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24-8-2016

 

Sentieri interrotti di M. Heidegger

Il primo capitolo muove dalla domanda che cosa è un’opera d’arte, ma prima ancora da che cos’è una cosa. Origine significa qui ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è ed è come è (fa una specificazione importante oltre che interessante: “origine significa qui” cosa vuole dire questo? Non sta dicendo che cosa è origine, ma come la intende lui qui e adesso, e cioè l’origine non è, come qualunque altra cosa, un quid, non è un ente metafisico ma è un concetto, non è un ente di natura ma un ente di ragione. Per questo dice che “origine significa, qui e adesso” perché altrove significa altre cose, quindi non prende la cosa come oggetto metafisico ma come un concetto, quindi come una parola. su questo ci sarebbe parecchio da dire ma andiamo un po’ avanti) Ciò che qualcosa è, essendo così com’è, lo chiamiamo la sua essenza (di nuovo non dice che ciò che “qualcosa è, essendo così com’è” è la sua essenza, come vuole la metafisica, quella più comune, ma lo chiamiamo “la sua essenza” qui e adesso) L’origine di qualcosa è la provenienza della sua essenza, (da ciò che chiamiamo essenza, bisogna sempre tenere conto di questo) dunque il problema dell’origine dell’opera d’arte concerne la provenienza della sua essenza (come una qualunque cosa, l’origine è provenire dalla sua essenza). Secondo il modo comune di vedere l’opera nasce dall’attività e in virtù dell’attività dell’artista, ma in virtù di che cosa e a partire da che cosa l’artista è ciò che è? In virtù della sua opera. Che un’opera faccia onore a un artista significa infatti “solo l’opera fa dell’artista un maestro dell’arte”, l’artista è l’origine dell’opera, l’opera è l’origine dell’artista, nessuno dei due sta senza l’altro, tuttavia nessuno dei due da solo è in grado di produrre l’altro (senza l’artista non c’è l’opera d’arte ma senza l’opera d’arte che artista c’è?) artista e opera sono ciò che sono in sé e nei loro reciproci rapporti in base a una terza cosa, che è in realtà la prima e cioè in virtù di ciò per cui tanto l’artista quanto l’opera d’arte, traggono il loro stesso nome in virtù dell’arte. Così necessariamente come l’artista è l’origine dell’opera in un modo diverso da quello in cui l’opera è l’origine dell’artista, altrettanto l’arte costituisce un modo diverso ancora, l’origine ad un tempo e dell’artista e dell’opera. È dunque possibile che l’arte costituisca un’origine? (cioè a questo punto mette l’arte come l’origine e dell’artista e dell’opera) Dove e in qual modo sussiste l’arte? L’arte è ormai solo più una parola cui non corrisponde nulla di reale, non si tratta che di una rappresentazione unitaria in cui facciamo rientrare ciò che l’arte include ancora di reale: l’opera e l’artista (qui è come se insistesse sulla questione sulla quale si confronta e si confronterà anche dopo, e cioè della distanza che c’è, adesso la dico in modo molto spiccio, tra l’ente di natura e l’ente di ragione. Se è un ente di natura allora è un oggetto metafisico, che è quello che è, se è un ente di ragione allora è un concetto fatto di parole ma queste parole dicendo la cosa dicono sempre qualche cos’altro. E quindi ci si trova di fronte a un problema che adesso mano a mano illustrerà) C’è l’opera e c’è l’artista solo in quanto c’è l’arte come loro origine? Qualunque risposta si dia a questi interrogativi il problema dell’origine dell’opera d’arte assume la forma dell’essenza dell’arte. (cioè prima dobbiamo chiarire che cosa l’arte sia, ammesso che sia qualcosa) Ma poiché deve restare in pre-giudicato se e come l’arte in generale sia, (quindi dà per assunto che l’arte sia metafisicamente cioè l’arte è, poi si tratta di vedere che cosa naturalmente) cercheremo di rintracciare l’essenza dell’arte là dove arte domina indubitabilmente reale, l’arte si trova nell’opera d’arte, ma che cos’è un’opera d’arte? Solo l’opera ci può dire che cosa sia l’arte, si potrà osservare che ci andiamo muovendo in un circolo vizioso, l’intelletto comune esige che si esca da questo circolo contrario alla logica, tale intelletto pretende che si ricavi la comprensione dell’essenza dell’arte da un’analisi comparativa delle opere d’arte viste nella loro semplice presenza, ma un’indagine di questo genere come potrà esser certa di basarsi su autentiche opere d’arte quando non sa ancora in che cosa sussiste l’essenza dell’arte? Ma se è impossibile raggiungersi per questa strada l’essenza dell’arte non è neppure deducibile da concetti generali, infatti anche una deduzione di questo genere non può non presupporre come acquisite le determinazioni costitutive di ciò che deve essere assunto come opera d’arte. Il muovere da opere assunte come semplicemente presenti e la deduzione da principi sono procedimenti ugualmente impossibili che quando sono addottati non producono che illusioni (per dirla in un altro modo, per quanto a noi interessa e ci riguarda, partire da un oggetto metafisico non può produrre che illusioni). Dobbiamo quindi muoverci nel circolo (come dire: manteniamo il circolo visto che non c’è uscita) ma non si tratta né di un ripiego né di un difetto (è il “circolo” di cui parlavamo anche rispetto alla questione di Kant) nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero e nel non uscire da esso la sua festa, posto che il pensiero sia un mestiere, non fa circolo soltanto il passo decisivo dall’opera all’arte in quanto passo dall’arte all’opera ma ognuno dei passi che arrischiamo circola in questo circolo (di nuovo siamo presi in un circolo vizioso. Qui passa in rassegna una serie di opere e dice:) Tutte le opere (di tutti i tipi che vogliamo) hanno questo carattere di “cosa” (sono cose) Che sarebbero senza di esso? Ma forse ci arrestiamo di fronte a un carattere dell’opera troppo grossolano ed estrinseco, con una simile visione delle opere d’arte possono aggirarsi in un museo gli spedizionieri o la donna addetta alle pulizie, noi dobbiamo prendere le opere quali appaiono a coloro che ne vivono e ne godono, ma anche la tanto invocata immedesimazione estetica nell’opera non potrà mai prescindere dal carattere di “cosa” che inerisce all’opera (comunque si tratta di una cosa). L’essere pietroso è dell’edificio, l’essere legnoso della scultura di legno, il carattere di “cose” è talmente radicato nell’opera d’arte che noi addirittura capovolgiamo queste affermazioni dicendo: l’edificio è in pietra, la scultura lignea è in legno eccetera, bisogna guardarsi dalle evidenze grossolane, certo, ma che cos’è questo carattere di cosa così potentemente presente nell’opera d’arte? L’opera d’arte è sì una cosa fabbricata ma dice anche qualche cos’altro oltre la pura cosa: λλο γορεει. L’opera d’arte rende noto qualche cos’altro, rivela qualcos’altro è allegoria (λλο γορεει è l’etimo secondo Heidegger di allegoria) Alla cosa fabbricata l’opera d’arte riunisce anche qualche cos’altro, riunire si dice in greco συμβαλεν (da cui simbolo). L’opera d’arte è simbolo, allegoria e simbolo costituiscono il campo entro cui si muove già da tempo la caratterizzazione dell’opera d’arte, ma questo qualcosa che manifesta nell’opera qualche cos’altro che riunisce a qualche cos’altro è proprio la cosità dell’opera d’arte, il suo esser cosa (quindi l’esser cosa dell’opera d’arte è il riferirsi a qualche cos’altro, il rinviare a qualche cos’altro, che potremmo anche generalizzare a questo punto dicendo che ciò che fa sì che la cosa sia esser cosa è l’esser cosa in quanto riferentesi a qualche cos’altro, che è la definizione di segno) È necessario sapere chiaramente che cosa significa “cosa”, solo a questo patto ci sarà possibile stabilire se l’opera d’arte è una cosa cui inerisce anche qualche cos’altro oppure se è alcunché di completamente diverso da cosa e quindi in nessun caso una cosa (però chiaramente se non è una cosa è niente). Che cos’è in verità una cosa perché sia una cosa? Ponendo questa domanda miriamo a stabilire l’esser cosa, la cosità della cosa, bisogna cogliere il carattere di cosa della cosa, al tal fine è necessario conoscere la regione in cui rientra ogni ente che diciamo “cosa” (cioè tutte queste cose che chiamiamo “cose” rientrano all’interno di una qualche altra cosa). La pietra nella strada è una cosa, la zolla nel campo è una cosa (e fa tutta un’altra serie di esempi) anche queste sono cose come lo sono la nuvola in cielo, il carro nel campo eccetera, tutto questo infatti deve essere detto “cosa”, se viene designato con lo stesso nome anche ciò che a differenza delle cose dette non si manifesta e perciò non appare, una cosa che non appare cioè una cosa in sé (ricordate che secondo Kant il mondo nella sua totalità e perfino dio sono cose, però, dice Heidegger, una cosa che non appare, cioè una cosa in sé, è ad esempio, secondo Kant il mondo nella sua totalità e perfino dio). Cose in sé e cose che appaiono, tutti gli enti in generale sono detti nel linguaggio filosofico “cose”: aeroplani, stazioni radio, eccetera. Anche se quando parliamo delle cose ultime alludiamo a tutt’altro (almeno apparentemente) le cose ultime sono la morte e il giudizio, in generale il termine “cosa” indica tutto ciò che non è il mero nulla, pertanto anche l’opera d’arte è una cosa per il fatto di differenziarsi dal nulla. Ma questo concetto di “cosa” non ci offre aiuto alcuno, immediatamente almeno, in vista del nostro compito e cioè della differenziazione del modo di essere della cosa dal modo di essere dell’opera (dice, sì certo, l’opera d’arte è una cosa ma tutte le cose sono cose, questa che cos’ha di particolare, perché la distinguiamo dal posacenere?) /…/ Ci ripugna designare dio come cosa e definire cosa il contadino nel campo, il fuochista dinnanzi alla caldaia, il maestro eccetera. L’uomo non è una cosa. Dal più ampio dominio in cui tutto è cosa, cosa uguale a res, uguale a ens uguale a ente, comprese le supreme e ultime, siamo così sospinti verso il ristretto dominio delle mere cose, mero significa qui per un verso la pura cosa quella che è semplicemente cosa e null’altro, ma “mero” significa anche soltanto più cosa, (questa è soltanto più una cosa) in un significato prossimo al peggiorativo. Le mere cose con l’esclusione delle stesse cose d’uso, valgono come le vere e proprie cose, in che consiste il carattere di cosa di queste cose? È da esse che dobbiamo muovere per determinare la “cosità” delle cose. Tale determinazione ci porrà in grado di individuare l’essenza del carattere di cosa, saremo allora in grado di muovere alla ricerca di quella realtà dell’opera, in cui consiste quel qualcos’altro oltre alla cosa di cui abbiamo parlato. /…/ Le interpretazioni della cosità delle cose predominanti nel corso del pensiero occidentale e divenute in esso ovvie e di impiego abituale, si possono ridurre a tre (fa l’esempio del blocco di granito, ma dice) tutti i tratti caratteristici non fanno che indicare ciò che appartiene alla pietra in questo caso (che ha le sue proprietà, la cosa le possiede). La cosa? A che pensiamo in questo momento dicendo “cosa”? (quando diciamo che la cosa possiede tutte queste proprietà, la cosa dice cos’è la cosa? A che cosa ci stiamo riferendo esattamente?) Evidentemente la cosa non è semplice riunione delle sue caratteristiche e neppure il sommarsi delle proprietà da cui soltanto risulterebbe l’insieme (questa è la fisica, cioè l’oggetto, la cosa è l’insieme delle sue proprietà, proprietà sulle quali possiamo lavorare, manipolare, calcolare eccetera ma la cosa non è quelle proprietà. Quando io descrivo questo aggeggio, il registratore, se io volessi dire che cos’è, cosa dovrei fare? Oltre a interrogarmi su che cosa sto dicendo nel dire che cosa posso fare, posso soltanto stabilirne delle proprietà, delle funzioni, è fatto in un certo modo con un certo materiale, serve a una certa cosa eccetera ma, ci sta dicendo Heidegger, tutte queste cose che sto dicendo non sono quella cosa lì, non sono il registratore, sono altre cose, ecco perché dicevamo altre volte di ciò che accade quando mi riferisco a qualcosa: per dire che cos’è qualcosa devo dire ciò che quella cosa non è, dicendo che cos’è “questo” dico una serie di cose che non sono quella cosa lì, quindi per dire che cos’è devo dire ciò che non è, con tutto ciò che questo comporta. Questo è il problema, ma nell’accezione heideggeriana, cioè la questione del linguaggio). Evidentemente la cosa non è la semplice riunione delle sue caratteristiche e neppure il sommarsi delle proprietà da cui soltanto risulterebbe l’insieme, la cosa come ognuno crede di sapere è ciò intorno a cui le proprietà si raccolgono (io elenco delle proprietà, queste proprietà si raccolgono intorno alla “cosa” che resta comunque non quelle cose lì che io dico). I greci lo intesero come τ ποκείμενον, questo nocciolo della cosa era per loro ciò che sta nel fondo che precede ogni determinazione (un po’ come dicevamo l’altra volta rispetto al discorso che faceva Heidegger intorno a Kant, diceva che occorre che ci sia qualcosa perché io possa giudicare intorno a questo qualcosa, se non percepisco, se non c’è un qualche cosa non posso giudicare niente) Le caratteristiche sono invece τ συμβεβηκτα, ciò che nei singoli noccioli è già sempre incluso e quindi si presenta sempre con essi /…/ Queste denominazioni non sono casuali in esse parla, cosa che qui non c’è bisogno di dimostrare, la sperimentazione fondamentale dell’essere dell’ente da parte dei greci, in queste determinazioni trova fondamento la successiva interpretazione della cosità delle cose e in esse si fonda l’interpretazione occidentale dell’essere dell’ente, questa incomincia con l’assunzione dei termini greci nel pensiero romano latino: ποκείμενον diviene subjectum, πόστασις diviene substantia, συμβεβηκς diventa accidens. Questa traduzione latina dei termini greci non è per nulla quel processo “innocuo” che è ancor oggi ritenuto, dentro a questa traduzione letterale e quindi apparentemente garantita si nasconde invece il tradursi in un modo di pensare diverso dalla sperimentazione greca dell’essere (sta dicendo che il modo in cui i greci pensavano l’essere in queste parole, in ciò che loro intendevano in queste parole, tradurre ποκείμενον con subjectum comporta un pensare diverso, è un’altra cosa, non pensa più l’essere nel modo in cui lo pensano i greci). Il pensiero romano assume i termini greci senza la corrispondente sperimentazione originaria di ciò che essi dicono (senza la parola greca traducono in un altro modo, senza ciò che il greco sperimentava dicendo quelle parole, quindi ciò che il greco intendeva effettivamente quando pronunciava la parola “ποκείμενον” che non è ciò che il latino pensava dicendo la parola “subjectum”, è un’altra cosa, è questo che dice, ma lo dice dappertutto). La mancanza di base del pensiero occidentale incomincia proprio con questo genere di traduzione. La determinazione della cosità della cosa (cioè dell’essenza della cosa l’essere della cosa) come sostanza degli accidenti, come ciò che sta sotto a ciò che accade sembra corrispondere alla nostra concezione naturale delle cose, niente di strano quindi che questa concezione abituale della cosa abbia fatto da norma anche al comportamento verso la cosa e cioè alla chiamata in questione della cosa e al parlare intorno ad essa (sta dicendo che noi parliamo della cosa oggi in seguito alla traduzione latina, il modo in cui pensava il latino è ancora oggi il modo in cui viene pensata l’essenza della cosa, la cosità della cosa) la proposizione più elementare consiste di un soggetto, che è la traduzione latina di ποκείμενον e come tale la sua re-interpretazione latina (perché sono re-interpretazioni non traduzioni) e di un predicato che enuncia le caratteristiche della cosa (quindi abbiamo il subjectum e poi di un predicato che dice che cos’è). Chi potrebbe mai pensare di porre in dubbio questi rapporti fondamentali fra cosa e proposizione? Fra costituzione della proposizione e costituzione della cosa? ma noi non possiamo fare a meno di chiederci se la costituzione della proposizione semplice (che è la connessione tra soggetto e predicato) è il rispecchiamento della costituzione della cosa? (cioè l’unione di sostanza e accidenti, è questa unione? Cioè rispecchia questa unione tra soggetto e il suo predicato? Perché è questa l’illusione, la fantasia, che nella proposizione la relazione tra soggetto e predicato sia come un rispecchiare un qualche cosa che c’è, che è lì) oppure è la costituzione della cosa così rappresentata e progettata in base alla struttura della proposizione (ché è diverso, un conto è se la proposizione rispecchia il dato di fatto altro se la proposizione è ciò che struttura questa relazione tra soggetto e predicato, cambia tutto, la domanda è questa: la proposizione è il rispecchiamento della costituzione della cosa, “cosa” qui è l’unione di sostanza e accidenti, cioè la proposizione rispecchia questa cosa soggetto/predicato, questa cosa, la rispecchia? La proposizione dice come sta la cosa, oppure si chiede Heidegger, la costituzione di questa cosa –soggetto/predicato – questa cosa dunque così rappresentata “è progettata in base alla struttura della proposizione”. Quindi viene progettata questa cosa, non è ciò che viene preso come normale soggetto/predicato, e quindi la proposizione che l’esprime rispecchia soltanto un dato di fatto, Heidegger si chiede se questa proposizione sia quella che costruisce questa relazione tra soggetto e predicato). Che cosa sembra più ovvio del fatto che l’uomo trasferisca nella cosa stessa la struttura della sua asserzione relativa alla cosa? (io affermo qualche cosa e immagino che questa mia affermazione stia dentro la cosa, cioè riveli ciò che sta dentro alla cosa, la sua essenza). Questo modo di pensare apparentemente critico ma in realtà avventato dovrebbe anzi tutto far vedere come sia possibile il trapasso dalla struttura della proposizione a quella della cosa, ancor prima che la cosa si sia in se stessa rivelata (che è quello che diceva prima “questo modo di pensare dovrebbe far vedere come sia possibile il trapasso dalla struttura della proposizione a quella della cosa” era il problema di Husserl : se tolgo tutto ciò che c’è tra me e la cosa – cioè la parola, il linguaggio - per Husserl si sarebbe arrivati direttamente alla cosa, la percezione trascendentale, ma se tolgo questo mezzo, questo medium allora non c’è più né la cosa né io, non c’è più niente. Dice Heidegger che occorrerebbe mostrare che cos’è questo mezzo, questo medio che consente di cogliere questo passaggio fra me e la cosa, fra la mia proposizione intorno alla cosa e la cosa, dice lui “ancor prima che la cosa si sia rivelata” cioè cosa mi garantisce che ciò che io dico di questa cosa corrisponde a questa cosa?). La questione se il primo e il normativo sia la costituzione della proposizione oppure quello della cosa, è tutt’oggi insoluta (cioè il problema se “il primo e il normativo” la prima proposizione che si dice di qualche cosa, la prima impressione, diciamola così, questa cosa che dico della cosa, dice della cosa o dice soltanto della proposizione? Vi rileggo “la questione se il primo e il normativo sia la costituzione della proposizione oppure quella della cosa”, parlando costruisco una proposizione o definisco la cosa? È perfino dubbio se il problema, posto in questi termini, perché questa è la chiave di tutto, “posto in questi termini” sia risolvibile. Basta porlo in altri termini, però posto in questi termini non è risolvibile). In ultima analisi né la struttura della proposizione offre la norma per la struttura della cosa (la struttura della proposizione il soggetto/predicato) né questa (la cosa) viene in quella semplicemente rispecchiata (quindi né la proposizione mi dice che cos’è la cosa né la cosa si rispecchia nella mia proposizione, cioè restano due cose distinte e tra un po’ dirà che occorre un medio fra le due cose perché si diano) L’una e l’altra derivano in sé e nel loro reciproco rapporto da una comune sorgente più originaria, comunque questa prima interpretazione della cosità della cosa, la cosa come portatrice delle sue caratteristiche non è così naturale come la sua accettazione abituale potrebbe far credere, ciò che ci si presenta come “naturale” non è che l’abituale di una lunga abitudine che ha dimenticato il disabituale da cui deriva, (“disabituale” sarebbe l’insolito, il δαίμων, l’inconsueto, l’inusuale) e tuttavia un giorno colto l’uomo di sorpresa come qualcosa di straordinario che ha riempito il pensiero di meraviglia (che cos’è l’abituale adesso? Pensare che ciò che io dico corrisponda alla cosa, cosa c’è di più banale? E invece occorre ripensare la cosa nei termini dell’antico pensatore, cioè di quello che si è trovato per la prima volta sorpreso dal fatto di dire qualcosa di qualche cosa e di vedere che cosa succede. Dopo tutto i presocratici Anassimandro, Anassimene eccetera erano un po’ in questo modo, il fatto di porre per esempio i quattro principi “aria, acqua, fuoco, terra” per noi sono una stupidaggine, una banalità, cosa che non è per altro, ma per loro c’era la novità non tanto del fuoco e dell’acqua ma il fatto di trovare un principio, questo era il sorprendente, il fatto che le cose potessero avere un principio, un principio da cui sorgono, è con questo che si sono trovati ad avere a che fare: da dove vengono le cose? Questione a tutt’oggi, come direbbe Heidegger, irrisolta) La fiducia nell’interpretazione abituale della cosa non ha che un fondamento apparente inoltre il concetto di cosa che essa introduce, la cosa come il supporto delle sue caratteristiche (dicevamo prima, la “cosa” come un qualche cosa appunto che fa da supporto di caratteristiche che non sono comunque la cosa, qualunque cosa dica di questo aggeggio, tutto ciò che dico non potrà che essere tutto ciò che questa cosa qui non è) non vale soltanto per mere cose, ma per ogni ente in genere, di conseguenza non è possibile stabilire sulla sua scorta una distinzione fra l’ente-cosa e l’ente-non-cosa anche il vivo soggiornare presso le cose, anteriore a ogni riflessione, basta ad avvertirci che questo concetto della cosa non coglie nella sua effettiva natura il carattere di cosa delle cose, ciò che vi è in esse di spontaneo e autonomo (ecco, lasciar cogliere, lasciare essere le cose, lasciarle apparire, lasciare l’λήθεια, lasciar essere, ciò che Heidegger chiama Gelassenheit, lasciar essere, che viene tradotto anche come “abbandono” ma non nel senso di lasciarle perdere, ma di abbandonarle lasciandole essere, abbandonarle cioè non volerle afferrare, manipolare, dominarle, in questo senso lasciarle essere) Dunque abbiamo a volte la sensazione che già da tempo si sia usata violenza al carattere di cosa della cosa e che il pensiero ne sia il responsabile, si rinnega allora il pensiero anziché sforzarsi di far sì che il pensiero diventi effettivamente pensante, (il modo in cui si intende la cosa oggi è un modo che esclude il pensare nel senso che la cosa non è più pensata, è data come un fatto acquisito, abituale appunto, ha perso il disabituale e il disabituale nella cosa è trovarsi di fronte a questo concetto di “cosa” con la stessa meraviglia, con lo stesso stupore del pensatore antico, del δαίμων). Forse ciò che in noi in questo caso e in altri chiamiamo sensazione e sentimento è più razionale cioè più penetrante perché più aperto all’essere di ogni ragione perché decaduta a ratio sia stata interpretata razionalmente (quindi ricordate le pagine sulla logica, la logica come fondamento della ratio) Il vagheggiamento dell’ir-razionale quale frutto abortivo del razionale non pensato porta quindi scarsi risultati. Il concetto abituale di “cosa” si confà certamente ad ogni cosa ma la sua capacità comprensiva anziché abbracciare l’essenza della cosa la sopraffà (poi si chiede “come è possibile evitare questa sopraffazione?” Ma questa sopraffazione è la volontà di potenza. È la volontà di potenza che ha costretto per così dire a tradurre ποκείμενον con subjectum, πόστασις con substantia eccetera per potere, esattamente, come veritas ha tradotto λήθεια, al fine di dominare la cosa, perché è questo l’obiettivo, dominare la cosa e che cosa c’è di più sfuggente della cosa? Per quanto ne dica, mi affanni, mi sforzi di circoscriverla con tutte le mie proposizioni immaginabili e inimmaginabili rimane sempre fuori portata perché per dire che cos’è questa cosa devo dire ciò che questa cosa non è, e quindi sono votato al fallimento. Dunque si chiede:) Come è possibile evitare questa sopraffazione? (cioè l’irruzione della volontà di potenza) Solo a patto che noi in un certo modo garantiamo alla cosa un campo libero in cui essa possa manifestare immediatamente il suo carattere di cosa (è ciò che indicavo prima come Gelassenheit, cioè il “lasciar essere”. Lasciar essere che non è lasciare che le cose vadano come devono andare ma il “lasciar essere” è esattamente il non volere trasformare la cosa che ho di fronte in un oggetto di dominio. È chiaro che la definisco, ma è il modo in cui io mi pongo nei confronti della cosa che è totalmente differente, o la voglio dominare, cioè sono travolto dalla volontà di potenza oppure lascio che la cosa appaia, ma come è la cosa? La cosa si disvela nel suo significato, cioè nel mio progetto che dà a questa cosa il suo significato, un progetto in cui mi trovo ogni volta gettato. Io colgo quella cosa, che per me è quella cosa, unicamente all’interno del progetto in cui quella cosa è così come mi appare. Questo è l’essere per Heidegger, cioè il significato autentico della cosa) A tal fine deve essere eliminata ogni sorta di concezione e di asserzione che possa frapporsi fra noi e la cosa. (l’asserzione, l’affermazione. L’affermazione dice questo “questo è questo” “questo è quest’altro”. Dice “eliminata ogni sorta di concezione e di asserzione”, questa è la condizione per lasciar essere “la cosa”, cioè perché io possa coglierla nel progetto e quindi accogliere il significato che mi viene da questa cosa nel momento in cui mi accorgo che è quella che è all’interno del mio progetto) Decidere di tradurre il greco ποκείμενον con substantia ovviamente non va senza implicazioni, si decide di tradurlo con “substantia” perché in questo modo si può garantire dell’esser cosa della cosa perché è sostenuta da qualcosa che sta sotto “sub stare” “stare sotto”, che è la stessa traduzione di ποκείμενον. Ciò che il greco antico pensava quando diceva la parola ποκείμενον, così come ciò che pensava quando pronunciava la parola λήθεια, non era per Heidegger ciò che pensiamo oggi noi dicendo “verità”, ma pensava un’altra cosa) Ma questo venire incontro immediato della cosa non abbisogna né di essere sollecitato, né di essere approntato, questo lo fa essere, avviene già da gran tempo, in ciò che la vista, l’udito, il tatto apportano nella sensazione dei colori, dei suoni, della ruvidezza, della durezza, le cose ci investono alla lettera nel nostro corpo, la cosa è l’ασθητν, ciò che attraverso la sensazione è percepito dai sensi della sensibilità (badate bene “ciò che attraverso la sensazione è percepito dai sensi della sensibilità” ma è la sensibilità a lasciar essere le cose, non è la sensibilità nel senso del tatto, di questo ne ha parlato prima, cioè dove dice “attraverso le sensazioni” che sono quelle del corpo “è percepito dai sensi, attraverso le sensazioni, della sensibilità”, è come questa sensibilità, questi sensi e quindi in definitiva questa percezione avessero come “garante” il lasciar essere la cosa, solo a questa condizione posso percepire la cosa. Qui siamo abbastanza lontani da Kant, non è più ovviamente l’atto puro che coglie il qualcosa, che poi questo qualcosa anche per Kant è un problema, l’atto puro coglie qualche cosa ma per cogliere qualche cosa occorre che ci sia un qualche cosa prima). Diviene così abituale considerare la cosa semplicemente come l’unità di un molteplice di dati sensibili (cioè le sue caratteristiche, le sue proprietà eccetera). Non cambia nulla in questa concezione il fatto che l’unità venga concepita come somma o come totalità o come forma, questa interpretazione della “cosità” della cosa è esatta – quella fisica diciamo – e con provabile non meno della precedente il che basta già a far dubitare della sua verità, se riflettiamo infatti con attenzione su ciò di cui andiamo alla ricerca anche questa soluzione ci lascerà perplessi, la sua pretesa infatti che nella manifestazione delle cose noi incominciamo con il percepire – critica Kant – innanzi tutto e propriamente un presentarsi di sensazioni, ad esempio, suoni e rumori, è priva di fondamento (tutta la Critica della ragion pura di Kant è fondata su qualcosa che non ha fondamento, l’atto puro percepisce che cosa, come? Di nuovo ci troviamo nella difficoltà di trovare il mezzo che consente a me, l’io puro, di compiere quell’atto puro che è la percezione della cosa in sé, non la coglierò mai però … qualche cosa percepisco ma che cosa? È la domanda che si faceva Heidegger, percepisco qualcosa sì, ma cosa?). Ciò che udiamo è la tempesta che sibila nel camino, il rombo del bimotore, la Mercedes dalla sua evidente diversità dalla Adler, ciò che ci è più vicino non sono le sensazioni ma le cose stesse (curioso che usi questo termine kantiano “le cose stesse”) in casa udiamo sbattere la porta e non udiamo mai sensazioni acustiche o anche solo semplici rumori, noi non udiamo il “rumore” udiamo sbattere la porta, (come dire che questo rumore incomincia come rumore ma non c’è, c’è quando diventa lo sbattere della porta, allora lo sbattere della porta è un rumore, è il discorso che faceva Derrida grosso modo) per potere udire un semplice rumore dobbiamo non udire le cose distogliere da loro il nostro orecchio cioè ascoltare astrattamente, non è questo che dobbiamo fare, il concetto di cosa che stiamo esaminando non consiste tanto in una sopraffazione della cosa quanto nel tentativo esagerato di portarcela vicina nella massima immediatezza (cos’è la massima immediatezza della cosa? Ciò che quella cosa è per me in questo momento all’interno del Dasein, perché solo in questo modo io la determino in quanto cosa) Ma la cosa continuerà a sfuggirci finché ci chiuderemo nel tentativo di risolvere il suo carattere di cosa in ciò che è percepito dalle sensazioni (la fisica continua a fare i suoi giochi con i calcoli ma la questione in quanto tale continuerà a sfuggirgli per sempre) mentre le prime interpretazioni della cosa in un certo modo ce l’allontana troppo rendendocela totalmente estranea, la seconda la rende troppo incombente e incalzante nell’un caso come nell’altro la cosa /…/ è quindi opportuno evitare ambedue gli eccessi, occorre far sì che la cosa riposi in sé stessa e si faccia innanzi nel suo riposare in se stessa, Gelassenheit, lasciare essere, è ciò che sembra fare la terza interpretazione che è vecchia quanto le precedenti. Ciò che installa la “cosa” nella sua persistenza e nel suo nocciolo, e a un tempo determina la modalità della sua presentazione sensibile “colore” “suono” “durezza” eccetera, è l’elemento materiale della cosa. In questa determinazione della cosa come materia, λη, è già compresa anche la forma μορφή, l’elemento costitutivo della cosa, la sua consistenza sta nell’unione di una materia con una forma, la cosa è materia formata. Questa interpretazione della cosa si rifà all’immediatezza visiva, attraverso cui la cosa ci si presenta nel suo aspetto l’εδος. Con la sintesi di materia e forma è finalmente trovato un concetto di “cosa” ugualmente valido per le cose di natura e per quelle d’uso.