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23 aprile 2025

 

Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo

 

C’è una questione molto interessante che Beierwaltes pone, più o meno direttamente. Potremmo riassumerla in una domanda: come è accaduto e perché è accaduto che si sia abbandonato definitivamente il pensiero teoretico e al suo posto sia intervenuta l’estasi mistica, che non ha più abbandonato gli umani, che a tutt’oggi sono ancora preda dell’estasi mistica? Il pensiero teoretico è stato abbandonato dopo Aristotele, come sappiamo, a vantaggio del platonismo; anche se Aristotele è stato un allievo di Platone, però aveva una posizione totalmente differente. Beierwaltes in questo primo capitolo muove proprio queste considerazioni a partire da una questione antica, quella della felicità; la felicità come obiettivo al quale gli umani tendono, il loro télos, l’obiettivo come compimento: io sono compiuto quando sono felice. Ora, al di là di alcune considerazioni su cosa si intenda oggi con felicità, c’è invece da pensare al motivo per cui il pensiero teoretico è stato abbandonato per sempre. Beierwaltes, per introdurci a questa questione, incomincia muovendo dalla concezione aristotelica di felicità. Dall’atteggiamento conoscitivo che la causa è trasmessa ad Agostino… La concezione aristotelica della felicità e dell’atteggiamento conoscitivo che è la causa è trasmessa ad Agostino, almeno nelle linee essenziali, anzitutto tramite Cicerone, che aveva messo in opera una trasformazione e una riduzione degli scritti giovanili sulla filosofia, il Protrettico (Aristotele). Per quanto sappiamo dei frammenti, questo invito al filosofare presenta in modo insistente la necessità e la legittimazione del filosofare, rendendo così evidente il contenuto e il fondamento della vita felice. L’invito di Aristotele al filosofare, ponendo il principio del filosofare nel tempo, intende portare il pensiero a superare lo stupore iniziale e ricondurre il pensiero al fondamento di questo stupore. Il fondamento dello stupore, l’elemento che muove tutto il filosofare e al tempo stesso il fine dell’agire umano, si presenta al pensiero nella phronesis che lo guida. L’invito a filosofare risulta pertanto essere un invito alla phronesis. La phronesis non è soltanto un altro nome per filosofia ma rende conoscibile il significato più profondo della filosofia del significare: phronesis, o phronein, che va generalmente intesa come comprensione determinata dal bene e come pensiero presente nell’agire, costituisce per l’uomo il fine secondo la sua natura, l’ultimo per cui noi siamo. Phronesis, in quanto forza di pensiero e insieme sapienza pratico o ragione pratica, è il migliore dei beni, la realtà esistente in noi che più merita di essere afferrata. Qui già c’è una questione importante. Per Aristotele ciò di cui si tratta, la felicità, cioè, il télos, ciò che occorre raggiungere, riguarda il pensiero, riguarda l’interrogazione. La phronesis è in effetti la conoscenza. Questo è da tenere ben presente perché per Aristotele, come qui spiega molto bene, principi e compimento di phronesis è la teoria e il suo theorein è inscindibilmente legato alla praxis (agire, fare). Per Aristotele è sempre presente la prassi, un agire che segue il pensiero, che comunque si accompagna sempre al pensiero. Nell’ambito linguistico latino, theoria, parola fondamentale del pensiero greco e tradotta e interpretata con i concetti di contemplatio, cognitio, speculatio o visio. La parola theoria racchiude in sé i significati di ricerca, domanda, visione, sguardo, contemplazione. Quest’ultimo termine va inteso come l’aspirazione del pensiero a percepire l’essere e il suo fondamento, accogliendolo. La contemplazione costituisce la struttura fondamentale del filosofare. Essa possiede quindi in sé il bios theorikos e determina in quanto principio il bios prakticos. Risulta pertanto chiaro quanto siano lontane da una comprensione autentica del pensiero greco, le interpretazioni secondo cui la teoria significa un semplice disinteressato stare a guardare. Secondo tale interpretazione, nella teoria il pensiero si chiuderebbe in se stesso diventando acritico e incapace di incidere sulla praxis. Inoltre, nell’assolutizzazione della teoria, il pensiero diventerebbe causa delle ideologie moderne, oltre che affermazione della realtà così com’è. Tutto questo è lontanissimo dal pensiero greco, soprattutto da quello di Aristotele. Condizione della realizzazione della teoria e l’ozio. Esso è il principio di guida, l’atto del filosofare, lo determinano insieme l’atteggiamento di fondo che agli occhi di Aristotele rende possibile la filosofia. All’ozio si oppone l’affaccendamento, che fa perdere se stessi nei molteplici. Nell’ozio il pensiero si distoglie da ciò che ad esso è estraneo e si raccoglie in ciò che gli è proprio, nel fondamento di se stesso. Questo è importante. Lui lo dice così, ma in effetti qui c’è proprio Aristotele, cioè, la ricerca continua del fondamento del pensiero: io penso, ma questo mio pensiero si fonda su che cosa? Che è come dire: quali sono le condizioni di questo pensiero? E lui, Aristotele, lo racconta qui, nel nell’Etica Nicomachea. Nicomaco era il figlio di Aristotele. A pag. 863, X, 7. Tanto, dunque, che questo sia l’intelletto, o qualcos’altro - qualcosa che, ad avviso di tutti, per natura comanda e dirige ed ha conoscenza delle realtà belle e divine: o perché è in se stessa, divina, o perché è la cosa più divina di ciò che è in noi - l’attività di questa parte secondo la virtù che le è propria costituirà la felicità perfetta. Qui sta parlando dell’intelletto. È anche da notare: qualcosa che ad avviso di tutti. È la doxa. Aristotele ha sempre ben presente da dove parte, e cioè parte dalla doxa. Ad avviso di tutti: è così che si pensa. Di più, quella che viene detta autosufficienza riguarderà soprattutto l’attività contemplativa: infatti sia il sapiente che il giusto che gli altri uomini hanno bisogno delle cose necessarie per vivere; ma, fra coloro che sono sufficientemente provvisti di tali cose, il giusto ha bisogno di persone verso le quali e con le quali agirà con giustizia, e similmente anche il saggio… /…/ …il sapiente, anche restando solo con se stesso, è capace di contemplare; e ne è più capace quanto più è sapiente. Senza dubbio è meglio se ha dei collaboratori, ma in ogni caso è pienamente bastevole a se stesso. Quindi, Aristotele parte dall’idea che per i più l’intelletto è la cosa più importante. Tutti convengono che essa sola è amata per se stessa (l’intelligenza); da essa, infatti, non deriva nulla al di fuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo, al di fuori dell’azione, un vantaggio più o meno grande. Inoltre, tutti convengono: doxai, sempre la doxa. Aristotele non abbandona mai questa posizione, sa perfettamente che si parte sempre da lì, dalla doxa. Qui, invece, Beierwaltes dice: Se il pensiero contemplativo si attua come aspetto della libertà umana e si realizza nell’ozio, esso non è inattivo e non pratico ma costituisce la suprema attività, la perfetta unificazione di theoria e praxis che determina e orienta ogni praxis. La theoria può quindi a ragione essere definita come quella comprensione che, in quanto comprensione ed avendo come fine la comprensione stessa, rappresenta la suprema potenzialità della praxis. Questo è molto interessante. Qui cita un certo Broeker. Il testo è stato pubblicato a Francoforte nel ‘57. Dunque, la comprensione che in quanto comprensione ha fine la comprensione stessa. Questo è il pensiero di pensiero di Aristotele, cioè, la comprensione che pensa se stessa, che vuole comprendere se stessa. Tenete ben presente questa cosa qui, perché è esattamente ciò di cui si tratterà poi con Platone. Dice ancora: Il vero piacere non si basa quindi sul continuo a interrogare, sul continuo ricercare, cui non tocca di giungere mai a una risposta e a un invenimento, ma sulla pura continua visione della verità. Quindi, il cercare non può avere l’universale come obiettivo, perché l’universale non c’è. La filosofia ha in sé piaceri meravigliosi per la loro purezza e stabilità ed è naturale che la vita di coloro che sanno trascorre in modo più piacevole che non la vita di coloro che ricercano. Qui verrebbe da pensare che coloro che ricercano non sono - dice in qualche modo Aristotele - coloro che sanno perché coloro che sanno non hanno da cercare qualche cosa che non troveranno mai. Il fatto che l’universale sia fatto di particolari è, potremmo dire, una constatazione perché, se c’è l’universale, ci sono i particolari di cui è fatto. La ricerca invece dell’universale, identico a sé, irrelato, ecc., apparterrà a Platone, come vedremo tra poco. Dice Aristotele (Etica Nicomachea) che una vita di questo tipo sarebbe troppo elevata per l’uomo; infatti, non vivrà così in quanto è buono, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di divino. Questa attività è questo il divino, che c’è nell’uomo. Avrete immediatamente notato qui una distanza immensa da Plotino, per esempio. Cioè, il divino che è in me non è altro che la teoria, una ricerca della conoscenza, ma come la conoscenza della conoscenza, che è un altro modo per dire pensiero di pensiero. È Dio che pensa se stesso, perché questo pensare del pensiero che pensa se stesso è di Dio: questo è Dio. Ma si chiede: Che cosa pensa quindi Dio quando pensa se stesso? Se l’intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, pensa se stessa e il suo pensiero è pensiero di se stesso, è pensiero di pensiero. Proprio in virtù della continuità del suo pensiero, Dio è la pura suprema attività, esplosione di ogni potenzialità che possa essere attuata, perpetua attuazione del suo essere come vita instancabile. Nel pensiero del pensiero di sé medesimo, Dio è sempre in sé, rivolto a sé, perciò consapevole di sé. Dio possiede sé medesimo in quanto pensiero esistente e pensato esistente, e questo possesso coincide con il suo atto. Rispetto a questa unità di pensiero e pensato, che è principio… Badate bene: unità di pensiero e pensato, unità di uno e molti: il pensiero è uno, mentre penso è quello; il pensato è ciò che il mio pensiero ha voluto dire, ha voluto fare, è i molti. …si può affermare che, poiché il pensiero è che la sostanza del pensato… Altro riferimento importante: il pensiero è la sostanza, il pensiero è la sostanza del pensato. Adesso andate con il vostro pensiero alle Categorie. Le categorie sono la sostanza. Quindi, c’è il pensiero e la sostanza del pensato, come dire che il pensiero non è altro che il pensato, perché senza il pensato non c’è pensiero, e viceversa. Il pensiero ha il suo fondamento nell’essere. Questo pensato e il pensiero come essere del pensiero costituiscono il principio, il principio assoluto. Come dire che la sostanza e le categorie costituiscono il principio assoluto, perché non c’è altro: il dire e ciò che il dire dice. Il principio è l’indiveniente automovimento del pensiero rivolto verso sé medesimo. La divisione e l’unificazione di essere, pensiero e pensato, sono così, in senso assoluto, una sola e medesima realtà. Forse, neanche Beierwaltes si rende bene conto di quello che sta dicendo. Divisione e unificazione tra pensiero e pensato: sono divisi, nel senso che li distinguo arbitrariamente, ma non li posso separare, sono in assoluto una sola e medesima realtà: le categorie e la sostanza sono una unica sola e medesima realtà, indissolubile, nonostante Porfirio abbia messo una sostanza anche al di sopra. Qui è Aristotele che parla, sempre nell’Etica Nicomachea. Non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali, anzi, al contrario, per quanto è possibile bisogna comportarsi da immortali e fare di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi. Qui c’è una sorta di precisazione, cioè, non come dicevano gli gnostici “eritis sicut dii”, non sarete come dei, siete dei, nel momento in cui pensate il pensiero, alle condizioni del pensare: qui siete dei. Dice Beierwaltes: Ciò che è divino e trascende l’uomo si rivela così come ciò che è umano in senso autentico. Ciò che è divino è ciò che è umano in senso autentico, là dove c’è un’interrogazione intorno al pensiero. L’uomo è tale solo se coglie la potenzialità divina del suo essere e diventa completamente se stesso mediante il divino che è lui. /…/ La posizione assunta da Platone. Considerando il pensiero di Aristotele nella sua complessità, ci si accorge che lo stagirita non intendeva affermare un primato assoluto della vita teoretica sulla vita pratica. Per lui sono due aspetti della stessa cosa, non c’è un primato, ma piuttosto la sintesi dell’una dell’altra. Tuttavia, l’insistenza sulla relazione di teoria e felicità si accorda con un assunto fondamentale del pensiero platonico. Platone mette in evidenza a più riprese che la felicità deriva dalla conoscenza e dalla visione dell’idea che è essere immutabile e insieme fondamento di ogni forma nell’ambito della genesis che sempre diviene. Qui c’è una questione importante. La felicità per Aristotele è il praticare il pensiero di pensiero, per Platone la felicità incomincia a essere la visione dell’idea. In Aristotele non c’è la visione propriamente, non c’è niente da vedere, c’è da pensare. Nel mito delle anime nel Fedro si dice che l’anima, giunta sulla pianura della verità, cioè nell’ambito dell’intelligibile dell’essere indiveniente e perciò autentico, essere essente e divino, vede una luminosa bellezza. Mentre noi eravamo al seguito di Zeus in un coro felice, avevamo una beata visione e contemplazione e ci iniziavamo a quella iniziazione che è giusto dire la più beata che celebravamo, essendo integri, non toccati dai mali, che ci avrebbero aspettato nel tempo che doveva venire, contemplando nella iniziazione misterica visioni integre, semplici, immutabili e beate, la pura luce. Vedete già da subito la distanza da Aristotele: in Aristotele tutti questi concetti non ci sono. In modo analogo, Diotima afferma nel Simposio: il bello si trova lassù come paradigma dell’idea, ossia dell’essere che è privo di ogni relazione. Che cosa invece invita a fare Aristotele? A praticare la relazione, la connessione, la conoscenza è relazione, il pensare è relazione. Quindi, il pensiero di pensiero è una relazione che cerca, produce altre relazioni. La relazione porterebbe in esso (all’idea) un non-essere parziale. Il bello è identico a sé, è se stesso ed è in virtù del bello che le altre realtà partecipano all’essere. La vita felice è quindi la vita nella quale l’uomo vede e contempla il bello divino, luminoso, puro, non mescolato, come identico a sé e come forma unitaria. Ecco che arriva l’Uno, la forma unitaria. In fondo, tutto questo vale per la conoscenza delle idee in generale e non solo per la conoscenza dell’idea del bello. Se il bene in sé viene inteso come la componente più felice dell’essere e il divino come ciò che è più felice, anche l’assimilazione a Dio va intesa come esercizio di introduzione alla vita felice. Il modo nel quale tutto questo accade non ha solo un carattere razionale, ma è insieme prassi compenetrata e determinata dall’idea. Senza questa condizione la conoscenza, intesa in un senso non solo formale, non si realizzerebbe oppure si ridurrebbe a pura chiacchiera. Cioè, tutto questo processo è mosso dall’idea, che è una e assoluta. Quindi, mentre per Aristotele è la relazione la conoscenza, è il pensiero che pensa se stesso, un pensiero che pensa la relazione continuamente, per Platone no, per Platone è l’idea, che è fissa, identica a sé e irrelata. Per Aristotele ogni cosa è relazione, per Platone invece occorre cercare l’irrelato, che è esattamente quello che Aristotele diceva che è inutile cercare perché non esiste, non c’è, non c’è mai stato. Ora Plotino. L’opinione di Teiler, secondo cui la problematica della felicità resta lontana dall’entusiasmo filosofico che caratterizza il pensiero di Plotino può ragionevolmente essere messa in discussione. Quando Plotino dice negli scritti dedicati a questa problematica, Enneadi 1,4 e 1,5, non va liquidato come pratica di scuola, ma rende evidente, insieme ad altri aspetti del suo pensiero, che la visione riflessiva dello Spirito o della dimensione intemporale dell’intelligibile e la visione del fondamento del principio dell’Uno in sé, visione che si libera della differenza... Liberarsi della differenza, liberarsi dei molti. Da Platone in poi, lasciando da parte Aristotele, questa è stata la direttiva principale: sbarazzarsi dei molti, togliere le differenze. Invece, per Aristotele, se si parla di relazione si parla di differenze. …portando la trasformazione o all’unificazione con lo Spirito e con l’Uno. Queste cose costituiscono il compimento dell’essere dell’uomo e coincidono quindi con la vita felice. Dunque, la vita felice - Platone prima, Plotino dopo e soprattutto – la felicità è l’unificazione. Per Aristotele la felicità, usiamo questo termine, è la relazione che si interroga; non c’è unificazione in Aristotele. Abbiamo visto quando ci ha provato negli Analitici Secondi con l’universale, universale che dovrebbe essere l’unificazione, per analogia, poi in fondo - ναγωγή è il salire, il salire verso l’universale - e, una volta raggiunto l’universale, si è raggiunto l’Uno. No, dice Aristotele, non hai raggiunto niente, questo universale in quanto uno non esiste, non esiste perché è i particolari, così come la sostanza è le categorie. Con un rigore che ricorda la atarassia stoica... Atarassia: assenza di sofferenza, di dolore. …Plotino pensa chiaramente che la felicità non sia intaccata dalla infelicità che colpisce le parti corporee e storico-temporali del nostro essere, dolore, malattia, povertà, disonore, morte di parenti e amici. Secondo Plotino, tutto questo non può però essere inteso come una consolatoria ritrascrizione di opinioni correnti, che è però lontana dalla realtà e perciò priva di efficacia. La concezione plotiniana deriva piuttosto dalla convinzione che fine dell’uomo è quello di pensare l’Uno come principio dell’essere e lo Spirito come la modalità suprema dell’unità. Nella molteplicità suprema di vedere l’Uno, di unirsi con l’Uno in modo non pensante... Badate bene: non pensante. Qui siamo agli antipodi di Aristotele. …perché questo Uno è in sé il più eccellente, il Bene in sé, e in quanto sopra-essere è la realtà suprema. Solo in forza dell’Uno stesso è possibile che la realtà dell’essere dell’uomo sia analoga all’Uno e possa essere pensato come tale. Questo status ontologico potrebbe essere formulato in modo sillogistico: essere felici si basa sul possesso del vero Bene; l’Uno in sé è il vero Bene o il Bene in sé; chi possiede questo Bene è felice. Questo possesso si attua come visione non oggettiva e non obiettivante... Cioè, non c’è nulla di oggettivo, non c’è nulla di argomentativo. …ossia come trasformazione della visione nel suo oggetto. Plotino ha trasformato la tradizionale identificazione di ben vivere, essere felici, nella vita secondo lo Spirito, nella vita logica. Non ha inteso però in questo modo far terminare nel νούς l’itinerario riflessivo diretto verso l’interiorità; infatti, nel ritornare a sé, il pensiero trascende se stesso nel suo fondamento. L’Uno, il suo autentico télos, la vita vera è lassù, in uno stato nel quale l’uomo diventa colui che vede e colui che contempla il Principio e l’Uno. Visione, contemplazione: ecco l’estasi mistica. L’Uno come principio, grazie al movimento di trascendimento e grazie all’autoilluminazione del pensiero che lo rende semplice. In ultima analisi, proprio la visione dell’Uno o l’unificazione con l’Uno mediante la trasformazione in spirito, rappresenta … della vita felice. In questo modo Plotino esprime la massima potenzialità dell’essere umano, il fatto che ogni uomo desidera raggiungere quando egli si desta a se stesso. Ecco il risveglio, ecco Platone e il suo mito della caverna: il destarsi, l’accorgersi di vivere in un incubo, in un sogno, quello che è, ma comunque non nella realtà; per vivere nella realtà occorre uscire e vedere la luce, vedere il sole; solo allora si vede la realtà vera. Nello Hortensius di Cicerone, lo scritto che, come il Protrettico di Aristotele, contiene quella exortatio al filosofare, che Agostino ha sentito come entusiasmo e che ha rappresentato il decisivo punto di pazienza della sua conversione al cristianesimo, si trova la frase “Tutti vogliamo certamente essere beati”. Questa frase ricorre continuamente in Agostino, quasi come un assunto indubitabile. Nella sua genericità di astrattezza… In effetti, non significa niente. …essa non può essere posta in dubbio e contestata; infatti, un comune possesso, un bisogno che si fonda sull’essere dell’uomo, un naturale desiderio dell’uomo alla soddisfazione che tenta di eliminare lo stato di insoddisfazione o di finitezza che limita l’uomo. Cioè, cosa significa che tutti vogliono stare bene? Non può significare altro che eliminare tutto ciò che fa stare male, e cos’è che fa stare male? L’πειρον, l’indeterminato, che quindi va o eliminato del tutto oppure determinato in un modo o nell’altro. E qui ci avviciniamo sempre di più alla questione più importante. Inoltre, è proprio sia di Agostino sia della filosofia, il fatto che la vita beata sia intenzionata all’essere intemporale… Rivolta all’essere immutabile. Che cos’è l’essere immutabile? È l’universale, non quello di Aristotele ma di Platone, l’idea.essere che è identico alle idee, appunto, alla verità, alla sapienza o a Dio. A questo concetto corrisponde il presupposto ontologico che viene sostenuto da entrambi, ma che conduce a fini diversi, con cui l’uomo nel tempo è legato all’idea che lo trascende, alla verità, alla sapienza o a Dio. Il suo compito è diventare consapevole di questo presupposto mediante il ritorno in sé medesimo e l’autotrascendimento. Questo ritorno a se stesso, perché lì, in se stesso, c’è Dio, c’è la verità. In Aristotele questo ritorno non c’è, non è previsto, non c’è nulla a cui ritornare, c’è qualche cosa da pensare; per esempio, a quali sono le condizioni perché io possa immaginarmi una cosa del genere, eventualmente. L’obiezione fondamentale che Agostino rivolge ai filosofi, si riferisce alla loro superbia. Chiusi in questa superbia essi comportano come se potessero attuare la vita felice autonomamente. In forza di se stessi. All’autonomia della ratiocinatio filosofica si contrappone la convinzione che la vita autenticamente felice sia possibile solo grazie all’adesione all’auctoritas Christi, adesione che si apre insieme alla sua donazione nella grazia. Qui si affaccia un’altra questione importantissima. Ne parlerà poi, ma non direttamente, va molto cauto su queste cose Beierwaltes; mentre su altre, come sull’idealismo tedesco va più deciso, qui è molto più delicato, come se temesse qualche cosa. La visione platonica - ha detto visione non a caso - di un’idea, cosa comporta? La sottomissione. All’idea di Platone ci si può solo sottomettere, perché è l’identico a sé, è l’Assoluto, è il divino, è Dio. Pensate ad Aristotele, c’è sottomissione? A che cosa? A Dio? Ma il Dio non è altro che questo pensiero che pensa se stesso, quindi, mi sottometto a che? Non c’è sottomissione, il pensiero pensante non prevede nessuna sottomissione, il platonismo sì. È questa l’invenzione straordinaria della filosofia, che poi è diventata religione, ma l’idea della sottomissione, che poi è presentissima in Plotino, naturalmente. Quindi, la vita autenticamente felice è solo possibile grazie all’adesione all’auctoritas Christi, cioè, al riconoscimento dell’autorità, alla sottomissione all’autorità di Cristo. Ad esempio, l’esortazione plotiniana: bisogna dunque fuggire verso la cara patria dove c’è il padre ed ogni cosa; e come si può prendere quindi il largo, fuggire? Diventare simili a Dio. Tutto questo non si oppone certamente al cammino che Agostino stesso immagina per giungere alla vita felice, ma non è di per sé sufficiente, perché possiamo purificarci e liberarci, cosa che anche Plotino desidera, ma per fare tutto questo è necessario il mediato Christus (l’aiuto divino). Cosa che, invece, in Plotino non c’è. Agostino descrive la situazione dell’uomo come vuota e passeggera apparenza determinata da inganno e paura, anche se egli non accetta la compiaciuta lacrimosità che è tipica della malinconia. Le espressioni metaforiche notte-ombra, valle di lacrime o dolore del viandante in terra straniera, giorno della tribolazione, esprimono questa situazione. Tali espressioni non intendono opporsi in modo inconciliabile alle corrispettive espressioni positive. La verità immutabile e intramontabile di Dio, la cui l’autoaffermazione “Io sono colui che sono”, mettono in evidenza che Dio è l’essere vero e puro e intemporale. /…/ Che cosa ciò che egli, l’uomo, desidera possedere per essere felice? È chiaro che quanto si va cercando non può essere un possesso temporale, finito, anche se l’uomo continua a pensare di trovare la sua grande felicità in questo e forse solo in questo: avere denaro, una famiglia numerosa, figli irreprensibili, belle figlie, magazzini pieni, bestiame in quantità, non subire il crollo di mura e di recinti, non avere disordine e chiasso sulle strade. Ciò che viene enumerato si ricollega ai versetti del salmo e corrisponde anche ad una volontà dei contemporanei, che è difficilmente negabile e, anzi, è in un certo senso comprensibile, ma tutto questo non può che arrecare una felicità sinistra. Che cos’è una felicità sinistra? È una felicità temporale, mortale, corporea. Chi possiede questa felicità vive sempre nella paura di perderla. Potrebbe essere una metafora per intendere qualcosa forse di più preciso, ma qui Beierwaltes non arriva: paura di perdere che cosa? Quello che ho? Forse, anche, ma la paura è che all’uno possano aggiungersi i molti, la paura è che l’uno non sia più soltanto uno, ma siano molti. Da qui la necessità di un assoluto, di un qualche cosa che sia assolutamente identico a sé. Identico a sé vuol dire non relato, vuole dire che, se è identico a sé, non c’è altro che possa aggiungersi. La verità è identica con la immutabilità di cui si parlava… La immutabilità esclude la presenza di altri. L’essere in sé esclude la possibilità dei molti. L’essere in sé è la verità di Dio. L’espressione essere in sé è, secondo Agostino, l’interpretazione dell’“Ego sum qui sum”. “Ego sum qui sum”, cioè, non sono altro. …cioè, l’espressione fondamentale che Dio riferisce a se stesso. L’essere quindi immutabile se stesso e si contrappone a una forma inferiore di essere che, in quanto creato e temporale, non è e non può mai essere propriamente se stesso. L’essere è quindi l’essere supremo, non il supremo all’interno della medesima dimensione, ma la suprema unità nella molteplicità. Questo: la suprema unità nella molteplicità. E questo è anche Hegel, anche lui aveva questo obiettivo. L’essere è essere genuino perché si fonda su se stesso senza essere dedotto, cioè senza essere in relazione. È l’essere vero, perché rimane sempre a se stesso e si custodisce come tale, ed essere semplice e puro perché esiste in sé senza differenza e perciò è semplicemente se stesso. Tutti questi riferimenti continui, che fa Beierwaltes, sono molto significativi perché indicano propriamente la questione di cui si tratta, e cioè che la vita felice è quella vita dove non ci sono i molti.