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22 gennaio 2025

 

Christos Yannaràs Heidegger e Dionigi Areopagita. Assenza e ignoranza di Dio

 

Questo libro è di un teologo greco, Christos Yannaràs. Lui è appunto un teologo, non un filosofo, abbastanza noto nell’ambiente per i suoi studi sul neoplatonismo e sull’influenza del neoplatonismo nel pensiero. Questo scritto fa un’analisi abbastanza accurata della teologia negativa. Perché ci interessa la teologia negativa? La teologia negativa è quella che presuppone l’ineffabile: non posso dire di Dio ciò che è, posso dire ciò che non è. Pertanto, Dio non è una cassettiera, non è una lampada alogena, ecc., e si va avanti per anni dicendo ciò che non è, ma alla fine, supponendo che ci sia una fine - perché mentre io dico ciò che non è si inventano altre cose, che comunque non è - alla fine dovrebbe arrivare a nulla, perché ho tolto tutto, attraverso un meccanismo - lo vedremo adesso – che lui chiama aferesi. Aferesi in realtà è una figura retorica. Lui la usa nell’accezione di sottrazione: sottrarre tutto – è questo appunto la teologia negativa – e, una volta sottratto tutto, cosa rimane? Niente. E, infatti, Dio è nulla. L’aferesi, dicevo, è una figura retorica che consiste propriamente nella sottrazione all’inizio di una parola, di una lettera o di una sillaba. La sincope è invece la sottrazione all’interno della parola di una lettera o di una sillaba; l’apocope, la sottrazione è alla fine. In poesia si usa spesso l’apocope, cioè la sottrazione dell’ultima lettera di una parola. Questo in retorica. Però, Yannaràs la usa nell’accezione, diciamo, teologica e, quindi, sottrarre tutto ciò che Dio non è, e alla fine rimane nulla. Dice così. Il rifiuto di attribuire a Dio le predicazioni dell’ente, rifiuto di sottoporre la realtà di Dio e il modo dell’essere a schematizzazioni razionali, è stato formulato nel contesto della teologia ecclesiastica dell’Oriente greco almeno quattordici secoli prima di Nietzsche e di Heidegger; più precisamente nel corpus di scritti risalenti al V secolo d.C., che ci e stato tràdito sotto il nome di Dionigi Areopagita. Possiamo riconoscere un chiaro esempio dell’atteggiamento universalmente condiviso in quei tempi nei confronti della apofatismo teologico. E, infatti, Dionigi dice in una nota: il punto di vista degli studiosi ortodossi, concernente gli influssi neoplatonici sull’Areopagita, si potrebbero riassumere nella formulazione sintetica del primo commentatore del Corpus Areopagiticum, Massimo il Confessore. Dice Massimo il Confessore. Ciò che di buono esiste presso i filosofi pagani, egli (Dionigi) lo trasforma con destrezza in pietà, attribuendo al loro linguaggio una corretta accezione semantica. Come abbiamo già visto in Filone, oramai questa via è aperta. Questa citazione è tratta dalla Patrologia greca, il Migne… Il Migne è una raccolta che fece un monaco francese nell’Ottocento, di nome appunto Migne, di tutti i testi della patristica greca e latina, per un totale di quattrocento volumi. I più rappresentativi di quei teologi, che oggi vengono chiamati sistematici, concordano infatti nell’affermare che la scolastica occidentale e la teologia neoscolastica si sono basate sul Corpus Dionisiacum per prospettare una possibilità analogica… Vi ricordate l’analogia in Proclo? …di conoscenza di Dio, una triplice via di conoscenza, la via dell’aferesi e, poi, delle negazioni, la via dell’eminenza e la via della causalità o delle catafasi (affermazione). La formulazione di queste tre possibilità di conoscenza trova il suo supporto teorico nell’insegnamento di Aristotele concernente l’analogia dell’ente. Aristotele adoperò il concetto di analogia per definire l’ente come unità e come logos di differenze. L’analogia è una relazione secondo il logos, ascendente o discendente, che presuppone similitudini e dissimilitudini dell’ente rispetto alla sua determinata ousia conosciuta. Il termine ente ha molte accezioni, ma si riferisce sempre ad una sola cosa o ad una sola natura, e non per omonimia. Questo è Aristotele. L’ente, in quanto unità delle differenze, viene sempre determinato in maniera analogica, rispetto ad un principio di per sé determinativo di ogni differenza concernente la qualità, la quantità, lo spazio, il tempo e la relazione, ma sempre anche in maniera analogica relativamente alla sua determinata ousia, secondo il logos della sua ousia. Gli è sfuggito questo dettaglio, ma adesso lo vedremo: secondo il logos della sua ousia – Aristotele - secondo, come si dice, la sua sostanza. Pertanto, Aristotele non ha esteso l’impiego dell’analogia per determinare anche l’entità dell’ente, vale a dire la relazione che intercorre tra ente ed essere. Furono per primi gli scolastici a compiere un tale passo, ad adoperare cioè la comparazione analogica tra gli enti e l’essere, allo scopo di definire l’essere stesso a partire dagli enti, ad arrivare alla conoscenza del creatore attraverso la conoscenza delle creature. Cioè, sta accusando Aristotele di non avere compiuto quel passo analogico dalla sostanza alla sostanza superiore. Lui, Aristotele, si è limitato a dire che la sostanza sono le categorie. E, invece, no, dice Massimo il Confessore che invece non ha fatto quello che i teologi dopo hanno fatto, e cioè partire dall’ousia per trovare… Ma già l’aveva fatto Porfirio, che aveva posto la sostanza, come quella di cui parla Aristotele, e un’altra sostanza, quella ineffabile. Ne aveva poste due, mentre ad Aristotele ne bastava una. Secondo gli scolastici il cosmo intero, in quanto creatura, ha una similitudine analogica rispetto al creatore. La similitudine, l’analogia, la somiglianza: l’analogia è una somiglianza. Tutto la costruzione teologica si fonda sulla somiglianza. Similitudine che presuppone anche una dissimilitudine analogica. Ciò che noi chiamiamo trascendentalità di Dio è una trascendenza delle categorie che determinano la realtà naturale, ma questa trascendenza presuppone comunque anche una dissimilitudine analogica tra Dio e il cosmo. Il Concilio Lateranense quarto, 1215, adottò e ufficializzò la formulazione secondo cui tra il Creatore le creature non è possibile determinare alcuna similitudine significativa, senza che allo stesso tempo venga presupposta anche una più grande dissimilitudine. Così il principio di analogia permette agli scolastici di determinare la dissimilitudine a mo’… A mo’ è una forma orribile, vuole dire “a modo”, “come”. È un esempio di apocope, cade l’ultima sillaba. …di differenza quantitativa negativa rispetto alla similitudine analogica e, quindi, come dimensione analogicamente comprensibile. Esiste, quindi, una relazione analogica tra Dio, in quanto creatore, e gli enti, in quanto creature, ma questa relazione non costituisce una determinazione dell’essere divino, dell’ousia, una cura di Dio, ma una raffigurazione iconica. Qui incominciamo ad avvicinarci alle sottigliezze della teologia. Iconica. La parola greca eikon (icona, immagine) ha due significati, uno greco classico e l’altro biblico-giudaico-cristiano. Il primo significato è analogico dal punto di vista etimologico; il termine deriva dal verbo eiko, che significa somiglianza, riflesso, rappresentazione, formulazione analogica della forma esteriore. Il secondo significato risale ai settanta traduttori dell’Antico Testamento che hanno reso con eikon il termine ebraico chelem, che significa manifestazione, rappresentazione, equivalenza, sostituzione. Nella letteratura patristica i termini eikon, eikonismos, vengono impiegati con questo secondo senso, quello biblico, che conserva parimenti una relazione analogica tra la figura iconizzante, la realtà ionizzata, solo che qui l’analogia non si esaurisce nella sua corrispondenza analitico-razionale o formale, bensì, nella relazione di logoi, nella possibilità da parte del logos umano di incontrare e manifestare logicamente, vale a dire, a rendere partecipabile il logos della realtà, il logos dell’operazione personale di Dio, il logos cosato. che.

Intervento: Si può ravvedere nei traduttori della Bibbia, i settanta, un’idea platonica di fondo, perché spostano il significato di eikon da immagine a idea dell’immagine.

Si. Infatti, qui lo dice chiaro, perché rispetto all’analogia dice che non si esaurisce nella sua corrispondenza analitico-razionale o formale. Per Aristotele l’icona è formalmente, cioè come forma, simile. Qui no, qui l’icona diventa invece il logos della realtà, cioè, manifesta la realtà. Il che è tutt’altra cosa. Ma anche questo accendere, che si attua attraverso l’icona, deve avvenire gradualmente e con ordine, presuppone cioè un passaggio analogico in agenda, immergendosi vieppiù nell’aferesi e nel superamento di tutto e nella causa che unifica ogni cosa, dal logos degli enti al logos dei paradigmi divini. Il logos degli enti è quello formale, il logos di Dio è quello che porta a Dio. Questo accendere analogico è una specie di sinergia del logos umano, sinergia esprimente la volontà dell’uomo creato di incontrare e conoscere il logos della divina volontà. È un’operazione demiurgica ed operazione dubbio, perché l’uomo vuole conoscere Dio. Perché? L’uomo aspira, ma questo viene da Plotino perché, se tutto quanto procede dall’Uno, ogni cosa che è proceduta dall’Uno vuole tornare all’Uno, perché conserva in sé un qualche cosa dell’Uno. Ne parlavamo rispetto alla logica, rispetto alla nozione di inferenza, di implicazione. Parallelamente il rapporto iconico, inteso come un ascendere analogico alla diversità e unicità dell’operazione demiurgica, esclude la possibilità che Dio venga considerato come oggetto della mente, vale a dire come un ente soccombente alle determinazioni dell’umano scibile. Tenete conto che è scritto da un teologo, parlano così i teologi. Secondo il Corpus Areopagiticum, nessuna predicazione esistenziale, neppure se esprimente una delle proprietà più spirituali della natura o ousia umana, può attribuirsi a Dio come determinante la sua ousia. Citazione da Dionigi Areopagita. Qualunque cosa possa essere la sovraesistenza della sovrabontà, chi è amante di quella verità che sta al di sopra di ogni verità, non ritiene lecito celebrare la tearchia sovrastanzialità, né come logos o potenza, né come ente o vita, ousia. È sempre la stessa questione: Dio è al di sopra, qualunque cosa diciamo luì è sopra. Le categorie tramite cui definiamo una realtà concreta o le manifestazioni della stessa - ousia, esistenza, logos, potenza, bontà, mente, vita, movimento, manifestazione, ecc. - non bastano per instaurare una relazione analogica di similitudini e dissimilitudini concernenti la verità che sta al di sopra della verità. Sta dicendo che l’analogia è quella cosa che ci avvicina a Dio. In questo senso è divina, ma non ci conduce a lui, non può condurre a lui, perché l’analogia è comunque un prodotto della mente umana, la mente umana non può raggiungere Dio. Però, può andare nella direzione giusta. L’intelletto può concepire alcune similitudini o dissimilitudini esistenti fra gli enti, e il linguaggio discorsivo può esprimere le stesse solo finché gli enti si rivelano, si manifestano, vale a dire solo finché gli enti della lethe (oblio, nascondimento) si affacciano all’alètheia. Sta dicendo che l’intelletto può concepire delle similitudini, cioè delle analogie, soltanto su ciò che comprende, su ciò che si mostra. Ma se Dio non si mostra, non può fare nulla. Concepire però razionalmente ed esprimere la realtà che si colloca al di là di tutti gli enti, la realtà che non si rivela manifesta, è assurdo. Non è possibile, infatti, - questo è sempre Dionigi Areopagita - comprendere né esprimere questa realtà né in qualche modo contemplarla, perché essa si colloca al di sopra di ogni cosa, perché è del tutto inconoscibile. La ragione e il linguaggio non possono superare ma solo constatare questa impossibilità attraverso il semplice ragionamento, secondo cui quella realtà che sta al di sopra e al di là di tutti gli enti, per essere appunto al di là e al di sopra di tutti gli enti, deve essere totalmente dissimile da questa. E questa totale dissimilitudine esclude ogni conoscenza comparativa. Se, infatti, - ancora Dionigi - ogni nostra conoscenza concerne gli enti e si conclude negli enti, l’ousia che sta al di sopra sta al di sopra sta anche al di sopra di ogni conoscenza. Quale sarebbe, quindi, il semplice ragionamento? Che c’è una realtà che sta al di sopra. Questa è la premessa maggiore: c’è una realtà che sta al di sopra, quindi, tutte le altre realtà non possono essere al di sopra ma al di sotto. Questo è il ragionamento o, meglio, non è un ragionamento, è una petizione di principio. Nella misura in cui gli intellegibili risultano incomprensibili e inafferrabile ai sensi, le cose semplici, prive di forma, le cose create, dotate di forma, e l’immateriale e indefinibile … tutto ciò che ha avuto una forma corporea, così pure bisogna mettere secondo verità che la sovrasostanziale indefinitezza si colloca al di là delle sostanze e l’unità, che supera ogni intelligenza, al di là di ogni mente. Quindi, si parte dall’idea, … dice nella misura in cui gli intelligibili risultano incomprensibili e inafferrabili ai sensibili. Lui non dice “se è così”, ma dice “è così”; quindi, la conseguenza è che c’è qualche cosa. La forma è quasi sempre quella del post hoc ergo propter hoc, che significa “dopo di questo, e quindi, a causa di questo”. Qui, è Yannaràs. Nessuna parola può esprimere il bene che sta al di sopra di ogni parola. Quindi, è il Bene assoluto. Ora, senza rendersene conto, dice una cosa interessante perché, se il Bene assoluto è ineffabile, cioè, è l’Uno tolti tutti i molti possibili e immaginabili, allora effettivamente non è dicibile, perché con cosa lo dico? Qualunque cosa io dica sarà una determinazione, ma non c’è nulla che possa determinarlo perché abbiamo tolto i molti, quindi rimane l’Uno, cioè nulla. È accaduto poi nella teologia di porre Dio come nulla, perché se tolgo tutte le determinazioni… L’unità unificatrice, che si colloca al di là di ogni unità, la sostanza del tutto sovrasostanziale, la mente inintelligibile, la parola inesprimibile, ed è impossibile che venga espressa e compresa e denominata perché non corrisponde ad alcunché degli enti e perché è causa di tutto, restando essa al di sopra di ogni essenza e perché essa stessa definizione precipua e propria di se stessa. Quindi, un qualche cosa che è definizione di se stessa. Qui c’è una questione importante. Dice che è essa stessa definizione precisa e propria di se stessa, cioè, è la cosa che definisce se stessa. Con che cosa? Come fa a definire se stessa? Questo è un problema. Dice qui in una nota. In questo brano si sostiene - il brano è di Massimo il Confessore – l’inconoscibilità dell’ousia di Dio. Se, infatti, né le cose semplici e priva di forma, come ad esempio le anime e gli angeli, benché si tratti di ousie, possono cadere alla percezione dei sensi della realtà corporali, quanto più in alto deve stare Dio, il quale non è ousia ma al di sopra della ousia, e non è semplice ma al di sopra di ogni semplicità, né è mente ma al di sopra della mente, né è enade ma al di sopra di ogni enade, e non è circoscrivibile attraverso alcun termine, ma resta libero dalla definizione di ente. Qui in effetti, nella nota, Massimo il Confessore non spiega per nulla questo problema. Come fa una cosa a definire se stessa? Come fa l’Uno a esistere senza i molti? Perché è questo il problema che insiste incessantemente: può stare l’uno senza i molti? Tutta la teologia è stata costruita per potere rispondere di sì a questa domanda, senza riuscirci, naturalmente, però, il tentativo è stato questo. Come fa a passare l’uno senza i molti? Come fa qualche cosa a definire se stessa senza nessuna determinazione? Potrebbe essere un problema. La sintesi semantica che deriva dall’accostamento delle determinazioni contraddittorie, sostanza soprasostanziale, intelletto inintelligibile, parola inesprimibile, ecc., non è un concetto, bensì un’icona. Badate bene alla finezza. Essa esprime in maniera analogica, secondo il logos dell’eminenza, la sovrasostanzialità di Dio, la sua dissimilitudine rispetto all’ousia degli enti, la sua sapienza che supera ogni sapienza e la sua manifestazione che supera ogni logos, in greco iperlogos, senza che la stessa venga esaurita nell’antitesi concettuale rispetto all’ousia…. Cioè, senza che venga annullata dal paradosso, dall’antinomia. …al nous e al logos, né alla catafasi (affermazione) dell’ousia o dell’apousia (assenza). L’icona che deriva dall’accoppiamento delle determinazioni contraddittorie è un’ipotiposi semantica, secondo il logos che trascende sia la catafasi che l’apofasi. Esso determina un procedimento avulso da ogni posizione o metodo di gnoseologico, una rinuncia da ogni necessità nazionale. Dice che l’icona esprima in maniera logica il logos, la sovrasostanzialità di Dio, ma come icona, icona che si rivolge a Dio; quindi, non secondo un aspetto prettamente formale come la poneva Aristotele, cioè, come una similitudine, ma come qualche cosa che allude al divino, che mostra la presenza del divino: esprime, appunto, la sovrasostanzialità di Dio. Quindi, una rinuncia a ogni necessità razionale. Naturalmente, si potrebbero fare obiezioni a una cosa del genere, però, giusto per dirvi come funziona in fondo a tutt’oggi la teologia e quindi il cristianesimo, quindi il pensiero, perché il pensiero non è nient’altro che il cristianesimo. Bisogna tener presente che la tradizione dei teologi è duplice: una tradizione è ineffabile e mistica, un’altra più visibile e più conoscibile. La prima è simbolica e iniziatrice, la seconda è filosofica e dimostrativa. L’ineffabile appare quindi intrecciato con ciò che si può proferire. Anche qui c’è una sorta di abilità nel cercare di aggirare i problemi. La seconda tradizione, quella filosofica persuade e fissa la verità di ciò che si dice. La prima agisce e fissa in Dio con le sue iniziazioni che non si possono insegnare. Insegnamento esoterico. Quindi, hanno trovato, in fondo, il modo per accogliere entrambe le posizioni. C’è una teologia filosofica, che rende conto argomentativamente di alcune cose, ma alla base di tutto c’è sempre la tradizione mistica, quella che muove da Dio. È ancora il problema dell’uno e dei molti: c’è l’uno, l’aspetto mistico di Dio, ineffabile, e poi c’è la teologia filosofica, che argomentativamente può discutere dei molti, ma sempre con riferimento all’uno, cioè a Dio, all’ineffabile. L’ineffabile è sempre in tutta la teologia, ancora oggi, il fondamento della conoscenza: tutta la conoscenza si fonda sull’ineffabile. L’espressione dionisiana (Dionigi Areopagita) “l’ineffabile appare quindi intrecciato con ciò che si può proferire” esprime molto chiaramente la funzione dell’espressione iconica. Il simultaneo accostamento di catafasi (approvazione) e apofasi (negazione) costituisce una vicendevole esclusione di determinazioni semantiche ben precise, la quale vieta ogni loro assolutizzazione unilaterale, mentre allo stesso tempo non smette di fungere come espressione di una conoscenza inesprimibile, conoscenza che non si esaurisce nella sua semplice formulazione normale. Come dire: catafasi e apofasi permangono entrambi. Però, l’apofasi è quella che si rivolge all’ineffabile, da cui tutto procede. Quindi, anche la catafasi, cioè la teologia affermativa, procede da quella apofatica. L’esclusione totale delle determinazioni catafatiche di Dio… Cioè, di ciò che si può dire di Dio. …indurrebbe inevitabilmente a identificare l’apofatismo con la semplice negazione, vale a dire, con un agnosticismo teologico, con una posizione gnoseologica negativamente catafatica, affatto diverso dalla conoscenza positivamente catafatica. Cioè, se escludiamo totalmente le affermazioni di Dio (apofasi), allora la posizione apofatica, negativa, diventa semplicemente una sorta di negazione. Ma la teologia apofatica non è soltanto una negazione, non è soltanto un’aferesi, perché deve portare alla conoscenza di Dio, deve mostrare l’ineffabilità di Dio. Perciò, Dio viene conosciuto in ogni cosa e in nessuna, viene conosciuto e attraverso la conoscenza e attraverso l’ignoranza, che si ha di lui e conoscenza e intellezione e scienza e contatto e sensazione, opinione e immaginazione e definizione e tutto il resto. Epperò, egli né può essere compreso né espresso né nominato, e non è alcunché degli enti, né si riconosce in alcunché di questi, ed egli è tutto in tutti e niente affatto su alcuno. Ed egli viene conosciuto a partire da ogni cosa e da nessuna. Noi conosciamo tutto ciò correttamente nei confronti di Dio ed egli viene celebrato da tutti gli enti secondo l’analogia di tutte le cose, di cui egli è causa. Quindi, dobbiamo mantenere entrambe le due posizioni. Questo è sempre il tentativo di ricucire quello strappo che si crea tra l’uno e i molti, tra la catafasi e l’apofasi. La catafasi è ciò che si dice, è il significante; l’apofasi è il suo significato, ciò che non c’è, ma che è la condizione di quell’altro. Quindi, è sempre l’uno e i molti, di lì non si esce mai. Cosa dice Basilio il Grande, Basilio di Cesarea, nel suo commento al profeta Isaia? L’apofatismo teologico, inteso come rinuncia ad ogni necessità razionale, determina l’annichilimento di tutti gli idoli noetici di Dio. Che cos’è l’idolo noetico di Dio? È l’idea che io credo di avere di Dio. Nel caso delle negazioni noi eliminiamo tutto allorché risaliamo dalle ultime realtà fino a quella più originaria, in modo da conoscere senza veli l’ignoranza nascosta in tutti gli esseri, da tutte le cose conoscibili, e da vedere la tenebra sovra essenziale nascosta da tutte le luci presenti negli esseri. Se si leva il velo cosa si vede? La tenebra, quella sembra che è nascosta a tutte le luci degli enti. Dietro il velo c’è la tenebra, cioè, il nulla, quando io tolgo tutte le determinazioni a Dio, cosa rimane? Nulla, rimane l’indeterminato, l’apeiron. Dio risulta il non essere in quanto al di sopra di ogni essere. Se è al di sopra di ogni essere è non essere. Questo è Dionigi Areopagita, Prolegomeni alla questione di Dio. Non esistono affatto, a proposito di essa, cioè della divinità, né affermazioni. In effetti la causa perfetta e unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione, e l’eccellenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al di sopra di tutto e superiore ad ogmi negazione. La graduale aferesi, cioè, la rinuncia di ogni categoria razionale, di ogni concezione ontica o formulazione simbolica e il superamento di ogni via metodologica, elimina l’ostacolo principale della conoscenza di Dio, l’ostacolo che costituisce la certezza antropocentrica della conoscenza naturale. Questo era un pericolo: la conoscenza antropocentrica, quella che mette al centro l’uomo. Vi ricordate Protagora? L’uomo è misura di tutte le cose, cioè, l’uomo è il centro di tutto. Ma questo è un problema, il fatto che l’uomo pensi o possa pensare di essere in grado di conoscere tutto, quindi anche Dio. È la formulazione degli gnostici, che poi è rimasta nel Rinascimento ed è proseguita fino all’800 e ‘900, con il positivismo. Il positivismo diceva che, in fondo, gli umani, con la tecnologia di cui dispongono, possono arrivare là dove è arrivato Dio. Perché la tecnologia ha tanto potere? Perché la tecnologia mi sta dicendo: eritis sicut dii, sarete come dèi, fornendo a questa locuzione continui elementi di super potenziamento. La tecnologia è un super potenziamento continuo. L’annichilimento di Dio in quanto ente non significa che egli sia il Dio dell’inesistenza o del non essere. Perché tutto porta invece in questa direzione. Una cosa del genere su suonerebbe parimenti come conseguenza analogica, la quale però viene esclusa nel Corpus Areopagiticum. Nel caso dell’apofatismo teologico, invece, il nichilismo non cerca di rifiutare, ma di superare la categoria dell’ente. Conseguentemente, cerca di superare anche il suo opposto, e cioè il non-ente. Parallelamente, l’apofatismo supera anche l’opposizione tra l’uno e il molteplice… Tra l’uno e i molti. …facendo riferimento all’esperienza ecclesiastica della divinità trina nella monade. Il tre ha questa funzione precipua e precisa di mantenere i due elementi in quanto identificati. Quello che sta dicendo potrebbe anche essere non una critica ma un rilievo a Hegel, che mantiene anche lui questa trinità (tesi, antitesi e sintesi). Ma se ciascuno dei due elementi è anche simultaneamente l’altro, la sintesi sintetizza che cosa? Non si sa, non c’è più niente da sintetizzare. E, infatti, dice qui, l’apofatismo supera l’opposizione dell’uno e il molteplice, ma come? Facendo riferimento alla trinità. Ecco a cosa serve la trinità, ora finalmente lo sappiamo: a mantenere la separazione tra l’uno e il due, tra l’uno e i molti. …fa riferimento a una vita al di sopra dell’esistenza, unica e trinitaria, che noi riusciamo ad accostare poiché si rivela come una mutua coinsessione della volontà e delle operazioni di tre ipostasi di assoluta diversità personale. Cioè, sono tre ipostasi, perché tre devono rimanere: la tesi deve rimanere tesi, l’antitesi deve rimanere antitesi e la sintesi deve essere sintesi, non può accadere che la tesi sia l’antitesi. In Aristotele c’è questa eventualità, quando parla dynamis ed energheia: la nozione di entelechia sembra alludere fortemente al concetto di coappartenenza, in Hegel meno. Fa poi la descrizione di che cos’è la teologia apofatica. Procedendo quindi nella nostra ascesa, diciamo che la causa universale non è né anima né intelligenza, non possiede né immaginazione né opinione, né parola, né pensiero, che essa stessa non è né parola né pensiero, e che non è oggetto né discorso né di pensiero, non è né numero né ordine, né grandezza, né piccolezze, né uguaglianza, né disuguaglianza, né somiglianza, né dissomiglianza, non sta ferma né si muove, né rimane quieta, né possiede una forza né è una forza, non è luce, non vive, non è vita, non è presenza né eternità né tempo, non ammette neanche un contatto intellegibile, non è scienza, né verità, né regno, né sapienza, non è uno né unità, né divinità, né bontà, non è neppure spirito, per quanto ne sappiamo, non è né figliolanza né paternità, né qualcosa delle cose che possono essere conosciute da noi e da qualche altro essere, non è nessuno dei non-esseri e nessuno degli esseri, né gli esseri lo conoscono in quanto esiste, e neppure essa conosce gli esseri in quanto esseri. Questa è la descrizione della teologia apofatica. Ha dimenticato qualcosa?

Intervento: Per descrivere la teologia apofatica si potrebbe andare avanti all’infinito.

Sì, certo, perché di quante cose si può dire “non è”? Cioè, si arriva al complemento booleano, di Boole. Prendete l’universo tutto, proprio tutto, e togliete Cesare. Quello che rimane. Tolto Cesare, è il complemento booleano di Cesare. Quindi, in effetti, si può andare all’infinito.