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22 aprile 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Ci sono alcune cose dette nell’incontro precedente che meritano una ripresa. Innanzitutto, la questione che riguarda il dire, cioè il fatto che dicendo mi trovo a confrontarmi con qualcosa di nuovo rispetto a ciò che intendevo dire e che non c’era prima. Questo, naturalmente, porta a una serie di conseguenze. Hegel è preciso su questo; in effetti, tutto ciò che accade nell’Aufhebung è il fatto che il dire, l’enunciazione, si confronta con l’enunciato, e questo enunciato, in quanto negazione dell’enunciazione, dilegua lasciando una nuova enunciazione. Possiamo intendere qui l’enunciazione come il dire in atto o, meglio ancora, il dire nell’atto; l’enunciato come il significato. Dunque, dicevo, qualche cosa si dice, l’enunciazione, dopo essersi confrontata con l’enunciato, ritorna come un’altra enunciazione, cioè, non è quella di prima. Qui, naturalmente, il discorso che fa Hegel è più fine, più interessante, perché è questa seconda enunciazione che fa esistere la prima, e questo occorre tenerlo sempre presente. Ma la cosa che più ci importa qui è il fatto che parlando mi ritrovo a dovere confrontarmi con qualcosa che non è ciò che il mio discorso intendeva, potremmo dire per essere più espliciti, ciò che il discorso voleva fermare. L’enunciazione è il porre qualcosa, è l’affermare qualcosa; questa enunciazione è tale perché c’è un enunciato; l’enunciato, tornando sull’enunciazione, modifica l’enunciazione. Ma cosa significa “modifica” se non che questa enunciazione è un’altra enunciazione rispetto alla precedente? Quindi, ciò che l’enunciazione, affermando qualcosa, intende fermare, stabilire, questo qualcosa si mostra come un’altra cosa. Pertanto, l’operazione che tenta di fermare, di fissare qualcosa, potremmo dire che ciascuna volta è fallita. Qui interviene in modo interessante la questione di Nietzsche, e cioè la volontà di potenza. La volontà di potenza deve fissare per potere dominare le cose, ma si ritrova a fissare un qualche cosa e a confrontarsi con il fatto che ciò che pensava di avere fermato, di fatto, è un’altra cosa rispetto a ciò che voleva fissare, fermare. Quindi, il compito della volontà di potenza è di ripetere questa operazione, ma ciò che ne ha di ritorno è una operazione senza fine, perché ciascuna volta che tenta di fermare qualcosa, questo qualcosa si rivela essere un’altra cosa rispetto a ciò che doveva fermare, e questo procedimento è infinito. Ma consideriamo ancora più attentamente la questione. Si tratta di intendere meglio la volontà di potenza nel tentativo di fermare, quindi di dominare qualcosa, quindi nel tentativo di mettere in atto un superpotenziamento. Peraltro, trae da lì, dal superpotenziamento, la soddisfazione. Tutto ciò che comunemente è inteso come emozione, sensazione, ecc., non è altro che la soddisfazione che procede dal superpotenziamento. È anche per questo che ogni qual volta il superpotenziamento raggiunge la soddisfazione, questa soddisfazione deve essere immediatamente rilanciata su un’altra cosa, perché quella cosa che dovrebbe dare soddisfazione in quanto è stata fermata, fissata, si manifesta come un’altra cosa, e quindi l’operazione va ripetuta. Se io non procedo continuamente a inseguire questo qualcosa, che continuamente sfugge, allora mi ritrovo di fronte a quello che Nietzsche chiamava depotenziamento. Ma la cosa qui interessante è ciò che diceva Hegel a proposito del salto. Ogni volta che ci si approssima a qualche cosa, a pensare, a immaginare di potere definire, delineare, descrivere qualche cosa, questo qualche cosa si rivela inarrivabile. Come dice Hegel, non c’è una progressione per cui a poco a poco, diciamola in modo spiccio, arrivo alla verità. Ciò che voglio raggiungere non lo raggiungerò mai se non attraverso un salto. Questo salto non è nient’altro che il dileguarsi della negazione; una volta dileguata la negazione dell’opposto, questa negazione si integra – usiamo i termini di prima – con l’enunciazione e produce una nuova cosa che non è tratta da quella di prima. Non prosegue un cammino e arriva a quel punto, ma c’è un salto qualitativo. Su questo Hegel è preciso. Il salto qualitativo ci dice soltanto questo, che quella cosa è un’altra cosa, non è più quella cosa di prima. Se fosse il prodotto di una variazione quantitativa rimarrebbe quella di prima, incrementata o diminuita a seconda dei casi, ma rimarrebbe qualitativamente quella di prima, solo un po’ più grande o un po’ più piccolo, o più completa, come vogliamo dire. Invece no, è letteralmente una cosa nuova, che prima non c’era. Ed è con questo, come dicevo prima, che si confronta la volontà di potenza, con questo scacco, che ogni volta incontra quando intende fissare, porre, fermare qualcosa, e questo qualcosa, nel momento stesso in cui lo affermo, si mostra in quanto altra cosa: è un’altra cosa, non è quella che volevo. Si tratta allora di intendere che cosa succede parlando. E ciò che succede è esattamente questo: il trovarsi di fronte, ogni qual volta ci sia un’affermazione, cioè praticamente sempre, a un’altra cosa, una cosa che è sorta, potremmo dire, all’improvviso, che sorge lì in quel momento. È questo che diceva Hegel quando descriveva il fenomeno tale per cui le cose non procedono per gradi a poco a poco, per cui sono già nate e proseguono, si incrementano fino a quando diventano quella cosa là; no, nasce qui in questo momento, nasce nell’atto. Certo, non viene dal nulla, è ovvio; può nascere nell’atto perché è nell’atto di parola, questo è implicito. Ma è in questo modo che può intendersi che ciascuna enunciazione è sempre una nuova enunciazione; per quanto la possa ripetere questa enunciazione ogni volta, siccome per essere tale deve comportare un enunciato e siccome questo enunciato, in quanto tolto, si integra con l’enunciazione, la fa diventare letteralmente un’altra enunciazione, con la quale io mi confronto mentre parlo, che me ne accorga oppure no. Però, di fatto, in qualche modo le persone se ne accorgono tant’è che si ritrovano a ripetere, spesse volte all’infinito, quella che immaginano essere la stessa cosa, che di fatto non è, perché se fosse la stessa cosa sarebbe sufficiente enunciarla una sola volta e poi, da quel momento in avanti, fino a prova contraria, quella cosa permane. Ma non è così, c’è la necessità di fissarla continuamente; la fisso e mentre la fisso dilegua; poi, la fisso di nuovo e mentre la fisso dilegua ancora, e così via all’infinito, senza soluzione di continuità. Questo è il modo del superpotenziamento, che non si ferma. Questo superpotenziamento, come abbiamo detto varie volte, è ciò che muove, ciò che spinge il linguaggio a proseguire; anzi, direi che è propriamente la struttura del linguaggio il volere fissare qualche cosa, confrontarsi con questo qualche cosa che non è quel qualche cosa, quindi, ripeterlo, riprodurlo. Apparentemente, può anche apparire lo stesso oppure in modo totalmente differente, ma ciò che è in gioco ciascuna volta è la necessità di fermare qualcosa. È importante il fermare qualche cosa, soprattutto retoricamente. La retorica gioca qui un ruolo notevole, perché tutto ciò che fa la retorica non è altro che un modo per potere garantire che una certa cosa è quella che è. Tutta la retorica, per persuadere qualcuno di qualcosa, è costretta a mostrare a questo qualcuno quel qualcosa come identico a sé, come qualcosa che è quello che è e nient’altro, perché in caso contrario non potrebbe persuadere nessuno. Quindi, l’operazione che mette in atto la retorica è quella di trovare dei modi per cui appaia, perché poi si tratta solo di un apparire, che un qualche cosa è quello che è, cioè è come dico io. Questo è il compito, possiamo dire così, della retorica e, quindi, pare fortemente connessa al superpotenziamento: la retorica non è altro che il modo del superpotenziamento, il modo in cui si pone in atto ciascuna volta. La struttura stessa della retorica è una sorta di esposizione di questi vari modi. Quindi, la questione della retorica assume qui una portata, e anche un ruolo, leggermente differente da come si è sempre posta ma anche più importante, ponendola come il modo con cui si pone in atto il superpotenziamento. Questo ci porta a considerare in modo più radicale che quando parlo dico dell’altro rispetto a ciò che volevo dire, come anche Freud aveva inteso, naturalmente, per altra via e in un altro modo. Ma qui con Hegel si pone una questione in più, vale a dire: ciò che dico è in un certo senso la negazione di ciò che voglio dire; si pone come l’opposto, cioè, l’enunciato in questo caso si pone come il negativo, come ciò che nega l’enunciazione, come ciò che non è l’enunciazione, è un’altra cosa. Togliendo l’enunciato, e quindi integrandolo nell’enunciazione, questa enunciazione diventa un’altra cosa e, quindi, ciascuna volta ciò che dico è come se negasse ciò che dico: ciascuna enunciazione si ritrova come enunciazione perché è negata. L’atto del dire non è mai propriamente quello che è; se fosse soltanto quello che è non significherebbe niente, quindi sarebbe niente; se è qualche cosa è perché c’è un significato, c’è un enunciato che lo sostiene, ma che è anche la negazione che lo nega. Quindi, potremmo dire che parlando non faccio altro che negare continuamente ciò che dico. Il che è un altro modo di pensare ciò che Nietzsche indicava come depotenziamento. È chiaro che se ogni volta che parlo nego ciò che dico c’è un continuo depotenziamento, che richiede quindi un continuo superpotenziamento per rimediare al depotenziamento. Ma se parlando continuo incessantemente a negare ciò che dico, allora il mio dire non è altro che un inseguire continuo questa negazione per ricondurla a un’affermazione; affermazione che troverà naturalmente la sua negazione. Quindi, tutto il dire, potremmo dire la struttura stessa del linguaggio, non è che un continuo inseguire questo movimento, che è il movimento che conosciamo, cioè il movimento del linguaggio, che pone qualche cosa, ma, ponendo qualche cosa, questo qualche cosa dilegua o, come direbbe Hegel, si toglie. Pensate sempre all’esempio che fa Severino: l’essere e il non essere; questo non essere occorre che ci sia e che neghi l’essere, ma in quanto tolto, che quindi non lo nega più e l’essere a questo punto può essere affermato in modo incontrovertibile. Dunque, non si parla per nessun altro motivo, così appare in questo momento, se non per inseguire, per fermare questo negare continuo del dire al fine di potere affermare qualcosa, un affermare che mentre si afferma dilegua, e così via all’infinito. Potremmo dire che questo è ciò che definisce il linguaggio o, anche, ciò che accade propriamente mentre si parla. A questo punto si affaccia però una questione terribile, e cioè ogni conclusione che si raggiunge la si raggiunge con un salto. Esattamente come il 2, … non “raggiunge” il 3, allo stesso modo ogni conclusione si mostra, proprio seguendo il pensiero di Hegel, una conclusione totalmente arbitraria che non segue propriamente nulla ma si impone. Qual è la conclusione che si impone? Quella che soddisfa il superpotenziamento, quella che si immagina che possa consentire di fermare qualche cosa e, quindi, di trasformare una qualunque cosa in un utilizzabile, utilizzabile sempre per il superpotenziamento. È come dire che ogni passaggio è non soltanto arbitrario ma, potremmo dire, totalmente ingiustificato. L’unica giustificazione che trova è che ciascun passaggio costruisce il passaggio successivo come un qualche cosa da potere utilizzare per proseguire il proprio superpotenziamento. Se pensiamo al discorso che fa Severino rispetto al divenire, con il suo celebre esempio della legna che diventa cenere, ciascuno dei momenti, dei punti, che intervengono tra legna e la cenere, ha nel punto successivo non una progressione ma un salto, un salto che non è giustificato da nulla se non, torno a dire, dalla volontà di potenza, dalla volontà di superpotenziamento. Tutto ciò che si afferma è un qualche cosa che, per volere fermare, fissare qualcosa, deve essere ciò che ancora non è. Si tratta sempre di un dover essere e, quindi, non è propriamente, ma è nulla. E, in effetti, anche per Severino tutto ciò che c’è intorno, potremmo dire, ogni punto, ogni momento di questa sequenza di elementi che porta dalla legna alla cenere, ha intorno a sé il nulla, perché ovviamente se l’essere è ciò che è determinato da quel punto che è, tutto ciò che è fuori da questo essere è non essere, cioè nulla. Riportando la questione a ciò che dicevo prima, ecco che sorge un’altra questione ancora, che ci mostra che ciò che dico non soltanto si nega continuamente ma che, negandosi continuamente, si annulla continuamente. Per dirla in altri termini, parlando mi trovo nella condizione di dire nulla, perché tutto ciò che dico si nega, negandosi si annulla, e quindi tutto ciò che dico si mostra come nulla. È nulla perché si mostra sempre come un dover essere che non sarà mai. Come dicevo, se deve essere vuol dire che non è, se non è, è nulla. Ora, sempre seguendo Hegel, questo nulla è ciò che determina l’enunciazione – dicevo prima, l’enunciazione che passa nell’enunciato, che è la sua negazione; l’enunciato viene tolto, rimane l’enunciazione; quindi, questa enunciazione è e non è simultaneamente; vale a dire che tra questi due momenti, l’essere e il nulla, c’è una simultaneità. La simultaneità è la relazione, è la divisione di questi due momenti, che naturalmente permangono. Per cui, a questo punto, dire che l’enunciazione è nulla, certo, appare autocontraddittorio, perché dicendo è e poi aggiungendo nulla diciamo che è qualcosa e che è nulla, ma bisogna sempre tenere conto che il nulla di cui parliamo non è il nihil absolutum, è il nulla in quanto negazione dell’essere, in quanto negazione della negazione che, tolta, determina l’in sé, come direbbe Hegel. Ma in che ciascuno incontra nel proprio dire, nel quotidiano, tutto ciò? Lo incontra nella necessità impellente, in molti casi ineludibile, di dire come stanno le cose. Questo è il modo in cui tutto ciò, a cui ho accennato prima, si manifesta, per dirla così, nel quotidiano; mostra il motivo per cui ciascuno non può non affermare continuamente come stanno le cose e al tempo stesso porsi come colui che conosce, di conseguenza, la verità, che dice “le cose sono così”. In questo avvicendarsi di superpotenziamento e di depotenziamento, il superpotenziamento diventa depotenziamento, che deve essere tolto attraverso il passaggio a un superpotenziamento, che incontra immediatamente un depotenziamento, e così via all’infinito. Da qui la necessità di continuare a dire e a ripetere come stanno le cose, la necessità inestinguibile e irrefrenabile di affermare come stanno le cose; che è ciò che, in definitiva, caratterizza gli umani. Ora, rispetto a tutto ciò è totalmente irrilevante e indifferente che cosa si afferma o si nega, non ha importanza. Ciò che importa è la possibilità di potere affermare qualcosa, di potere dire come stanno le cose, quali non importa, di volta in volta sono differenti, non è questa la questione. La necessità, torno a dire, è di continuare ad affermare all’infinito, senza sosta, come stanno le cose. Ecco, potremmo dire che questo è il lavoro degli umani, lavoro al quale sono “condannati” in quanto si trovano nel linguaggio, ma è anche l’unica cosa dalla quale traggono o possono trarre soddisfazione, perché il superpotenziamento è la soddisfazione. L’atto del superpotenziamento è esattamente ciò che si intende con soddisfazione, quindi, con sentimento, con emozione, con tutto ciò che si vuole. Il contrario per quanto riguarda il depotenziamento, che deve essere subito ricondotto in un modo o nell’altro al superpotenziamento. Ho detto “in un modo o nell’altro”; quando Freud esplora i suoi quattro discorsi dopo tutto racconta dei modi più comuni, più diffusi, in cui tutto ciò viene posto in atto. Quindi, a questo punto potremmo dire che tutto che gli umani hanno fatto e che continuano a fare rispetto a qualunque cosa, come la politica, l’economia, la filosofia, il pensiero in generale, l’arte, ecc., non sono altro che modi del superpotenziamento, che diventa ciascuna volta necessario e che incontra inevitabilmente il depotenziamento, che deve essere tolto; togliendolo, naturalmente, ciò che è stato superpotenziato diventa un’altra cosa per il discorso che facevo prima; diventando un’altra cosa non offre più la garanzia che si immaginava dovesse offrire, e quindi si rimette in moto il meccanismo del superpotenziamento, che si manifesta attraverso le affermazioni, il porre delle cose. Tutto questo è utile a noi per muoverci con maggiore leggerezza tra le nostre stesse e le altrui affermazioni, consapevoli del fatto che ciascuno afferma quello che afferma al solo scopo di porre in atto il superpotenziamento. Il contenuto di ciò che afferma diventa soltanto l’occasione per porre in atto il superpotenziamento, non c’è nessun altro motivo per cui si afferma qualcosa. Ciascuna cosa che si afferma è sempre un dover essere qualcosa, quindi, non è mai propriamente, quindi, è sempre un nulla, un nulla che torna sull’enunciazione volgendo tale enunciazione in una integrazione tra essere e nulla, tra enunciazione e enunciato. Occorre, dunque, a questo punto tenere conto che tutto ciò che si afferma non è altro, sempre, che un dover essere, un dover essere qualcosa, e quindi, di fatto, è nulla. ma, sempre per riprendere la questione di Hegel, potremmo anche aggiungere questo: ciascuno è sempre e simultaneamente servo e padrone. È padrone nell’atto dell’enunciazione, è servo nell’atto dell’enunciato, cioè, è padrone nel momento in cui nell’atto qualcosa si dice, ma non può esistere senza l’enunciato, senza il significato, senza il servo che lavora per il padrone consentendo al padrone di essere quello che è, ma una volta che il servo ha compiuta questa operazione, allora padrone e servo sono due momenti dello stesso. Insomma, ciascuno vuole esporre, diffondere le sue fantasie, delle quali va particolarmente fiero, quelle fantasie che per il parlante sono la verità, intesa come la descrizione dello stato delle cose. Esporre le fantasie al fine che vengano riconosciute; ciascuno vive nelle proprie fantasie e nella necessità di esibirle. Le fantasie possono essere intese qui come il discorso religioso, vale a dire, quel discorso che mantiene separati quei momenti che sono lo stesso. Per interrompere la necessità di esibire le proprie fantasie occorre riconoscerle come fantasie. Questo comporta l’integrazione, l’Aufhebung, di ciò che si dice, l’enunciazione con il nulla di ciò che si dice, l’enunciato; per dirla con Hegel, integrare il finito con l’infinito. Ciò che appare come non fantasia, perciò, è quella integrazione, vale a dire, praticare il linguaggio in quanto simultaneamente essere e non essere, finito e infinito, enunciazione e enunciato, intensione ed estensione. Sto ponendo qui una differenza tra fantasia e spirito assoluto, se, con spirito assoluto, intendiamo la irriducibile consapevolezza del funzionamento del linguaggio.