa. Proclo, come tutti i neoplatonici, è un grande ammiratore di Platone, per lui Platone è divino, e in questo scritto Commento al Cratilo di Platone, in effetti, non soltanto tesse continuamente l’elogio di Platone, ma, come accade, dà per acquisito il fatto che ciò che dice Platone sia vero, e questo è il punto di partenza. Incomincia così. Lo scopo del Cratilo è di mettere in luce l’attività produttrice delle anime nei livelli più bassi <del reale> e la loro facoltà assimilatrice, che esse hanno ottenuto in sorte secondo la loro essenza e che mettono in luce direttamente attraverso la correttezza dei nomi. Le anime viventi danno origine alle cose, fanno esistere le cose, ma le fanno esistere utilizzando i nomi giusti. Tuttavia, dal momento che l’attività individuale delle anime in molti casi manca i suoi specifici obbiettivi, come appunto fallisce anche la natura individuale, è verosimile che trovino spazio anche quei nomi che sono indefiniti e circolano in modo casuale e fortuito, e che non tutti siano prodotti della scienza intellettiva e mirino all’affinità naturale con le cose. Sta dicendo che sarebbe bello se ci fossero solo i nomi della scienza, del sapere, ma ci sono anche dei nomi fasulli, che ci sviano. Il Cratilo è <un dialogo> logico-dialettico, ma non secondo i metodi dialettici del Peripato che sono astratti dalle cose, bensì secondo il grande Platone che sa che la dialettica è adatta a quei soli la cui riflessione risulta completamente purificata, che sono stati educati attraverso l’apprendimento delle scienze matematiche, che sono stati purificati attraverso le virtù da quella componente dei loro caratteri che è tipica della gioventù, e che hanno fatto filosofia in modo assolutamente autentico, in quanto la dialettica è il “coronamento delle scienze» ed al contempo ci eleva all’unica causa della totalità delle cose, il Bene10, e che da Platone è detta «ad opera di Prometeo essere giunta agli uomini dagli dèi insieme ad un luminosissimo fuoco». In effetti l’analitica del Peripato e l’aspetto principale di questa, la dimostrazione, sono cose facili da apprendere per tutti e davvero manifeste per coloro che non sono completamente obnubilati e non si sono riempiti di molta acqua del Lete. La reminiscenza. III. L’originatore della dialettica è l’Intelletto, che dall’interezza di se stesso la genera interamente… Quando lui parla dell’intelletto occorre sempre avere ben presente Plotino: Uno, Intelletto e Anima. Potremmo anche porla così: l’Uno come il Bene assoluto; l’Intelletto, che non è altro che la capacità di dividere le cose, quindi di dominarle; l’Anima, cioè, i viventi che mettono in atto questa cosa. Da un lato, sulla base della processione di ogni cosa da un’unità fa sussistere la diairetica… La diairetica è l’arte del dividere. …dall’altro, sulla base della ricomposizione di ciascuna cosa in un’unica nozione comprensiva della sua natura specifica, fa sussistere l’oristica… L’oristica è la dottrina della definizione. …poi in base alla presenza delle Forme le une nelle altre, per via della quale ciascuna Forma è ciò che è e partecipa di tutte le altre, <l’Intelletto fa sussistere> l’apodittica; infine, sulla base del ricongiungersi di tutte le cose all’Uno e ai loro propri principi <esso> genera l’analitica. Descrive dialetticamente quello che Plotino diceva del processo dell’Uno, Intelletto e Anima, e poi dall’Anima si risale all’Uno. Ma dice una cosa importante e la dice così, quasi di passaggio. Ve la rileggo: in base alla presenza delle Forme le une nelle altre. È una cosa sulla quale non si sofferma, ma questa riga è il fondamento del pensiero occidentale, perché ponendo le idee l’una nell’altra accade che se è vera l’idea dalla quale procede l’altra, se è vera la prima, allora è vera anche la seconda. È come se ci fosse tra le due idee una connessione naturale perché, se una è dentro l’altra, c’è una connessione naturale. Aristotele, invece, vi ricordate: non c’è nulla che autorizzi questo passaggio fra l’antecedente e il conseguente. Infatti, la famosa parola, che abbiamo ripetuto mille volte, ύμάρχειν, dice invece che è un comando. Se A allora B, perché? Perché l’ho deciso io. Per Proclo no: in “se A allora B” il B procede da A perché è contenuto in A. Capite la differenza sostanziale tra le due cose? Qui ha detto una cosa che è quella sulla quale, dal Medioevo in poi, è costruita tutta la logica, cioè, sulla possibilità, sulla veridicità dell’inferenza, dell’implicazione. IV. Aristotele afferma che esistono una sola retorica ed una sola dialettica, le quali sono in grado di procedere in entrambe le direzioni, a seconda di come uno scelga, ovvero persuadere o confutare. Platone, dal canto suo, dice meglio: vi sono due retoriche e due dialettiche. Una, egli afferma, è quella determinata retorica che è “adulazione” ed è improvvisata, la quale egli mette in discredito nel Gorgia; l’altra, invece, è scienza delle cose buone e giuste, retorica che egli celebra nel Fedro. E a sua volta, la dialettica di Aristotele la respinge in quanto eristica, mentre la dialettica che osserva i principi degli enti la accoglie a braccia aperte come una parte della filosofia. Qui la critica che fa ad Aristotele è abbastanza arbitraria e opinabile: parlare di eristica nei confronti di Aristotele è un po’ azzardato. Se è impossibile che conoscenza ed ignoranza della stessa cosa vengano a coincidere insieme, è impossibile che vengano a coincidere le due retoriche: l’una, infatti, ignora le cose buone, mentre l’altra le conosce. Qui Proclo continua a fare ciò che ha fatto da sempre il neoplatonismo e che continua ancora oggi a fare: separare le cose, tenerle ben separate. Il presente dialogo ci rende edotti sulla correttezza dei nomi, e bisogna che colui che intende essere dialettico prenda le mosse da questo ambito speculativo. Come nel Parmenide <Platone> ha fornito la trattazione dell’intera dialettica, non astratta, bensì congiunta alla speculazione sugli enti, allo stesso modo ora egli fornisce la trattazione della correttezza dei nomi congiuntamente alla conoscenza scientifica delle cose. È la trattazione dei principi degli enti e della dialettica che intende ora fornire Platone, dato che egli tratta <qui> congiuntamente i nomi insieme alle cose di cui <essi> sono nomi. Ora, la questione che a noi interessa qui è che Proclo sta insistendo molto sulla divisibilità, sulla divisione delle cose. Tenere separati l’uno dai molti, e su questo costruire una teoria, è ciò che ha consentito al cristianesimo di costruire una teologia fondata sulla ineffabilità di un Dio, dal quale procedono tutte le cose. Ma tutte le cose che procedono da Dio non sono Dio, come vorranno poi i panteisti, così come si dice sia stato Spinoza, tra molti altri, per i quali Dio è in tutte le cose. Che poi, in fondo, è anche la posizione del Rinascimento, del “Deus sive natura”, per cui Dio e la natura sono la stessa cosa, per cui Dio è ovunque, ogni cosa che io vedo è Dio, perché, se Dio è in ogni cosa, ogni cosa rimanda, riporta a Dio. Per quale motivo Platone, pur affermando che, se noi disdegniamo i nomi, «appariremo più ricchi di saggezza invecchiando», egli stesso ora conduce la sua ricerca principalmente intorno ai nomi? Forse il motivo è che la sua indagine non ha per oggetto il modo in cui essi vengono usati, bensì il modo in cui essi sono immagini delle cose? Ed in effetti il metodo della definizione è di tre specie: o esso, prendendo le mosse dal genere posto più in alto, procede attraverso tutti i generi intermedi fino alle ultime differenze specifiche, che è quello che fa lo Straniero di Elea quando definisce sia il “sofista” sia il “politico”; oppure, prendendo in considerazione il genere prossimo e noto, procede attraverso le varie differenze in successione una dopo l’altra, come nel caso di “l’uomo è un animale camminante bipede” e simili; oppure, infine, ricorre ad un solo nome, come per esempio: “bello è il confacentesi”, “anima è essenza apportatrice di natura” e casi simili. E questa terza modalità del metodo della definizione è il più precario. Infatti, nel caso in cui fin da principio l’impositore dei nomi sia stato privo di scienza, chi si è servito per la definizione <della cosa denominata> del nome posto <dall’impositore dei nomi> è inevitabile che cada in errore. Se io voglio sostenere che i nomi rispecchiano le cose, devo presupporre che chi ha dato questi nomi avesse scienza delle cose. Ma chi può avere questa scienza assoluta se non Dio? Perciò, dunque, Platone ora indaga principalmente su tali nomi, e per il tramite di essi risale alle cose. Tutto questo, ormai vi sarà abbastanza facile da comprendere, è sorretto dall’idea che le idee procedano in questo modo, l’una dall’altra, perché il conseguente è già nell’antecedente. È questo che garantisce la correttezza, è già implicito: le idee sono una dentro l’altra. E questo consentirà tra poco di fare una serie di sillogismi ipotetici. Perché, se si mette in discussione questo, se si mette in discussione la legittimità dell’implicazione o la sua veridicità, si mette in discussione la possibilità stessa di pensare o, più propriamente, di pensare il vero, cioè, non posso pensare il vero in nessun caso perché tutte le deduzioni o induzioni che faccio sono arbitrarie, non sono garantite da nulla. Aristotele lo sapeva: ύμάρχειν, un comando, e quindi perché “se A allora B”? Perché sì. Ma questo metodo contribuisce anche alla dimostrazione, come nel Fedro, ove egli si è impegnato a dimostrare, prendendo le mosse dal suo nome, che la “mantica” è superiore alla “divinazione”; ma <contribuisce> anche all’analisi <etimologica>, come quando denomina, <ancora> nel Fedro, “potēnós” [“alato”, “volante”] l’érōs [“amore”] di cui partecipano i mortali, mentre quello che non può essere partecipato ed è divino lo denomina “ptérōs” [“il <dio> alato”], per via del fatto che in esso si combinano in un’unità sia l’essenza che l’attività del dio, e in questo modo egli appare procedere verso l’alto ricorrendo all’analisi <etimologica>; ma questo metodo è spesso necessario anche per la divisione: è in questo modo, a mio giudizio, che Socrate ha distinto che una cosa è ciò che è gradevole, un’altra ciò che è buono, proprio perché i nomi sono due. Quindi, in Platone e nel neoplatonismo si tratta sempre di procedere verso l’alto, perché, sì, si scende, ma sempre per tornare verso l’alto: è sempre l’Uno l’obiettivo, la meta finale, questo è importantissimo. Dicendo che è sempre l’Uno la meta finale, è come dire che ogni cosa va riportata all’Uno e che, quindi, i molti devono scomparire, non possono rimanere, perché i molti sono i cattivi. I personaggi del dialogo sono i seguenti: Cratilo l’Eracliteo – dei cui insegnamenti anche Platone fu uditore – il quale sosteneva che tutti i nomi sono per natura: infatti quelli che non sono per natura, a suo dire, non sono neppure nomi, allo stesso modo in cui affermiamo anche che chi mente non dice nulla;… Ora, che questa sia la tesi di Eraclito è tutto da discutere, ma comunque nel Cratilo l’idea era questa, che i nomi vengano direttamente dalle cose, una specie di emanazione dalle cose. Ermogene il Socratico sosteneva, al contrario, che nessun nome è per natura, ma che tutti sono per convenzione; e per terzo Socrate, che, avendo fatto da arbitro <tra i due>, ha mostrato che alcuni nomi sono per natura, mentre altri sono anche per convenzione, essendosi formati, per così dire, per caso. In effetti i nomi attribuiti alle entità eterne sono in maggior misura partecipi di ciò che è per natura, mentre quelli che sono attribuiti alle cose corruttibili partecipano in misura maggiore di ciò che è casuale. Ora, i nomi delle cose divine sono dati da Dio, naturalmente, è per questo che sono i nomi giusti, mentre per le cose terrene ogni tanto c’è qualche disguido. Infatti, chi ha chiamato il proprio figlio “Athanásios” rende manifesto l’errore relativo a quest’ultimo genere di nomi. Inoltre, dato che anche i nomi sono dotati di forma e materia, essi in base alla forma partecipano in misura maggiore di ciò che è per natura, mentre in base alla materia partecipano in misura maggiore di ciò che è per convenzione. Forma e materia dei nomi, significante e significato. La forma è quella, la materia, ὕλη, invece può cambiare, è sempre in movimento: il significante è quello, i significati invece sono tanti. E parlando con Ermogene, distingue i nomi che sono fissamente stabiliti negli dèi, come ad esempio “Myrínē” e simili, e quelli presenti nelle anime, come per esempio “Batíeia”; invece parlando con Cratilo, da un lato, ammette la relazione diretta dei nomi con le cose, dall’altro mostra che v’è anche molto di casuale nei nomi, ed al contempo anche che non tutte le cose sono soggette a movimento. Questa era l’idea originale, cioè, i nomi dicono le cose oppure no? Per Cratilo sì, i nomi dicono le cose, perché i nomi vengono direttamente dalle cose. Per Ermogene no - e questa è anche la posizione di Aristotele -, perché il nome è arbitrario, non dice la cosa, la dice, sì, ma per convenzione; in effetti, potrebbe dire tutt’altro. È una questione questa che poi è rimasta estremamente importante, cioè, se sia possibile o no dire le cose. Pensate a tutta la disputa medioevale sugli universali. L’universale dice la cosa? È un qualche cosa oppure è un semplice flatus vocis, come diceva Guglielmo di Ockham? Questi due giovani, che, sostenendo posizioni opposte, cercavano di confutarsi vicendevolmente in forma parziale e particolare, non erano in grado di sostenere il proprio punto di vista in senso universale; ed infatti mentre un’affermazione universale viene confutata attraverso una particolare, l’affermazione <universale> opposta non può più essere sostenuta di nuovo attraverso un’affermazione particolare, bensì attraverso un’affermazione universale. Socrate, imbattutosi in costoro e avendo fatto loro da arbitro, ha articolato le tematiche in questione in maniera scientifica. Cratilo, che è capace di conoscenza scientifica ed è estremamente conciso <nel parlare> – il che costituiva una scelta specifica degli Eraclitei, i quali, per via del fatto che le cose fanno in fretta a venir mutate dalla loro stessa instabile natura, intendono prevenirle – manifestamente risponde nel corso dell’intero dialogo con pochissime sillabe e parole. Ecco il motivo per cui Platone, il più capace nell’imitazione <dei personaggi>, subito fin dalle primissime battute ha fatto rivolgere a costui l’espressione «vuoi...»; Ermogene invece, che rimane legato alla dimensione dell’opinione ed è affascinato dalle opinioni dei più, ha introdotto il carattere del “per convezione” dei nomi ed al contempo per tutta risposta, in modo assolutamente appropriato, si è sentito dire da Cratilo le parole «se ti sembra». In effetti il sembrare spesso ha per oggetto ciò che non è voluto e non è scelto deliberatamente, così come la volontà ha per oggetto invece solamente i beni. Dell’opinione di Cratilo sono stati Pitagora ed anche Epicuro, mentre Democrito e Aristotele di quella di Ermogene. Qua c’è un’altra cosa importante. In effetti, Pitagora, interrogato su quale fosse il più sapiente tra gli enti, rispose «il numero»; poi su quale fosse secondo per sapienza, <rispose>, «colui che pose i nomi alle cose». Attraverso il riferimento al numero egli alludeva all’ordinamento intelligibile che comprende in sé la moltitudine delle Forme intellettive. Cioè, questa molteplicità delle forme è ordinata. Da chi? Dal numero. In effetti è là che dopo l’Uno sovraessenziale è venuto a sussistere quello che è Numero in senso originario e autentico, il quale provvede anche a garantire le misure dell’essenza a tutti gli enti, e nel quale si trovano quella che è realmente Sapienza e la Conoscenza che lo è di se stessa, che risulta rivolta a se stessa e che rende perfetta se stessa. Sempre il numero, questa virtù del numero. E come là oggetto intelligibile, intelletto ed intellezione sono la stessa cosa, allo stesso modo là anche Numero e Sapienza sono la stessa cosa. Lassù non c’è separazione, è tutto unito, è tutto nel tutto, cioè, ogni cosa è quella che è, perché non ci sono i molti. È la stessa cosa che poneva Severino, che dice esattamente la stessa cosa rispetto al concreto: il concreto diventerà il tutto quando tutti gli astratti parteciperanno del concreto; solo allora sarà vero, sarà un intero. Molto neoplatonico. Ma lui non se n’è accorto. Attraverso, poi, il riferimento a chi ha posto i nomi, egli alludeva all’Anima, la quale è venuta a sussistere proprio ad opera dell’Intelletto… Perché è l’intelletto che la ordina. Noi che siamo anime, cioè, siamo viventi, siamo animati, abbiamo un’anima che ci rende animati. Anche il termine “animale” viene da lì. Quindi, l’anima è ordinata dall’intelletto, il quale naturalmente procede dall’Uno, che sta lassù. …e <essa> non coincide con gli oggetti reali in se stessi, come invece in modo principale l’Intelletto, ma <essa> possiede le loro immagini e definizioni articolate di natura essenziale, per così dire come statue degli enti, allo stesso modo in cui i nomi, imitando le Forme intellettive, <imitano> i numeri. Dunque, l’essere viene a tutte le cose dall’Intelletto che conosce se stesso ed è sapiente, mentre il dare nome dall’Anima che imita l’Intelletto. È nell’intelletto che c’è il nome, quello giusto. E l’anima cosa fa? Lo imita. Ma, se lo imita, il nome dato dall’intelletto è nel giusto, perché l’intelletto non sbaglia in quanto l’intelletto viene direttamente dall’Uno, che sta lassù. Quindi, afferma Pitagora, il coniare nomi non è compito di uno qualunque, bensì di chi contempla l’Intelletto e la natura degli enti: quindi i nomi sono per natura. Dunque, i nomi sono per natura, perché Dio lo vuole. Questo non lo dice. Democrito invece, dicendo che i nomi sono per convenzione, dimostrava ciò per mezzo di quattro argomentazioni. 1) A partire dalla omonimia: quelle cose che sono differenti vengono chiamate con lo stesso nome; quindi, il nome non è per natura;… Perché se fosse per natura sarebbe quello e basta. 2) a partire dalla polinomia: in effetti, se quei nomi che sono differenti corrisponderanno ad una sola e medesima cosa, dovranno corrispondere anche fra loro, il che è impossibile;… Cosa impossibile se fosse per natura. 3) a partire dal mutamento dei nomi: infatti per quale motivo abbiamo cambiato il nome “Aristocle” con “Platone”, e “Tirtamo” con “Teofrasto”, se i nomi sono per natura? 4) infine a partire dall’assenza di termini simili: per quale motivo da “phrónēsis” [“assennatezza”] diciamo “phronéō” [“essere assennato”], mentre da dikaiosýnē [“giustizia”] non deriviamo allo stesso modo un altro termine? Di conseguenza i nomi sono per caso, non per natura. Il medesimo, inoltre, chiama il primo argomento “della polisemia”; il secondo “della perfetta corrispondenza”; <il terzo “della metonimia”>; il quarto infine “della mancanza di nome”. Alcuni, d’altra parte, intendendo risolvere <tali difficoltà>, in relazione al primo argomento dicono che non v’è da meravigliarsi se un unico e medesimo nome riproduce in forma di immagine più cose, come il termine “érös” [“amore”] che derivando sia da “rhmē” [“forza”] sia da “ptérös” [“il <dio> alato”] indica cose differenti; in relazione al secondo argomento, <affermano> che nulla impedisce che nomi differenti indichino la stessa cosa in base ad un aspetto o un altro… Quindi, come aggirano il problema? Con l’etimo: uno stesso nome dice cose diverse. Sì, però, etimologicamente si può far risalire a quell’altra cosa, ecc. È un’interpretazione - sarebbe contento Filone -, interpreto questo nome, Eros, utilizzando l’etimologia come mi pare. Ciò che è per natura è in quattro modi: o è come le sostanze degli animali e dei vegetali, sia nella loro interezza sia nelle loro parti; o come le loro attività e potenze, come la leggerezza propria del fuoco e il suo calore; o come le ombre e i riflessi negli specchi; oppure, infine, come le immagini artificiali che sono simili ai loro modelli. Ebbene, Epicuro riteneva che i nomi fossero per natura in base al secondo significato, come le attività naturali principali, ad esempio la voce e la vista, e come sono il vedere e l’udire allo stesso modo è anche il nominare, sicché anche il nome è per natura in quanto opera di natura. Così come io vedo, il nome è la stessa cosa, è l’oggetto che mi dice come si chiama in un certo qual modo. Invece Cratilo <riteneva che i nomi siano per natura> in base al quarto significato: perciò afferma che il nome di ogni singola cosa appartiene specificamente ad essa… Ma la cosa che mi interessa di più… Per esempio, qui fa una sorta di etimologia del nome Cratilo. È presumibile che il nome “Kratýlos” [“Cratilo”] sia posto in riferimento al “perikratêsai” [“padroneggiare”] completamente le dottrine di Eraclito e al conseguente “kataphronêsai tôn rheustôn” [“disprezzare le cose soggette al fluire”] in considerazione del fatto che neppure sono in senso vero e proprio. Invece il nome “Socrate” sembra sia posto in riferimento al suo “sōtêra eînai toû krátous tês psychês” [“essere il salvatore della potenza dell’anima”], cioè della ragione, al suo non lasciarsi trascinare in basso dai sensi. Vedete come qui mette insieme una teoria linguistica con l’interpretazione. Dire che il nome Socrate sarebbe stato imposto in rapporto al fatto che egli era “salvatore del potere dell’anima” è un’interpretazione, che però acquista forza a partire dall’idea che una idea sia contenuta nell’altra, l’idea che il conseguente sia contenuto nell’antecedente; quindi, se c’è Socrate allora, e se Socrate è quello che è, anche questa cosa che diciamo dell’etimologia sarà vera. Critica degli eraclitei. Gli Eraclitei sono stati accusati di essere fanfaroni, dissimulatori e presuntuosi sia nel Teeteto da Teodoro sia ora da Ermogene, ma non dai filosofi. Il primo, infatti, si occupa di geometria, l’altro invece è un giovincello. Sembra che non siano attendibili. In effetti chi è veramente filosofo non ha tempo da perdere in tali considerazioni. Socrate ora, ricorrendo all’ironia, mette in discredito il sofista Prodico. Infatti, partendo dalla lezione da una dracma, come sembra, ha espresso un giudizio negativo anche per quella da cinquanta dracme, in quanto è fonte di inganno ed è tutta rivolta al profitto. Infatti, <solo> coloro che pagavano le cinquanta dracme venivano ritenuti degni di udirla. Inoltre, bisogna riconoscere la nocività del sofista attraverso questi tre aspetti: 1) il sofista valutava in denaro la maggiore o minore completezza della conoscenza; 2) egli prometteva di infondere la conoscenza attraverso il solo ascolto della lezione; 3) non a partire dalla testimonianza di altri, ma a partire dalla sua stessa asserzione il sofista sostiene che si genera tale conoscenza. Qui inserisce questa cosa, che c’entra poco con tutto ciò che diceva prima, però, la critica ai sofisti è che è una cosa che va sempre fatta, in un modo o nell’altro bisogna farla, perché i sofisti sono quella gentaglia che insiste a dire che i molti non si tolgono dall’uno e, quindi, devono essere fatti fuori, non è possibile che rimangano. I sofisti si compiacciono di discorsi declamatori, i filosofi invece di discorsi in forma dialogica. E i sofisti, a loro volta, in quanto produttori di immagini illusorie, si mettono i panni del dialettico, ed ecco così che la loro eristica viene a molestarci. Fastidiosissima l’eristica: l’arte di dimostrare e confutare indiscriminatamente qualunque cosa, senza nessun riguardo alla verità. Se le dissimulazioni ironiche di Socrate non devono essere prive di verità… Come non devono essere prive di verità? Lui lo dà come acquisito. …come mai ora egli afferma di non conoscere il vero? Forse afferma ciò poiché, pur essendo venuto in possesso della conoscenza, non conosce in modo tale da poter disporre <di essa>? O perché v’è nei nomi una gran parte di non essere e di indefinito per via dell’imperfezione propria dell’ambito della generazione? Dei doni di Ermes alcuni sono beni intellettivi e primi, altri sono secondi e perfezionatori della riflessione, altri sono terzi e capaci di purificare dall’irrazionalità e di porre una misura, in particolare, ai movimenti connessi con l’immaginazione… Che vanno misurati, vanno gestiti, vanno controllati, sennò l’immaginazione, si sa, va di qua e di là, non si controlla più. …altri, ancora, sono in grado di far sussistere i principi razionali naturali104, altri, infine, sono dispensatori delle capacità di procurarsi i beni esteriori e i profitti; questi, in effetti, del dio sono i doni di livello più basso e connessi alla materia, i quali, come affermano gli astrologi, il dio concede nelle “disposizioni astrali non favorevoli”. Ora, il sillogismo ipotetico. Il sillogismo ipotetico è quello che muove da un’ipotesi. Il sillogismo apodittico è quello che dice “Tutte le A sono B, tutte le B sono C, tutte le A sono C”. Il sillogismo ipotetico invece dice: se tutte le A fossero B e se tutte le B fossero C, allora tutte le A sarebbero C, usando il condizionale. Il sillogismo ipotetico di Ermogene procede nel modo seguente: se esiste la possibilità di mutare i nomi, i nomi sono per convenzione e simboli delle cose; ma la premessa è vera, quindi lo è anche la conseguenza. Eccolo qui il sillogismo ipotetico, che sarebbe il sillogismo anapodittico degli stoici. Ma la cosa interessante è che dice che, se è vera la premessa, è vero anche il conseguente. Ma perché questo? Perché un’idea è contenuta nell’altra. Se ci attenessimo a ciò che dice Aristotele, allora la conseguenza non è affatto vera, a meno che io decida che lo sia. Invece il sillogismo ipotetico di Proclo procede nel modo seguente: se i nomi sono simboli delle cose e per convenzione, non abbiamo più bisogno di mutare i nomi; ma è vera la premessa, quindi lo è anche la conseguenza. Utilizza il modus ponens, cioè, se P allora Q, ma P dunque Q, che, faceva notare da qualche parte qualcuno, non è propriamente un sillogismo perché, intanto, manca la premessa minore e poi non conduce a nulla di nuovo, mentre nel sillogismo la conclusione sarebbe qualche cosa di differente rispetto alle premesse maggiore e minore. Nel sillogismo anapodittico, chiamiamolo così, in effetti, non si fa che ridire ciò che si è già detto, come nell’esempio famoso “se piove prendo l’ombrello, ma piove, quindi prendo l’ombrello”. Il fatto di prendere l’ombrello è già implicito nel fatto che se piove prendo l’ombrello, non dice niente, assolutamente nulla. Però, la cosa importante qui da segnalare è questa, che se è vera la premessa, allora è vera la conseguenza. E questo è possibile soltanto se, come ha detto di sfuggita in tre parole, in modo che non ci si soffermi più di tanto, che le idee sono una dentro l’altra, per cui se è vera una è vera anche quella che è contenuta. Poi, usa anche il modus tollens, non soltanto il modus ponens ma anche il modus tollens, che dice “se P allora Q, ma non-Q, dunque non-P: se è falso il conseguente allora vuol dire che non è contenuto nell’antecedente, e quindi è falso anche l’antecedente. Stiamo andando molto lentamente, stiamo ponendo le basi. Però, la cosa più importante in tutto ciò che ha detto qua è quella che dice nel capitolo tre: in virtù della presenza delle idee l’una nell’altra. Per questo è possibile affermare con certezza, perché l’apodissi è un’affermazione certa. Tutte le A sono B, ecc., per Proclo è consentita perché il conseguente è dentro l’antecedente, è compreso nell’antecedente. In Aristotele no, non c’è nulla al mondo che possa garantire questa implicazione, questa connessione è un comando.