INDIETRO

 

 

21 dicembre 2022

 

L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger

 

L’ultima volta ci siamo fermati su una domanda di Heidegger relativa al fatto che l’essere non sia né qualcosa di compiuto né qualcosa di incompiuto. Si chiedeva Heidegger: come è possibile? Dovrebbe essere almeno una delle due. Invece no. A pag. 214. …ma è anche vero che ciò non costituisce affatto una contraddizione, purché comprendiamo di che cosa qui si tratta: non si sta parlando di un ente, che sarebbe nel contempo compibile e incompibile, bensì dell’essere, di cui si dice che il compiere, il portare a compimento, non gli appartengono in assoluto, poiché esso non ha assolutamente alcuna relazione possibile con tutto ciò. Secondo Heidegger, Parmenide è stato frainteso nel senso che questa contraddizione potrebbe darsi se si trattasse dell’ente, ma qui non si stratta dell’ente, si tratta dell’essere. L’essere non è quindi né mai incompiuto per diventare compiuto, né mai compiuto, poiché in tal caso dovrebbe un tempo essere stato incompiuto. Allo stesso modo, “incompibile” non significa che l’essere rimane costantemente incompiuto, bensì che non ha assolutamente e in nessun caso bisogno di compimento, poiché – conformemente alla sua unità – trae da sé la compiutezza;… È chiaro che se intendiamo qui ciò che Heidegger dice relativamente all’essere come qualcosa che possiamo riferire al linguaggio, diventa tutto molto più comprensibile. Il linguaggio non è compibile né incompibile, il linguaggio è il tutto, non manca di niente, non c’è qualcosa che manchi in attesa di essere compiuto. A pag. 215. In che modo Diels, in base alla sua traduzione, abbia potuto cavarsela in questa faccenda – sempre ammesso che volesse prendersi la briga di affrontarla –, mi è incomprensibile. Far dire a Parmenide che l’essere è “senza fine”, e “non può essere senza conclusione”, è senz’altro una contraddizione – soprattutto se (come Diels) glielo si fa dire dell’“ente”. Secondo Heidegger, Diels non ha inteso che Parmenide non parla dell’ente ma parla dell’essere. Potremmo dirla così: sta parlando del linguaggio, non di ciò che il linguaggio costruisce, cioè, le singole proposizioni. Se volete dirla con Severino: non parla degli astratti ma del concreto. Ma è proprio così che non si coglie assolutamente la questione. La contraddizione c’è solo nell’interprete e traduttore – ma non in Parmenide. Ciò viene peraltro chiaramente enunciato e fondato nel verso 33: “Infatti non è manchevole”; ma appunto mancante e carente dovrebbe essere l’essere per poter essere compibile nel senso usuale del poter giungere a compimento. Tuttavia se fosse in qualche modo carente, allora in esso vi sarebbe un “non”. Così però l’intera essenza dell’essere sarebbe distrutta. Ora approcciamo una questione importante. A pag. 216. Se ripercorriamo in uno sguardo d’assieme l’elenco dei σήματα e il procedimento dimostrativo per ciascuno di essi, constatiamo un duplice esito: 1) nel corso del procedimento dimostrativo scompaiono il mero accostamento e la mera successione degli aspetti. Heidegger coglie l’aspetto fondamentale del tutto, non si tratta di una sequenza di elementi più o meno giustapposti. Essi si intrecciano piuttosto unitariamente in una visione complessiva, cioè nell’unica prospettiva sull’essere. L’unità di questa prospettiva sull’essere si dimostra in quanto presente, presenza: da ogni punto di vista ciascun aspetto ci induce a scorgere qualcosa del genere. Presente e presenza dominano l’intera prospettiva sull’essere. A pag. 217. L’essere è presente e presenza. Ne consegue quindi – adesso, dopo aver concluso la fondazione dei singoli σήματα – un rinnovato richiamo alla tesi originaria (essere e pensare sono lo stesso), e precisamente nel senso che solo adesso essa viene anzitutto e propriamente dispiegata nel suo contenuto. A pag. 218. Nondimeno emerge qui proprio ora qualcosa di nuovo, ovvero άπεόντα, l’ente-assente, dunque l’antitesi dell’ente-presente. Ma nella nostra interpretazione, costretti dalla cosa stessa, non abbiamo forse detto che l’ἒν, in quanto presente, respinge essenzialmente da sé ogni non-presente, quindi ogni non-presenza (assenza)? Qualcosa come il non-presente (l’assenza) è rigettato ben lontano dall’essere, totalmente scacciato da esso. Adesso però non ci si limita a nominare ciò che è presente, ma si dice espressamente che per il percepire ciò che è assente – benché sia tale – rimane purtuttavia presente, e per la precisione saldamente ciò che è presente include in sé l’assente. Il non-presente, ovvero ciò che ha carattere di “non”… Che sappiamo essere escluso dal presente. Lo ha detto moltissime volte: non può pensarsi l’essere come sprovvisto di qualcosa. L’essere, benché sia essenzialmente in quanto presente, è ora in sé nullo. Una tesi, questa, che contrasta nel modo più stridente con tutto ciò che abbiamo detto finora. Come possiamo raccapezzarci in questa situazione? Ecco la questione importante: l’essere come presenza, ma una presenza che include in sé l’assenza. A pag. 219. Che cosa intendiamo con presente e assente? Παρεόντα – παρά: “lì-accanto, lì-vicino”; άπό: “via”; “lì” e “via”! Dove lì? Lì davanti ai nostri occhi; lì dove basta allungare la mano; lì a portata di mano – tutto ciò che si trova in tal modo immediatamente alla nostra portata. È questo che consideriamo presente. Il mio cappello, per esempio, non è qui a portata di mano, è via – forse nel mio studio? Analogamente in molti altri modi, per esempio nel caso di qualcuno che è via, lontano, ma è pur sempre “lì” al telefono o alla radio. Evidentemente non c’è un limite rigido tra “lì” e “via”, ogni cosa è sia l’uno che l’altro, però relativamente; a seconda – a seconda di che? Ciò che per la percezione sensibile non è immediatamente raggiungibile – è via –, per l’immediato richiamare alla mente è invece pur sempre lì, per esempio la Foresta nera, il Mare del Nord, Berlino. In tal caso non abbiamo nemmeno bisogno anzitutto di ricordare che un tempo siamo stati lì e li abbiamo visti, poiché del tutto a prescindere dal nostro ricordo ciò che abbiamo nominato ci è lì-davanti nella mente, per di più in un presente. Ma allora c’è in assoluto qualcosa di assente, se concepiamo in modo così ampio la cerchia di ciò che è presente, anzi la estendiamo a tal punto che tutto finisce per essere simultaneamente a portata di mano? Posto che vi sia alcunché di assente – e qualcosa di simile relativamente c’è –, allora anche questo assente può essere assente solo entro una cerchia di presenza. Ed è assente solo entro la cerchia della presenza nella misura in cui esso “è”, ed esso “è” solo in quanto presente – benché non abbia bisogno di essere sensibilmente percepito. Ed è proprio questo ciò che Parmenide vuole dire. Egli non intende stabilire un limite utile a distinguere tra determinate cose presenti e assenti, ma vuole dire qualcosa sull’assenza e la presenza – cioè che l’assenza è sempre inclusa nella presenza. Qui si pone una questione interessante, perché potremmo dire che il linguaggio è il sempre presente. Ora, l’accostamento di questi due termini, “sempre” e “presente”, potrebbe apparire singolare, dal momento che questi due termini sono linguisticamente considerati antonimi, retoricamente un ossimoro. Eppure, lui ci sta dicendo che ciò che è presente è sempre, questa presenza è sempre. Se ci pensiamo, il linguaggio è esattamente sempre presente, non c’è un momento in cui non c’è. Il sempre presente comporta che è un presente che tuttavia non è un presente, perché è sempre, quindi, è un’altra cosa. Come sappiamo, il presente non può essere sempre, il presente è qui e adesso e non sempre; quindi, questi due termini sono in disaccordo tra loro. Ma, se ci riflettiamo meglio, ci accorgiamo che in questo c’è qualcosa di notevole. Intanto, il linguaggio è solo presenza, non c’è altro che presenza, è sempre e soltanto presenza. Ma pensate alle implicazioni di una cosa del genere, non sono irrilevanti: non c’è né passato né futuro se non come costruzione, come fantasia, tutto è sempre presente, come dire che tutto non è mai presente, perché non lo è. Il fatto di esserlo “sempre” comporta il fatto che non lo sia mai. Quindi, questo presente non è mai e, in quanto non essere mai, è sempre. Il fatto che il linguaggio, ciò che diciamo, ciò che pensiamo, è sempre il presente, come lo determino? Non lo determino mai. Quindi, è “sempre” in quanto indeterminato e indeterminabile. Sono due facce dello stesso. A pag. 220. Ne possiamo dedurre che la presenza e il presente debbono essere concepiti nell’ampiezza più estesa possibile. Ma quanto estesa? Parmenide dice: κατά κόσμον, per il mondo intero in ogni direzione. Il termine κόσμος non significa qui la natura in senso stretto – nel senso della “cosmologia” –, bensì ciò che noi abbiamo chiamato l’ente nel suo insieme. L’unità della totalità di questo insieme è il mondo. Quest’Uno della presenza, che per primo apre lo spazio-di-azione per tutto ciò che è relativamente pre-ente e abs-ente, quest’unica presenza in cui ogni ente è presente, non è quindi più una presenza relativa, una presenza “a seconda” delle circostanze. Questa presenza è costante, è sempre, solo che questa presenza non la delimito, non la determino. In un certo qual modo non potrei neppure parlarne, perché, se non è delimitabile, determinabile, di che cosa parlo esattamente quando parlo di presenza? Questa è una grossa questione: di che cosa parliamo esattamente quando parliamo? Adesso stiamo parlando della presenza, certo, ma di qualunque cosa io parli, esattamente di che cosa sto parlando? Qui stiamo tornando alla questione del problematico e del non problematico, di cui Heidegger parlava nelle prime pagine: l’ente sarebbe il non problematico, l’essere, il problematico, ciò che questiona, che interroga, sarebbe l’indelimitato, l’indeterminato. Certo, se io approccio dei termini come questo, il presente, sicuramente non è facile da determinare, ma se parlo del tavolo? Cosa c’è di più semplice da determinare? Un piano supportato da uno o più supporti, su cui si appoggiano cose. Sì, certo, questa è una definizione corrente, quindi, non problematica. Quando diventa problematica? Quando la metto a tema, cioè, la interrogo e continuo a interrogarla, e allora anche il tavolo diventa come la presenza, svanisce. Come approccia Parmenide questa presenza? A pag. 221. Di tutto ciò Parmenide non parla. Al contrario, egli dice che questa presenza è tale per il νούς, dunque pur sempre in relazione a qualcosa. Ma il νοεῖν è il percepire l’essere – sicché si dice: ogni ente è relativo all’essere. Questo essere non può venire spezzato e frantumato, per poi perdersi nella dispersione, o viceversa venire da ciò ricomposto, poiché, al contrario, in quanto presenza esso precede comunque qualsiasi distinzione tra ente e non-ente. Il νοεῖν non spezza, né disperde, né ricompone i pezzi, ma riunisce in unità originaria la presenza, in termini assoluti. Quest’ultima non è lì presente dispersa da qualche parte, poiché viene anzitutto e in primo luogo messa in forma e posta dinanzi dal νοεῖν in quanto tale, come qualcosa che è essenzialmente lì di fronte. È presente, è la presenza. Ecco che la sua famosa citazione, ciò da cui è partito tutto – essere e pensare sono lo stesso -: sì, l’essere e il pensiero è ciò che è presente, il linguaggio è ciò che è presente, qualunque cosa sia non importa, ma se è presente è linguaggio. Il νοεῖν è questo at-tendere-incontro alla presenza prendendosene cura – in breve è il presente. Il per-cepire è l’unità raccolta originariamente raccogliente. A pag. 221. Adesso però assumiamo il presente come il prendere forma, lì di fronte, di una presenza. Presenza: il carattere dell’essere dell’ente. Cioè, l’essere dell’ente è la sua presenza. Il presente diviene allora il modo della percezione formativa della presenza. Ciò che intendiamo dire ci diventa in un primo momento più chiaro se consideriamo il significato del termine “il richiamare alla memoria” (il “fare presente a noi stessi”). Se adesso richiamiamo alla mente (ci facciamo presente), per esempio, Berlino, allora ampliamo la cerchia della presenza – e ciò che ne risulta è che tale ampliamento è possibile solo perché attorno a noi c’è già sempre essenzialmente una cerchia di presenza. Non sto parlando del singolo ente presente, ma della presenza in quanto tale. La cerchia della presenza non diventa più ampia per il fatto che vi “includiamo” qualcosa in più che finora era assente, bensì all’opposto: questo ente ulteriore, altro, rimanente, lo possiamo “includere” solo se si è prima ampliata la cerchia (lo spazio-di-azione) della presenza in quanto tale. Che è un altro modo per dire che questa cosa è possibile richiamarla perché è presente nel linguaggio, è sempre stata lì, così come tutte le cose sono sempre state lì e sono sempre lì, quelle passate, presenti e future. Come abbiamo detto tante volte, possiamo non vederle, non coglierle, possiamo non cogliere ciò che sarà tra duemila anni, ma è già qui, in un certo qual modo è presente, vale a dire, non è fuori del linguaggio. Non è che ciò che sarà tra duemila anni farà diventare più ampio il linguaggio, no, il linguaggio è sempre quello, quindi, necessariamente è già qui in quanto relazione. A pag. 222. Questa presenza però ci circonda già sempre: la presenza in quanto tale è cioè la prospettiva in cui guardiamo, non nel senso del guardare una singola cosa presente lì davanti, ma del guardare in quanto tale. Cioè, possiamo guardare perché siamo nel linguaggio, sennò non guardiamo niente, perché non c’è niente da vedere. Il guardare si forma in anticipo la prospettiva ponendosela di fronte. In termini più precisi: la possibilità dell’ampiezza più estrema sussiste nell’essenza, e solo nel concreto viene sempre già limitata. Severino direbbe che ci vuole il concreto perché ci siano gli astratti. Proprio per questo però non possiamo assumerla come criterio di misura, bensì all’opposto. Ciò che di solito propriamente facciamo è porre dei limiti, ottenere una delimitatezza della cerchia della presenza. Questo guardare formativo e ponentesi-di-fronte costituisce il carattere del νοεῖν. È il νοεῖν che dà forma alle cose, è il mio pensiero che dà forma alla presenza. Una presenza che comunque è presente da sempre, è un “sempre presente”. Il mio pensiero dà forma, delimitando, chiaramente, delimita le cose; se non le delimitasse o, come diceva Anassimandro, se c’è la concordia, non si distingue niente perché non c’è nulla di delimitato. Noi lo chiamiamo l’at-tendere-incontro, o fare-presente, in quanto preformazione della presenza. Il termine “presente” definisce adesso il comportamento fondamentale del νοεῖν. Tale comportamento, in quanto guardare in sè formativo… È un guardare che forma. Sta dicendo alla lettera ciò che fa il νοεῖν: dà forma. …consiste nel progettare la presenza. Scorgere con lo sguardo significa sia preformare nel guardare sia distogliere lo sguardo rivolgendolo altrove. Viceversa, la presenza così concepita dispiega la sua essenza solo in quanto è ciò che (nel progetto del guardare formativo) viene progettato. Qui dobbiamo riflettere un momento sulla questione. Dice la presenza così concepita dispiega la sua essenza solo in quanto è ciò che viene progettato. Cos’è che viene progettato? Nel pensiero di Heidegger il progetto è ciò che determina il Dasein, l’esserci, cioè, l’uomo. Ma un progetto verso che cosa? Cosa si progetta? Se volessimo prestare ascolto alle parole di Nietzsche diremmo che è l’onnipotenza. È questo che si progetta, ed è questo che ciascuna fantasia rincorre: l’onnipotenza. Ed è alla volontà di potenza che il νοεῖν, il pensiero, dà forma, ciò a cui attribuisce una forma; di volta in volta gli dà la forma di un utilizzabile per la volontà di potenza. In questo modo però abbiamo solo stabilito in termini più precisi ciò che Parmenide intende quando nella tesi-originaria dice: “percepire ed essere si coappartengono”. Se volessimo dirla in un altro modo, potremmo dirla così: posso percepire solo nel linguaggio; fuori del linguaggio non percepisco niente, perché non c’è niente da percepire. Essere infatti significa sempre presenza; e tale presenza dispiega la sua essenza solo nel presente del νοεῖν. Qui insiste su questa cosa che è importante, perché tutto il linguaggio non è che presenza. E, in effetti, riflettendoci potremmo chiederci: potrebbe essere altrimenti? Sappiamo bene che quando pensiamo il passato – questo poi lo riprenderà Gentile – lo pensiamo adesso, e se io voglio prefigurarmi il futuro, me lo sto prefigurando adesso, non posso essere nel futuro, non posso essere nel passato. Ecco perché l’essere è sempre un continuo e incessante presente. Si tratterebbe di coglierne tutte le implicazioni, ma lo faremo man mano. Questa a mio parere è una direzione di grande interesse. A pag. 223. La presenza è essenzialmente nel presente. Non è nient’altro che il tempo – quel tempo che noi stessi temporalizziamo. La tesi-originaria e la tesi-temporale dicono “lo stesso”. Essere e pensare, essere e tempo, sono lo stesso. Le difficoltà che in un primo momento il frammento 2 sembrava far emergere – come se vi si sostenesse comunque l’appartenenza del “non” e del “via” all’essere – non sussistono più. Parmenide non dice affatto che l’assenza appartiene all’essenza dell’essere in quanto presenza, bensì che la presenza è in modo talmente originario il Tutto uno, unitario, semplice, singolo, che senza di esso l’ente-assente, l’abs-ente, non sarebbe nemmeno possibile. Se il linguaggio non fosse la presenza, anche l’assenza non sarebbe pensabile. È una questione complessa, certo, però la pensabilità dell’assenza deriva dalla presenza dell’essere, dall’essere in quanto presenza. Solo così posso pensare l’assenza. Quindi, a questo punto l’assenza e la presenza appaiono ovviamente come due momenti dello stesso, inscindibili e inseparabili, sono la stessa cosa. Lo dicevamo prima con altre parole: dire che la presenza è sempre è come dire che appartiene alla presenza qualcosa che alla presenza non appartiene affatto, anzi, che la nega, è la sua negazione, perché l’assenza nega il presente. Quindi, nel presente è presente la sua negazione. Da dove provengano poi l’“ab”, il “via” e il “non” – se come sostiene Parmenide non possono provenire dall’essere –, è una questione ulteriore, che però Parmenide non pone e a cui non dà risposta. Non ne aveva bisogno. Non è che viene da qualche cosa, viene da ciò che ha già detto: viene dall’essere, l’assenza viene dalla presenza, si coappartiene con la presenza, non è che viene da chissà dove. Non è come per Platone che si è dovuto inventare l’Iperuranio, è già lì, è già nella presenza, non deve arrivare da chissà dove. Al tempo stesso tuttavia con la sua determinazione essenziale dell’essere egli compie il decisivo lavoro preliminare per affrontarla, nella misura in cui in assoluto e per la prima volta semplicemente mostra che v’è qualcosa come il non-essere nella forma della parvenza. Questo va naturalmente contro l’idea che ebbe Platone del parricidio nei confronti di Parmenide. Parmenide aveva già posto il terzo elemento, cioè la parvenza; Platone non ha compiuto nessun parricidio. Ovviamente, in base al suo concetto di essere egli deve dire: la parvenza non è. Nondimeno la parvenza non può essere equiparata al puro nulla. Ci si chiede quindi che cosa e come essa sia, e la risposta suona: il suo come è il sembrare. Prima ancora però ci si deve domandare: che cos’è la parvenza? Che aspetto ha? A pag. 227 riprende la questione dell’opinione; con la parvenza siamo chiaramente nella δόξα, nell’opinione, in ciò che sembra. Come dicevamo l’altra volta: c’è l’essere, il non-essere e ciò che credo che sia. I primi due non li possono conoscere, non posso conoscere l’essere perché è non-essere, non posso conoscere il non-essere perché è essere; quindi, è come se si sbarrasse il passo alla conoscenza di questi termini. Ciò, invece, di cui posso dire è la δόξα. Qui è Parmenide che parla, nella traduzione di Heidegger. 51) A partire da qui (da ciò con cui ho concluso) impara a conoscere l’opinione degli uomini, ascoltando il mio discorso come un parlare totalmente colmo d’inganni (in quanto parla di inganno e parvenza). Per ogni discussione relativa alle opinioni essi stabilirono infatti esservi due vedute, di cui è inammissibile (dire) che una sola di esse “sia”. E in tutto questo (stabilire) essi sono gli erranti. Qui la deaΑλήθεια dice una cosa complicata, perché dice che le opinioni stabiliscono due vedute, di cui una è inammissibile. È il principio di non contraddizione. 55) Essi hanno prodotto i contrapposti in base alla figura,… Qui è come se la dea ci stesse dicendo che gli umani si sono creati il principio di non contraddizione. Vediamo se ci dice anche a che scopo. Essi hanno prodotto i contrapposti in base alla figura, fissandone separatamente l’uno dall’altro (ciascuno per sé) gli aspetti (per la visione). Ecco perché: per potere gestire, controllare, vedere. La dea sta dicendo che gli umani si sono costruiti, inventati, il principio di non contraddizione per potere dominare l’ente.

Intervento: La visione delimita…

In effetti, soltanto se delimito posso parlare; se non delimito non parlo. È come la questione del tavolo di prima. Certo, ne posso parlare finché voglio, perché io arbitrariamente lo delimito all’interno della definizione che ho posta, ma se continuassi a interrogarlo? Come dire che, dicendo una cosa, escludo che sia un’altra, cioè, dico che è un piano e, quindi, escludo che sia qualcos’altro. Pertanto, procedo per esclusioni, così come anche nel principio di non contraddizione si procede per esclusioni: questo sì, questo no. Questa è una cosa che può avere degli effetti: cominciare a comprendere ciò che la dea Αλήθεια sta dicendo, e cioè che il principio di non contraddizione è stato costruito, inventato dagli umani per potere dominare le cose, quindi, per potere parlare. Perché è questa la questione: dominare le cose è la condizione per potere parlare; se non le domino, cioè se non le delimito, non posso parlare, il mio parlare si infinitizza, è come se ci trovassimo sempre in ciò che Anassimandro chiamava πειρον. Ci vuole la discordia, dice Anassimandro, e la discordia è il delimitare. Occorre che due elementi siano posti come discordanti, non è che siano discordanti, li pongo io: è questo che sta dicendo la dea. Essi hanno prodotto i contrapposti, non è che li hanno visti, o li hanno notati, scoperti, no, hanno prodotto. È la traduzione di Heidegger, ma credo che sia affidabile. A pag. 228. Soffermiamoci brevemente sul significato del termine δόξα e su come la questione viene intesa dai greci. La δόξα è “visione”. Heidegger traduce così ciò che solitamente viene tradotto con opinione. Dunque, la visione è un’opinione, ciò che io vedo è ciò che io opino: è il δοξάζειν, il credere di sapere, di vedere. 1) la stima di cui qualcuno gode e che si dà in maniera in qualche modo vincolante (essere persona stimata); … Sono tutte traduzioni di Heidegger del termine δόξα. …in genere la veduta che qualcosa offre, la veduta di un paesaggio, una città; 2) visione come parere, opinione: “sono del parere che”, “sono dell’opinione che”, qualsiasi fissazione, imposizione applicata – secondo l’opinione – alle apparenze! Dunque, in primo luogo: δόξα in quanto carattere di ciò che appare in quanto tale… Questa è un’altra questione notevole. Heidegger concentra tutto in poche righe, ma dire che in primo luogo: δόξα è ciò che appare in quanto tale vuol dire che ciò che mi appare non è altro che opinione; è questo che io vedo: la mia opinione, ciò che io opino. …veduta che si offre: δέμας, “figura” – cfr. quindi in seguito εἶδος, ιδέα); in secondo luogo: δόξα in quanto carattere del comportamento nei confronti di ciò che appare, quindi l’opinare, il ritenere, il pronunciarsi in merito a qualcosa: όνομάζειν; δοξάζειν. Siamo arrivati al δοξάξειν. Ciò che io vedo è il δοξάζειν, ciò che credo di sapere: questo è ciò che vedo, dice Heidegger leggendo Parmenide.