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24 giugno 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Hegel sta dicendo che l’essere è nulla, ed è nulla perché in quanto tale non ha ancora nessuna determinazione; occorre la riflessione, certo, ma questa riflessione che cos’è? Ciò che non è essere, ma che cosa non è essere? Il non essere, ovviamente. Quindi, questo nulla che è l’essere riflette su di sé un altro nulla: rimane nulla. Ma lo stesso discorso potremmo farlo anche relativamente alla nozione di segno in de Saussure: il significante senza significato è nulla. Il significato non è altro che ciò che il significante non è, ma è un’infinità di cose, è indeterminabile in quanto tale, potremmo dire che è nulla in quanto non determinabile. Quindi, il significante, che è nulla, riflette su di sé il significato, che a sua volta è nulla, e rimane nulla. Questo pone un quesito: quando parlo, che cosa dico?

Intervento: La cosa interessante è che nulla compie il movimento dialettico con nulla perché il nulla è tutto…

Sì, perché l’essere integra ciò che l’essere non è, quindi, tutto il resto. Questo, naturalmente, ha degli effetti immediati quando si parla, e cioè la necessità di inseguire una determinazione di qualche cosa che non arriverà mai. Ogni determinazione rinvierà a un’altra determinazione, e questa a un’altra determinazione, per arginare questo nulla di cui è fatto ciò che dico. Da qui il superpotenziamento di Nietzsche, questa rincorsa continua a volere, anziché dire nulla, dire qualcosa. Sì, ma questo qualcosa è inarrivabile. E, allora, verrebbe da pensare che in effetti gli umani parlano per inseguire questa determinazione che non ci sarà mai, ininterrottamente, senza soluzione di continuità. È interessante se si considera il motivo per cui gli umani parlano, ché potrebbe a questo punto intendersi a questo modo, e cioè parlano per riuscire a determinare questo nulla; un nulla che, riflettendosi su di sé diventa consapevole di sé – l’autocoscienza di cui parlava Hegel -, ma è cosciente di che cosa? Del nulla che sta dicendo. Questa sera accenno solo alla questione, ci sarà un lavoro da fare, ma il sapere assoluto di cui parla Hegel, a cui occorre giungere, potrebbe benissimo essere questo: il sapere che sto dicendo nulla, comunque, sempre.

Intervento: …

È il problema che incontrò Heidegger. Di fronte ad alcune parole fondamentali come ad es. essere, come definiamo questo essere? Come lo descriviamo? In che modo? Questo essere che già per Hegel è il nulla, ma anche per Heidegger, che ha seguito tantissimo il discorso di Hegel. Heidegger si accorge che la parola “essere” è una parola posta dalla metafisica, dal discorso metafisico, e diceva che il tentativo di uscire dalla metafisica continua a utilizzare le parole della metafisica, e questo perché non ne abbiamo altre. E, allora, è ricorso a scrivere Seyn anziché Sein, oppure barrando la parola Sein. Ma non è certo così che si risolve la questione. Però, si rese conto che parole che utilizziamo, nel suo caso per uscire dalla metafisica, sono le parole della metafisica. Il che comporta un problema, naturalmente, perché fin che si usano le stesse parole, inesorabilmente si usano gli stessi modelli, gli stessi schemi. Le pagine che stiamo per leggere sono importanti. Qui c’è una sorta di captatio benevolentiae di Hegel, che possiamo leggere. A pag. 649. Questa parte della logica, che contiene la dottrina del concetto e costituisce la terza parte dell’intiero, vien pubblicata anche sotto il titolo particolare di Sistema della logica soggettiva, e ciò per comodo di quegli amici di questa scienza, che sono avvezzi a prender maggior interesse per le materie qui trattate, comprese nell’ambito di quella che comunemente è detta logica, che non per quegli altri argomenti logici che vennero trattati nelle due prime parti. Per coteste parti precedenti io potevo fare appello all’indulgenza di giudici benevoli a cagione dei pochi lavori esistenti, che mi avessero potuto fornire un appoggio, dei materiali e un filo conduttore. Quanto alla parte qui presente posso piuttosto ricorrere a tale indulgenza per la ragione opposta, perché per la logica del concetto si ha un materiale completamente pronto e fissato, un materiale, si può dire, ossificato, e il compito consiste qui nel renderlo fluido e nel riaccendere il vivente concetto in cotesta materia morta. A pag. 651, Del concetto in generale. Non è più facile indicare immediatamente in che consista la natura del concetto, di quanto non sia stabilire immediatamente il concetto di un altro oggetto qualsiasi. È più facile pensare al concetto di qualche cosa che al concetto in quanto tale. Potrebbe per avventura sembrare che per assegnare il concetto di un oggetto si presupponga l’elemento logico, e che questo quindi non possa a sua volta esser preceduto da qualcos’altro, né essere un derivato, come in geometria le proposizioni logiche, quali appariscono applicate alla grandezza e sono adoprate in questa scienza, vengon premesse in forma di assiomi, cioè di determinazioni della conoscenza non derivate e non derivabili. Come dire che è così e tanto basta. Sebbene ora il concetto sia da riguardare non solo come una presupposizione soggettiva, ma come base assoluta, pur nondimeno esso non può essere questo se non in quanto si sia fatto base di per se stesso. Si chiede: queste nozioni fondamentali si sono fatte base per se stesse, ma come è avvenuto questo fenomeno? L’astrattamente immediato è bensì un Primo; ma come questo astratto però è anzi un mediato, del quale pertanto, quando s’abbia a intendere nella sua verità, bisognerà prima cercare la base. Questa deve quindi esser certamente un immediato, ma tale che si sia fatto immediato col toglier via la mediazione. Un immediato comunque è tale perché ha tolto la mediazione, perché ha tolto il mediato, che quindi c’è. Da questo lato il concetto dev’essere anzitutto riguardato in generale come il terzo rispetto all’essere e all’essenza, rispetto all’immediato e alla riflessione. Essere ed essenza son pertanto i momenti del suo divenire, ed esso è la lor base e verità, come l’identità in cui quelli son tramontati e contenuti. Quei momenti son contenuti nel concetto, perché questo è il loro risultato, ma non vi son più contenuti come essere e come essenza, questa determinazione non l’hanno che in quanto non sono ancora rientrati in questa loro unità. Possiamo parlare di essenza e di essere in quanto questi due momenti non sono ancora entrati nella loro unità. Una volta che sono entrati nella loro unità sono una relazione, non sono più essere e essenza. A pag. 652. La sostanza è l’assoluto, il reale in sé e per sé, - in sé, come semplice identità della possibilità e della realtà, come essenza assoluta che contiene in sé ogni realtà e possibilità,… L’in sé è ciò che ancora non è per sé e, quindi, è qualcosa che è in attesa di diventare quello che è. Così come l’essere, quando parlava dell’essere e dell’essenza: l’essere di per sé è nulla finché l’essenza non ci dice che cosa veramente è l’essere, cioè, qual è la sua essenza.  …- per sé, in quanto è questa identità come potenza assoluta, o negatività riferentesi assolutamente a sé. – Il movimento della sostanzialità, che è posto mediante questi momenti, consiste: 1. In ciò che la sostanza come potenza assoluta ossia negatività riferentesi a sé si distingue fino a diventare un rapporto, dove quelli che sulle prime non son che semplici momenti stanno come sostanze e come presupposizioni originarie. … 2. L’altro momento è l’esser per sé, ossia consiste in ciò che la potenza si pone negatività che si riferisce a se stessa, col che torna a togliere il presupposto. – La sostanza attiva è la causa; essa agisce, vale a dire è ora il porre, come dianzi era il presupporre… Questo quando la sostanza si riferisce a se, cioè, quando i due momenti diventano una relazione, e cessano di essere due momenti. A pag. 654. Fu già innanzi menzionato nel libro secondo della logica oggettiva, …, che la filosofia che si colloca nel punto di vista della sostanza e vi si tien ferma, è il sistema di Spinoza. Leggiamo solo questo perché quello che ci interessa è ciò che dice intorno alla confutazione. In quel medesimo luogo fu anche indicato il difetto di questo sistema sia riguardo alla forma, sia riguardo alla materia. Ma altra cosa è la sua confutazione. Per ciò che si riferisce alla confutazione di un sistema filosofico è stata fatta parimenti altrove l’osservazione generale che bisogna sbandirne la rappresentazione storta, come se il sistema si dovesse mostrare interamente falso, e come se il sistema vero non avesse ad essere che l’opposto del falso. Questo è il concetto generale di confutazione: se una cosa è vera, quell’altra che si oppone è falsa (tertium non datur). Dalla connessione in cui si presenta qui il sistema spinozistico sorge di per sé la sua vera piattaforma, nonché quella della domanda se quel sistema sia vero, oppur falso. Il rapporto di sostanzialità si generò per la natura dell’essenza. Questo rapporto, come pure l’esposizione sua in un sistema, ampliata fino a diventare un tutto, è quindi una posizione necessaria, in cui l’assoluto si colloca. Un tal punto di vista non si deve pertanto riguardare come un’opinione, una soggettiva, arbitraria maniera d’immaginare e pensare propria di un individuo, quasi un’aberrazione della speculazione; anzi, la speculazione, nel percorrer la sua via, s’imbatte necessariamente in quel punto di vista, epperò il sistema è perfettamente vero. Ma non è il punto di vista più alto. Questa è la confutazione di Hegel: non si tratta di vedere se uno è vero e l’altro è falso, ma di collocarsi sul punto di vista più alto, che vede entrambi e si accorge che l’uno è la controparte dell’altro. Se non che perciò non il sistema può esser riguardato come falso, come bisognoso e capace di confutazione, sibbene soltanto questo è da ritener costì come il falso, che cioè quel sistema costituisca il più alto punto di vista. Cioè: prenderne uno ed eliminare l’altro. Quindi è che il sistema vero non può nemmeno avere verso di quello il rapporto di essergli soltanto opposto; perché così questo opposto sarebbe esso stesso un che di unilaterale. Anzi essendo il superiore, deve contenere in sé il subordinato. La confutazione non deve inoltre venir dal di fuori, ossia non deve partire da supposizioni che stan fuori di quel sistema e a cui esso non corrisponde. Non v’è che da non ammettere quelle supposizioni; il difetto è un difetto soltanto per colui che muove dai bisogni e dalle esigenze fondate su quelle. Quindi, la confutazione, per essere tale, deve partire unicamente da ciò che quelle proposizioni affermano, senza utilizzare nulla che venga dal di fuori di quelle affermazioni. A pag. 657. Da ciò risulta subito per il concetto la seguente più precisa determinazione. Siccome l’essere in sé e per sé è immediatamente come esser posto, il concetto, nella sua semplice relazione a se stesso, è assoluta determinatezza,… Si determina in quanto si riflette su se stesso. …determinatezza però che come riferentesi soltanto a sé, è anche immediatamente semplice identità. Cioè: si riferisce a se stesso e, quindi, è identico con sé. Ma questa relazione della determinatezza a se stessa, essendo il suo fondersi con sé, è in pari tempo la negazione della determinatezza, e il concetto è, come questa eguaglianza con sé, l’universale. Questa relazione della determinatezza con sé, da una parte, pone la questione dell’identità, cioè riflette su di sé e si pone in quanto determinato essere in sé. Ma dice in pari tempo la negazione della determinatezza, e il concetto è, come questa eguaglianza con sé, l’universale. Perché? Perché la determinatezza si nega: qualunque cosa che venga posta – ricordatelo sempre – in Hegel nel momento in cui si pone si toglie. Quindi, questa determinatezza, l’essere identico con sé, si toglie, e che cosa rimane? L’universale, perché ha tolto la determinatezza. Ma questa identità ha insieme la determinazione della negatività; è la negazione o determinatezza che si riferisce a sé, e così il concetto è un singolo. Di nuovo: è un singolo ed è universale. Ciascuno di quelli è la totalità, ciascuno contiene in sé la determinazione dell’altro, epperò queste totalità non sono in pari tempo che una sola, come questa unità è il suo proprio dirimersi nella libera parvenza di questa dualità,… È un’unità; tuttavia, rimane una dualità perché i due momenti sono sempre distinti, non separati né separabili ma distinti. …dualità la quale appare nella differenza del singolo e dell’universale come perfetta opposizione, opposizione però che è talmente parvenza, che, in quanto vien concepito ed enunciato l’uno, in ciò è immediatamente concepito ed enunciato l’altro. A pag. 658. Recentemente ci si poté credere tanto più dispensati dall’affaticarsi intorno al concetto, in quanto che, come fu di moda durante un certo tempo di dire ogni male possibile dell’immaginazione e poi della memoria, è da un pezzo diventata un’abitudine in filosofia (e in parte è ancora) di accumulare ogni mala diceria sul concetto, di render spregevole questo, che è il sommo fastigio del penare, di riguardare all’incontro come la più alta cima, tanto scientifica quanto morale, l’incomprensibile e il non comprendere. Se vi ricordate la posizione del pensiero negli anni ’60-’70, anche ’80, questa posizione era all’apice della sua popolarità: l’incomprensibile, l’indicibile, l’ineffabile. Ora, tutto questo è un retaggio di Kant e, infatti, adesso lo cita. Mi limito qui a un’osservazione che può giovare a intendere i concetti qui sviluppati e rendere più facile di ritrovarcisi. Il concetto, in quanto è arrivato ad un’esistenza tale, che è appunto libera, non è altro che l’Io, ossia la pura coscienza di sé. Io ho bensì dei concetti, vale a dire dei concetti determinati; ma l’Io è il puro concetto stesso che è giunto come concetto dell’esserci. Se quindi si rammentino le determinazioni fondamentali che costituiscono la natura dell’Io… L’essere e l’essenza, naturalmente. …è lecito supporre che si rammenti qualcosa di conosciuto, vale a dire qualcosa con cui la rappresentazione abbia familiarità. Ma l’Io è questa anzitutto pura unità riferentesi a sé, e ciò non già immediatamente, sibbene in quanto esso astrae da ogni determinatezza e contenuto e torna nella libertà dell’illimitata eguaglianza con se stesso. Così l’Io è universalità; unità, la quale solo per quel contegno negativo, che apparisce come l’astrarre, è unità con sé, e così contiene risoluto in sé ogni esser determinato. In secondo luogo l’Io come negatività riferentesi a se stessa è altrettanto immediatamente singolarità, assoluto esser determinato, che si contrappone ad altro e lo esclude, personalità individuale. Quest’assoluta universalità, che è altrettanto immediatamente assoluta individuazione ed un essere in sé e per sé, che è assolutamente un esser posto ed è solo questo essere in sé e per sé per mezzo dell’unità coll’esser posto, costituisce tanto la natura dell’Io quanto quella del concetto. Cioè: il fatto di esser posto ed essendo posto si mostra, come qualunque cosa che venga posta, quindi tolta, tanto come universalità quanto come individualità. Né dell’uno né dell’altro si può comprendere nulla, se non s’intendano cotesti due momenti insieme nella loro astrazione e insieme nella loro perfetta unità. Questo secondo la maniera ordinaria si parla dell’intelletto che Io ho, s’intende con ciò una facoltà o proprietà, che stia verso l’Io in quel rapporto in cui sta la proprietà della cosa verso la cosa stessa, - cioè verso un substrato indeterminato, che non sia il vero fondamento e il determinante della sua proprietà. Secondo questa rappresentazione Io ho dei concetti ed ho il concetto, come ho anche una veste, un colore, ed altre proprietà estrinseche. Saltiamo una parte in cui fa una critica a Kant, ma a pag. 660 continua a parlare di Kant. Il concepire un oggetto non consiste infatti in altro, se non in ciò che l’Io si appropria, lo penetra, e lo porta nella sua propria forma, vale a dire nell’universalità che è immediatamente determinatezza, o nella determinatezza che è immediatamente universalità. Cosa che già era sfuggita a Kant. Nella intuizione, o anche nella rappresentazione, l’oggetto è ancora un che di esteriore, di estraneo. Se io ho una rappresentazione, questa rappresentazione non è me. Mediante il concepire, quell’essere in sé e per sé, che l’oggetto ha nell’intuire e nel rappresentare, vien trasformato in un esser posto; l’Io penetra l’oggetto pensandolo. Ma come l’oggetto è nel pensare, soltanto così esso è in sé e per sé; com’è nell’intuizione o nella rappresentazione, l’oggetto è apparenza o fenomeno; il pensiero toglie via l’immediatezza dell’oggetto, colla quale esso dapprima ci vien dinanzi, e ne fa così un esser posto, ma questo suo esser posto il suo essere in sé e per sé, ovvero la sua oggettività. Quest’oggettività l’oggetto l’ha pertanto nel concetto, e questo è l’unità della coscienza di sé, nella quale l’oggetto è stato accolto. L’oggettività sua, ossia il concetto, non è quindi appunto altro che la natura della coscienza di sé, non ha altri momenti o determinazioni che l’Io stesso. Hegel sapeva benissimo che le cose esistono: per es. la penna con cui stava scrivendo questo libro, l’inchiostro nel quale la intingeva, la carta sulla quale scriveva, il tavolo su cui si appoggiava. Tutte queste cose esistono, ma ciò che ci sta dicendo qui non è che le cose non esistano, esistono, certo, ma esistono in quanto esiste il concetto, potremmo dire: in quanto esiste il linguaggio. È attraverso il linguaggio che tutte queste cose che vedo, di cui parlo, ecc., hanno la possibilità di esistere, nel senso che tutto ciò che io posso dire che esiste posso farlo per via del concetto, che non è niente altro che la relazione tra essere ed essenza, e cioè tra significante e significato, e cioè ancora nel fatto che parlando c’è una distanza, un’apertura tra il dire e il detto, che non esiste senza linguaggio. È questa distanza che è ciò che consente a qualcosa di apparire, sennò non appare niente. Per un bruco non c’è la penna, l’inchiostro, la carta, non ci sono queste cose, perché senza il linguaggio non vedo, e non vedo perché non so che c’è qualcosa da vedere, per cui non vedo, semplicemente. Si dice che l’animale vede le cose, è ovvio, ma noi attribuiamo questo vedere a ciò che per noi è vedere, cosa che non esiste in un animale. Ha delle reazioni, certo, anche una lampada reagisce, se cade per terra si spacca, ma non è ovviamente questa la questione che sta ponendo Hegel, quanto il fatto che l’oggetto non c’è senza il concetto, non c’è senza questa relazione tra l’essere e l’essenza, tra questo andare e tornare. A pag. 663. Ora bisogna ad ogni modo concedere che il concetto come tale non è ancora completo, ma si deve elevare nell’idea… L’idea per Hegel era il massimo della pensabilità di qualche cosa; c’è l’intelletto, la ragione, il concetto, l‘idea, che è l’assoluto o, a questo punto, come dicevo prima, potremmo anche dire: la consapevolezza del nulla, che è ciò che sto dicendo, il non potere non sapere che parlando dico nulla, e continuerò a dire nulla, più parlo e più dico nulla. …che sola è ‘unità del concetto e della realtà, come in seguito dovrà risultare dall’analisi della natura del concetto. Poiché la realtà, che il concetto si dà,… Il concetto si dà la realtà, non la trova. Se non si desse questa realtà, non la troverebbe da nessuna parte. …non si può prendere come un che di estrinseco,… Ci sta dicendo che la realtà non può prendersi come una cosa estrinseca. …sibbene deve scientificamente dedursi dal concetto stesso. Quindi, la realtà è qualcosa che si deduce dal concetto. Ma non è veramente quella materia data dall’intuizione e dalla rappresentazione, che può contro il concetto esser fatta valere come il reale. “È soltanto un concetto”, si suol dire, contrapponendo non solo l’idea, ma l’esistere sensibile, palpabile nello spazio e nel tempo, come qualcosa di maggior pregio che non il concetto. Come quando si dice “veniamo alle cose concrete, reali, palpabili, che si toccano con mano”, ma non si ha la più pallida idea di cosa si stia toccando con mano, al di là del fatto che non sappiamo neppure se stiamo toccando oppure no, è quello che noi pensiamo. L’astratto viene allora tenuto per più povero che non il concreto… Naturalmente, qui occorre tenere conto di che cosa intenda Hegel per astratto e per concreto. Per questo ci viene in soccorso Severino. Lui fa questo esempio della proposizione “Questa lampada che è sul tavolo”. “Questa lampada che è sul tavolo” è il concreto, è ciò con cui ho a che fare. Nel momento in cui, però, incomincio a guardare la lampada la astraggo da questo concreto, da questo tutto, perché la lampada che è sul tavolo è, sì, la lampada che è sul tavolo, ma ci sono anch’io, ci siete voi, c’è tutto quanto, non c’è solo “questa lampada che è sul tavolo”, questa proposizione include il tutto, in cui c’è questa lampada che è sul tavolo. Per considerare questa lampada la prendo in mano e la guardo, vedo com’è fatta, quanto pesa, ecc. allora la astraggo, la tiro via dal concerto, lo devo fare, non posso non farlo se voglio prenderla in considerazione. La questione è che, astratta dal concreto, non posso che inserirla in un altro concreto, cioè, usando una parola che c’entra poco con Hegel, in un’altra scena o, come direbbe Heidegger, in un altro mondo. Chiaramente, deve essere inserita in un mondo perché sia qualche cosa, ché la singola astrazione, se non fosse inserita in un mondo, in una scena, in un tutto, sarebbe niente, sarebbe come quel significante che non ha significato. Quindi, perché sia qualche cosa deve essere nel mondo, deve essere nel concreto, dal quale tuttavia non posso non astrarla se voglio prenderla in considerazione. La astraggo, certo, ma la inserisco in un altro concreto, e in questo caso sono io che voglio sapere quanto pesa questa lampada, di che cosa è fatta ecc.

Intervento: …

La questione è complessa. Quando si incomincia a parlare di neuroni si va in questioni che, in effetti, rischiano di arenarsi, perché quello che fanno le neuroscienze, e cioè cercare all’interno del movimento dei neuroni la ragione dell’intelligenza, rischia di andare sempre più a fondo nel senso che il neurone, sì, certo, ma quale aspetto del neurone? Il neurone è fatto di una serie di altre cose, queste altre cose concorrono, e dove ci fermiamo?

Intervento: …

Esatto. Quindi, dobbiamo giungere a considerare che l’intelligenza dell’uomo risiede nello spin degli elettroni, e poi all’infinito, per cui non riusciremo mai a determinare dove sta in realtà questa intelligenza; perché questa operazione a un certo punto perde anche di senso.

Intervento: …

È un movimento dialettico, come direbbe Hegel, dove ciascun elemento di fatto è un intero, come ciascun altro, ma c’è una relazione che connette questi elementi.

Intervento: …

Che parte da ciò che si pensa sia il neurone, perché non può che partire da lì, da ciò che si crede che sia.

Intervento: L’intelligenza che interroga se stessa cercandosi in un oggetto è proprio la struttura religiosa di cui parla Hegel: separare e tenere separati…

A pag. 663. Secondo quest’opinione l’astrarre ha il significato che dal concreto si tiri fuori, solo per il nostro vantaggio soggettivo, questa o quest’altra nota, in modo che col tralasciare tante altre proprietà e qualità dell’oggetto non si faccia loro perder nulla del lor valore e del lor merito, ma si lascino anzi sempre come un che di pienamente valevole, in quanto sono il reale, benché di là, da quell’altra parte. Comunque queste cose, che non si colgono, sono reali. In questo modo sarebbe soltanto un’impotenza dell’intelletto di non saper raccogliere una tal ricchezza e doversi contentare di una povera astrazione. A pag. 664. Il pensare astrattivo non si deve quindi riguardare come un semplice scartare la materia sensibile, la quale non soffrirebbe con ciò alcun pregiudizio nella sua realtà, ma è anzi il togliere e il ridurre quella materia, come semplice fenomeno, all’essenziale, essenziale che si manifesta soltanto nel concetto. Se certamente deve servire solo come nota o contrassegno quello che del fenomeno concreto è da raccoglier nel concetto, può ad ogni modo esser anche una certa singola semplicemente sensibile determinazione dell’oggetto, quella che a cagione di un certo interesse estrinseco viene scelta di fra le altre ed è della medesima specie e natura che le rimanenti. Un errore capitale, che regna qui, è di credere che il principio naturale ossia il cominciamento, da cui si prendono le mosse nello sviluppo naturale o nella storia dell’individuo che si sta formando, sia il vero e quello che nel concetto è il primo. L’idea di partire da qualcosa che è naturale: questa cosa è la natura, è così. L’intuizione e l’essere son bensì secondo la natura il primo ovvero la condizione per il concetto, ma non per questo sono l’in sé e per sé incondizionato; nel concetto si toglie anzi la realtà loro, e con ciò insieme quell’apparenza che avevano come di un reale condizionante. Questa cosa che io immagino essere il primo, ciò da cui si parte, la realtà, quello che la fisica cerca… Dice Hegel che questo primo da cui si incomincia, intanto è già il secondo perché è già comunque mediato, e poi quella cosa che si crede di trovare è qualche cosa che è già nel concetto; se non fosse nel concetto o, più propriamente, se non fosse già nel linguaggio, non ci sarebbe niente da trovare perché non esisterebbe nulla. A pag. 666. Si è riportato dianzi dalla deduzione kantiana delle categorie, che secondo essa deduzione l’oggetto, come quello in cui viene ad essere unito il molteplice dell’intuizione,… L’intuizione raggruppa tutte le determinazioni e compone l’oggetto. …è questa unità solo a cagione dell’unità della coscienza di sé. Questo è Kant. L’oggettività del pensare è dunque pronunciata qui determinatamente, una identità del concetto e della cosa, identità che è la verità. Questa è la nozione, peraltro greca, ρθτης, adæquatio rei et intellectus, l’adeguamento del pensiero alla cosa. Esempio banale: la proposizione che afferma che Cesare è di fronte a me è vera perché Cesare è di fronte a me. O il famoso enunciato di Tarski che diceva: ‘la neve è bianca’ se e soltanto se la neve è bianca; solo che la prima è tra virgolette, quindi, non è il dato di fatto ma il nome dell’enunciato. In pari maniera viene anche comunemente ammesso che, in quanto il pensiero si appropria un oggetto dato, questo subisca con ciò un mutamento e di oggetto sensibile che era venga ridotto ad essere un oggetto pensato… Questo è sempre Kant. …(intendendo che questo mutamento però non solo non alteri nulla nell’essenzialità sua, ma che anzi l’oggetto solo nel suo concetto sia nella sua verità, mentre nell’immediatezza in cui è dato è soltanto fenomeno e accidentalità)… La cosa in sé che resta lì, io posso pensare tutto quello che voglio, ma la cosa in sé rimane lì e noi non possiamo coglierla. …si ammette infine che quella conoscenza dell’oggetto, che lo concepisce o comprende, sia la conoscenza di esso così com’è in sé e per sé, e che il concetto sia la sua oggettività stessa. D’altra parte però si torna daccapo ad affermare che noi non possiamo pur conoscere le cose, come siano in sé e per sé, e che la verità è impenetrabile alla ragione conoscitiva; che quella verità che consiste nell’unità dell’oggetto e del concetto è pur soltanto apparenza, e precisamente ora daccapo per questo motivo, che il contenuto non è che il molteplice dell’intuizione. Aggiungiamo noi: non la cosa, ma è la mia intuizione. Quindi, c’è sempre questa distanza in Kant e, in effetti, è la critica che fa Hegel a Kant di avere posto, sì, la questione in modo interessante ma di non avere inteso che ciò che lui chiama l’essere in sé, cioè la cosa della quale non si ha accesso, non è altro che il negativo di qualche altra cosa, è il contrapposto. Io vedo una certa cosa, c’è la mia intuizione, la mia rappresentazione, ma la cosa in sé non la vedo, mi sfugge, perché ciò con cui ho a che fare è soltanto la mia rappresentazione, la cosa non la colgo. Invece, per Hegel non è propriamente così perché ciò che io vedo non è nient’altro che un qualche cosa che ha un suo negativo: questa mia idea, questa mia rappresentazione è un suo negativo. Il negativo che cos’è? Quello che per Kant è la cosa in sé. Quindi, Hegel pone la cosa in sé all’interno della dialettica, non più come una maledizione che accade agli umani di non potere, di non avere la capacità, la possibilità di conoscere l’essenza delle cose, perché per Hegel l’essenza non è altro che il ritornare su di sé della cosa in sé. A pag. 667. Il punto di vista attuale, cui questo sviluppo ha condotto, è quella forma dell’assoluto, che sta al di sopra dell’essere e dell’essenza, è il concetto. Cioè: la relazione. Come dire che la cosa in sé kantiana non è al di fuori della relazione. Mentre da questo lato il concetto si è sottomesso l’essere e l’essenza /…/ e si è mostrato come la loro incondizionata ragion d’essere… Badate bene, qui dice una cosa importante, e cioè il concetto, la relazione, è la ragion d’essere dell’essere e dell’essenza, non è qualcosa che si aggiunge dopo. Senza il concetto, senza la relazione, non c’è né essere né essenza. …rimane adesso ancora il secondo lato, alla cui trattazione è dedicato questo terzo libro della logica… Venne quindi ad ogni modo concesso che quella conoscenza che resta solo al concetto preso puramente come tale, è ancora incompiuta e non è arrivata che alla verità astratta. Ma la sua incompiutezza non sta in ciò ch’essa manchi di quella presunta realtà che sarebbe data nel sentimento e nell’intuizione; sibbene in ciò che il concetto non si è ancora data la sua propria realtà generata da lui stesso. È lui che genera la sua realtà e, di conseguenza, la realtà in toto. La dimostrata assolutezza del concetto contro la materia e nella materia empirica, e più precisamente nelle sue categorie e determinazioni riflessive, consiste appunto in ciò che cotesta materia non abbia verità così come apparisce fuori e prima del concetto, ma l’abbia soltanto nella sua idealità o nella sua identità col concetto. Qui insiste sulla questione. La derivazione del reale dal concetto, … Generalmente si pensa il contrario: c’è la realtà e poi mi faccio la mia idea. No, sta dicendo Hegel, è esattamente il contrario: questa realtà, ciò che io chiamo realtà, è qualcosa che derivo dal concetto, non c’è prima. La derivazione del reale dal concetto, se derivazione si vuol chiamare, consiste anzitutto essenzialmente in questo, che il concetto nella sua astrazione formale si mostra come incompiuto, e per mezzo della dialettica fondata in lui stesso passa alla realtà in maniera tale che la genera da sé, ma non che il concetto ricada nuovamente in una realtà già data la quale si trovi di contro a lui, e ricorra a qualcosa che si era palesato come l’inessenziale del fenomeno, quasi dopo aver cercato intorno a sé qualcosa di meglio e non averlo trovato. Qui c’è una questione importante da prendere in considerazione. Dice passa alla realtà in maniera tale che la genera da sé, ma non che il concetto ricada nuovamente in una realtà già data. Sta dicendo che questa realtà non ha nessun’altra garanzia se non il concetto, cioè, non esiste, non c’è fuori del concetto. Pensarla fuori dal concetto, questo è il pensiero religioso, cioè, pensare che esista l’immanente, il trascendente e tenerli ben separati, in modo che sia possibile pensare un dio, per es. Hegel dice: il concetto nella sua astrazione formale si mostra come incompiuto, cioè il concetto è in attesa di qualche altra cosa che lo completi. Prima vi facevo l’esempio banale del dire e del detto: sto dicendo qualcosa e questo mio dire è come se attendesse qualcosa che renda il mio dire compiuto; dovrebbe essere il detto, ma questo detto, in effetti, non è che un altro rinvio. La realtà per Hegel è ciò che il concetto genera a causa della sua incompletezza, incompletezza perché il concetto è fatto di essere ed essenza; è una relazione, e una relazione non è compiuta se i due momenti della relazione non sono presenti simultaneamente. Quindi, crea questa realtà allo scopo, per dirla in modo un po’ rozzo, di completarsi, e allora crea qualche cosa, crea la realtà, crea una sorta di garanzia.

Intervento: …

Non è che genera una, due o tre realtà. Genera il concetto stesso, l’idea di realtà, la possibilità stessa che esista quella cosa che noi chiamiamo realtà.

Intervento: …

Crea entrambi simultaneamente (discorso universale e individuale). Come abbiamo visto, l’individuale, il singolare, e l’universale sono due momenti dello stesso; quindi, non c’è un universale che non sia anche singolare, e non c’è nessun singolare che non si rivolga all’universale, che non contenga in sé l’universale.

Intervento: …

A una sola condizione: che si tratti di parlanti, cioè, di persone che costruiscono concetti. Non importa quale, ma se sono parlanti allora costruiscono concetti, cioè si trovano presi in questo movimento dialettico del linguaggio. Hegel sta descrivendo ciò che accade parlando, ciò che accade quando si pensa qualche cosa, non importa che cosa, ma se si pensa si pensa così. Non si può pensare se non attraverso il linguaggio, e il linguaggio funziona in questa maniera: dico qualche cosa, questo qualche cosa si sposta su qualche cos’altro, che dovrebbe essere la sua garanzia e questa garanzia, a sua volta, ha bisogno di un’altra garanzia, e così via all’infinito. Questa cosa riguarda chiunque parli, non è solo Cesare che fa questa operazione, ma sono tutti: se parlano fanno questo. Vi leggo una nota di Moni a pag. 668. Il concetto, in quanto afferra se stesso, si afferra appunto come ragion d’essere della realtà. Il concetto che sa di essere concetto. A questo punto incomincia la possibilità di pensare la realtà, non che esista la realtà ma di pensarla. Non si dà dunque più per lui una realtà che sia generata da lui. Se si desse ancora, sarebbe segno che il concetto avrebbe afferrato non già se stesso, ma soltanto la sua falsa immagine, cioè il concetto astratto. Il concetto cava da sé appunto anche quella forma generale della realtà, per la quale questa appare come non generata dal concetto, ma come preesistente a lui e indipendente da lui. Con ciò esso ha compreso in sé il suo altro, in maniera che questo non può più risorgere come immediato e fuori del concetto.