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21 marzo 2018

 

C. Sini, Semiotica e filosofia

 

Ciò che segue a ciò che finora abbiamo detto non è che aggiunga moltissimo rispetto a ciò che ci interessa. Il discorso essenziale che ci interessa è il fatto che è come se ci fossero due momenti, da una parte la volontà di potenza e dall’altra il funzionamento del linguaggio, per giungere a considerare che la volontà di potenza non è altro che il funzionamento stesso del linguaggio. Peirce cosa aggiunge a questo riguardo? Lui dice che qualunque cosa è un segno, quindi qualunque cosa, essendo un segno, un rinvio, è come se fosse sempre in attesa di un’altra cosa che lo determina. Ciò che manca in Peirce, nel senso che non si è mai posta la questione, è il motivo, cioè il fatto che ciascun segno, rinviando a un altro segno, si attende da quest’altro segno una sua determinazione e, quindi, la sua controllabilità, potremmo dire, la sua utilizzabilità. Questo è un aspetto importante, lui lo sfiora quando dice a pag. 95 “l’essenza della ragione è tale che il suo essere non può mai essere stato completamente perfezionato. Esso deve esser sempre in uno stato di inizio, di incremento”. Perché dico che sfiora la questione? Perché la ragione, in effetti, e anche lui se ne accorge, è qualcosa che è sempre proiettata in avanti, verso una comprensione, che nel caso di Peirce, rispetto alla sua formuletta a è b, per comprendere la a occorre la b, ma per comprendere la b occorrerà una c, e così via. Questo dice che questo essere sempre e inevitabilmente proiettato in avanti costituisce il modo in cui funziona il linguaggio. Ma non basta! Non basta perché questo essere sempre proiettato in avanti tiene sempre necessariamente conto, e qui c’è Heidegger ovviamente, di tutto ciò che ha preceduto, che ha costituito e continua a costituire il motivo per cui si proietta in avanti. Questo in Peirce c’è marginalmente, c’è invece in modo molto forte in Heidegger, dico marginalmente perché poi, di fatto, anche Peirce affronta comunque la questione ponendo una sorta di circolarità. Per lui si muove dall’estetica, dalla percezione di qualche cosa, questo qualche cosa ha la possibilità di essere significato, se è un segno necessariamente, la è della formuletta a è b; e, quindi, la b che rappresenta quello che lui chiama il simbolo, e cioè ciò che determina la percezione e che la fa essere quella che è. Questi tre momenti sono in realtà simultanei, non è possibile isolarne uno. È il terzo elemento che dà un senso al primo ma senza il primo non potrebbe esserci l’ultimo. Si ruota sempre intorno a una questione, che abbiamo individuata, e cioè la necessità, ed è qui il problema, nel senso heideggeriano del termine, del linguaggio, per cui ciascuna parola occorre che sia quella che è per potere essere qualche cos’altro, ma può essere qualche cos’altro perché è quella che è. È questo il problema del linguaggio, che non ha una soluzione, nel senso che questo è il funzionamento del linguaggio e, pertanto, non ha una soluzione. Questo può intendersi anche in un modo prossimo a Nietzsche, cioè questo movimento in avanti che si trascina sempre l’elemento da cui è partito. Certo, Nietzsche non lo formula in termini prettamente filosofici o analitici, lui scriveva in un altro modo, però, la questione in Nietzsche è ben presente quando parla dell’eterno ritorno. L’eterno ritorno non è nient’altro che, per usare un’altra frase famosa di Nietzsche, ciò che fu io volli che fosse, cioè ciò che è stato è sempre presente, è in questo senso che torna sempre, è qui, non ha mai cessato di essere qui. Questo ci porta ad affrontare la questione, di cui parla Peirce in modo più interessante, perché ci dice che ogni parola che interviene parlando muove da qualcosa, lui dice l’estetica, ciò che percepisco, ma che cos’è che propriamente percepisco? Ciò che percepisco, se ci atteniamo a ciò che dice Peirce, non può essere altro che un altro segno, perché ciò che precede una parola, cioè un segno, è un altro segno, ovviamente. Quindi, io parto sempre dall’estetica, che sarebbe la percezione di quel segno che mi consente di trovarmi nel segno in cui mi trovo adesso. Questo dove ci porta? Ci porta a riprendere delle considerazioni che facevamo tempo fa, e cioè che qualunque cosa viene costruita sulla chiacchiera, direbbe Heidegger, sul modo di pensare, sull’abito, direbbe Peirce. Ma le due cose, la chiacchiera e l’abito, non sono così distanti perché entrambe costituiscono ciò che dà un senso a ciò che io incontro, ma ciò che incontro è qualcosa che ha un senso perché è già preso in questo circolo vizioso, perché c’è, direbbe Peirce un interpretante, che mi consente di cogliere ciò che sto cogliendo nel modo in cui lo colgo. Ciò che sto cogliendo non è un qualche cosa ma è semplicemente un altro segno, un’altra parola. È questo il messaggio più importante, quello fondamentale, in Peirce: ciò che colgo è sempre un altro segno. Se lui dice che un segno è sempre un segno per un altro segno, è inevitabile giungere a concludere che qualunque cosa incontri non può essere qualche cosa che è al di là del segno, fuori del segno, come voleva, per esempio, Husserl, con il suo immediato percepire la cosa in carne e ossa. È sempre e necessariamente un segno ciò che percepisco, ciò che vedo, ciò che tocco. Infatti, lui aveva parlato abbastanza a lungo dell’impossibilità di immaginare un qualche cosa che si manifesti da sé fuori da una catena segnica, perché se così fosse sarebbe niente, mentre se è qualche cosa è perché è all’interno di una combinatoria. Dice a pag. 101 Dal punto di vista delle scienze normative… La logica, l’estetica e l’etica. Sono normative perché dovrebbero dire come stanno le cose. …la condotta, allora, è il tutto… La condotta, cioè il modo in cui rispondo a qualche cosa. …la qualità estetica il suo “che”; la ragione logica il suo “come”, il suo “dove” (o verso “dove”). La ragione mi dice il “come” di questa condotta, come mi sto muovendo, per quale motivo. Ma si potrebbe anche dire in questo modo: la condotta e le sue qualità estetiche sono il tutto del “fatto” (o, forse meglio, dell’evento); la ragione logica il tutto del “significato”. Questo aspetto che lui sottolinea più volte, cioè della condotta, dice, lo ripeto, la condotta e le sue qualità estetiche sono il tutto del “fatto”. La condotta è il tutto del fatto, cioè l’evento è determinato dalla condotta, vale a dire, dal modo in cui rispondo a qualcosa. L’evento, quindi, non è qualcosa che è fuori dalla sequenza di segni, l’evento è l’accadere del segno. Questo accadere del segno non è che accada così a caso ma è vincolato alla condotta, cioè all’abito, al modo della mia risposta. In che modo io rispondo a ciò che incontro? È questa la mia condotta: il modo in cui rispondo. È ovvio che in questo ci sono tutti e tre gli aspetti, l’estetica, l’etica e la logica. Come abbiamo visto, l’etica dice in che modo io sono disposto ad accogliere una certa cosa; la logica, il come affronto questa cosa. Però, se qualcosa è bella, giusta, ecc., questo è l’etica a deciderlo, cioè il mio modo di essere disponibile ad accogliere una certa cosa. Per rendere la cosa più semplice, possiamo dire che ciascuna cosa mi appare nel modo in cui sono disposto a farla apparire. Non è che sia io a farla apparire ma è la mia risposta a questa cosa. Tenete sempre conto che questa cosa è un segno, e cioè io rispondo a un segno in un certo modo, con una certa condotta, e questa determinerà il significato di quel segno, cioè, che cosa vuole dire. Siamo, quindi, sempre più all’interno, per così dire, della questione della parola. Mi appare una parola, parola mia o di altri, non ha importanza, in che modo io rispondo a questa parola che mi appare? Nel modo in cui sono disposto a rispondere a quella parola. E in che modo sono disposto a rispondere a quella parola? Questo modo di rispondere non è altro che il mio abito, cioè la chiacchiera. Badate bene, è la chiacchiera, perché la logica, per Peirce, lo dice a pag. 97 La logica è radicata in un principio sociale. Il principio sociale è la chiacchiera, né più né meno, quindi, dicendo che la logica è radicata nella chiacchiera dice che la sua validità, la sua veridicità, la sua forza di verificazione, è radicata nella chiacchiera, cioè nell’abito, nel modo di pensare, nel senso comune, ciò che i più pensano per lo più, nel sentito dire. Introducendo la questione della plausibilità, dice a pag. 110 Il mondo si trova pertanto coinvolto nelle inferenze abduttive degli organismi viventi non meno e non diversamente da come queste inferenze si trovano coinvolte in quello e da quello. Esso è in cammino verso la verità “pubblica” di relazioni che, imponendosi al riconoscimento, divengono nel contempo reali. Quindi, il mondo è in cammino verso la verità pubblica. Cosa vuol dire pubblica? Possiamo pensarla un po’ come la pensava Wittgenstein: è un discorso pubblico, non esiste un discorso privato che esiste solo per me, il discorso è necessariamente pubblico in quanto si rivolge sempre a qualcuno, anche se sono io l’interlocutore, ma c’è sempre e comunque qualcuno a cui si rivolge, qualcuno per cui ciò che dico ha un senso, cioè, qualcuno che rimanda un senso a ciò che dico. Questa verità pubblica si impone al riconoscimento. La verità pubblica è sempre e solo quella della chiacchiera e questa diventa nel contempo reale, cioè, ciò che accade nella chiacchiera diventa reale. È questa la realtà: ciò che dice la chiacchiera, la verità pubblica della chiacchiera. Poi, prosegue dicendo L’interesse per le uniformità, o relazioni importanti, dice Peirce, esprime il posto di un animale nella scala dell’intelligenza; ma ciò indica anche il grado di sviluppo della realtà correlativa del mondo pensato secondo quel livello di intelligenza. È così che diventa “vero”, in forma “pubblica” o sociale, che il mondo possiede i caratteri del duro, del dolce, del fragrante, del verde, del brillante, ecc., come caratteri di cose “relative alle percezioni e alle forze attive” di noi “esseri viventi”. Il processo intelligente o abduttivo rende noi capaci di percepire il verde come carattere importante, e rende nel contempo verde il mondo. Le due cose sono la medesima; il processo è il medesimo, considerato da due punti di vista correlativi. Ci sta dicendo che il duro, il verde, il caldo, il blu, ecc., tutte queste cose procedono da una verità pubblica, dalla chiacchiera, procedono cioè da quella realtà, di cui dicevamo prima, che non è niente altro che la verità pubblica della chiacchiera. Se questa è la realtà, ovviamente, anche la durezza e tutto quanto procede dalla chiacchiera, affonda le sue radici nella chiacchiera, non ha altra sorgente. È per questo che dicevamo già tempo fa che una qualunque teoria, anche la più sofisticata, trae il suo fondamento, la sua linfa vitale, dalla chiacchiera, cioè, da niente. Peirce, infatti, pone l’accento su un tipo particolare di inferenza, l’abduzione, che poi, in fondo, è un’ipotesi, ipotesi che trae la sua verità da una possibilità, dice “è possibile che sia così!”: se tutti gli assassini tornano sul luogo del delitto, forse costui è l’assassino, forse, chi lo sa? A lui interessa intendere perché noi accogliamo una possibilità anziché altre, e fa un discorso per cui dice che ci troviamo sempre di fronte a un numero infinito di possibilità, però, non possiamo pensare in questo modo: se ogni volta ci fermassimo per considerare tutte le infinite possibilità saremmo bloccati. Quindi, c’è un qualche cosa che sblocca questo sistema, e dice È indifferente dire, a questo punto, che il mondo è verde perché questa è l’opinione o credenza finale su cui convengono “pubblicamente” tutti gli uomini capaci di vedere e di pensare, oppure che tutti gli uomini devono per forza convenire su ciò perché il mondo è verde. Ed è all’interno di questa differenza in-differente che il circolo vizioso della plausibilità si rivela, più che vizioso, proficuo. Dice che accogliamo fra queste infinte possibilità quella più plausibile, ma cosa vuol dire questo? Il tropismo verso la verità non è un istinto misterioso o una capacità esoterica: esso è semplicemente l’essere-nel-mondo da parte dell’uomo, secondo un’originaria dis-posizione che è essa il fondamento di ogni criterio di “razionalità”. Detta così non è che significhi molto, questa disposizione sembra qualcosa di naturale. È chiaro che la questione potrebbe essere intesa in modo più appropriato intendendo, anziché porla in termini di un qualcosa di naturale che avviene come una disposizione, qualcosa che invece procede dal funzionamento del linguaggio. Affidandosi in generale alla “plausibilità” l’uomo mostra di conoscere la propria originaria collocazione nel mondo, il suo aver già sempre interpretato per poter interpretare, assai meglio dei suoi pregiudizi intellettualistici che lo vorrebbero contrapposto a un mondo estraneo (“esterno”), oggettivo e in sé. Questo è importante. Dice l’uomo mostra di conoscere la propria originaria collocazione nel mondo. Sì, infatti ha già da sempre interpretato e questo lo diceva nelle prime pagine: ha già da sempre interpretato perché non è possibile il primo segno da cui parte tutto, quindi, si trova già sempre preso, come direbbe Heidegger, nel mondo: nasce nel mondo, nella chiacchiera, nasce già con un bagaglio di cose, che si ritrova a un certo punto, che fanno parte di lui, del mondo che lui stesso è. Quindi, non c’è il punto di origine, un qualcosa da cui parte tutto quanto, è per questo che parla di circolo vizioso. Così come non c’è il primo elemento estetico da cui si parte, perché ci sia occorre che ci sia già il segno. Dice anche il suo aver già sempre interpretato per poter interpretare. Sì, certo, occorre che ci sia un segno prima perché quello che io colgo come segno sia segno, e questa è l’obiezione che Peirce pone a coloro che vorrebbero contrapposto il mondo esterno, oggettivo e in sé. No, non c’è, dice, questo mondo oggettivo, in sé, che io penso che sia, lo penso perché è esistito un segno precedente che io ho già interpretato e che mi consente di pensare che questa cosa esista di per sé. Ecco, quindi, la questione della plausibilità. Che cosa è plausibile? Ciò che la chiacchiera mi induce a pensare che sia plausibile, che sia possibile. Io non so se quel tizio che è lì sia l’assassino, non lo so; che cosa mi indice a pensare che sia l’assassino? La chiacchiera, il si dice. Questa è l’abduzione, cioè, secondo Peirce, l’inferenza attraverso cui gli umani pensano; raramente utilizzano, solo in casi particolari, la deduzione e l’induzione. Tra l’altro era curioso che tanti anni fa in un testo di Kleene sulla metamatematica, ma anche altrove, si parlava della dimostrazione dell’induzione, del teorema di induzione, cioè il teorema che giunge a dimostrare la verità dell’induzione. Il problema era che all’interno di questo processo dimostrativo, che doveva giungere al teorema che diceva che l’induzione è vera, c’era, inevitabile, un passaggio deduttivo. Quindi, occorre poter dimostrare la deduzione perché questa dimostrazione dell’induzione sia un teorema, cioè sia necessariamente vera. Il problema è che per dimostrare la deduzione è necessario un passo induttivo. Quindi, per dimostrare la deduzione occorre l’induzione, per dimostrare l’induzione occorre la deduzione. Ecco, era questo il problema, che, poi, di fatto, non è un problema. Certo, per la logica analitica costituisce un problema perché vorrebbe che tutto filasse liscio, cosa che non succede mai, ma non è un problema nel senso che mostra, di fatto, un altro modo per incontrare quel problema che è il linguaggio, e cioè che qualunque cosa, per poter essere quella che è, occorre che sia un’altra cosa, ma quest’altra cosa è un’altra cosa a condizione che sia quella che è. È sempre questa la questione, questo è il problema del linguaggio, problema sempre nell’accezione heideggeriana, quindi non come ostacolo; come dicevamo prima, non possiamo risolvere il problema, sarebbe come risolvere il linguaggio, non avrebbe alcun senso. In effetti, per evitare questo, l’unico modo è cessare di parlare per sempre. La risposta, la soluzione che dà Peirce al problema che sollevava prima, e cioè di fronte all’infinita possibilità di decisioni, con cui mi trovo ad avere a che fare, ne scelgo una in base a questo “principio di plausibilità”. Che cosa è più plausibile? Il si dice, il si pensa che è così, e cioè ciò che costituisce il fondamento di ogni pensare, fondamento che fonda assolutamente niente perché, come sappiamo, è assolutamente infondabile, perché a sua volta non è fondato su niente. È questo che sta dicendo Peirce, non è che ci abbia fornito molte altre informazioni che non avevamo. Piuttosto, direi che ha dato qualche occasione ulteriore per riflettere ancora sulla questione. Ritengo che senza la lettura che abbiamo fatta di Heidegger, forse oggi non potremmo leggere in questo modo. C’è una nota qui a pag. 118, che è un po’ un riassunto della posizione teorica di Peirce. Un diagramma geometrico è un buon esempio di icona. In una icona ciò che appare rinvia per somiglianza a qualche cosa, è una raffigurazione di qualche cosa. Una pura icona non può veicolare alcuna informazione positiva o fattuale; essa infatti non fornisce alcuna assicurazione che una qualche simile cosa esista in natura. Perché io riconosca una icona russa devo sapere che quella è la Madonna, altrimenti che cosa vedo? Ma essa è di estremo valore nel porre il suo interprete in grado di studiare quale sarebbe il carattere di un tale oggetto in caso che esso esistesse. Se esiste la Madonna allora so che questa è un’icona. La geometria illustra a sufficienza tale caso. Di natura completamente opposta è il genere di rappresentazione chiamato indice. L’indice è ciò che indica, ciò che mostra qualche cosa che, però, non ha nessuna attinenza con ciò che indica. Questo è una cosa o un fatto reale che è un segno del suo oggetto in virtù della sua connessione con esso come materia di fatto e anche in virtù della sua vigorosa intrusione nella mente (dell’interprete), indipendentemente dal suo essere interpretato come un segno oppure no. Pensate alla freccia che indica la direzione: questa freccia non ha nessuna connessione diretta con una direzione. Però, dice una cosa importante per chiarire questa cosa, dice in virtù della sua vigorosa intrusione nella mente (dell’interprete). Ma perché possa intromettersi nella mente dell’interprete, questi deve già sapere che questa freccia ha un utilizzo, che mi indica una direzione. Ma molto spesso la natura della connessione fattuale dell’indice col suo oggetto è tale da suscitare nella coscienza un’immagine di alcune strutture dell’oggetto medesimo e in tal modo fornisce un’evidenza dalla quale può essere ricavata una positiva assicurazione circa la verità del fatto. Una fotografia, per esempio, non soltanto eccita un’immagine e ha un’apparenza sensibile, ma, a causa della sua connessione ottica con l’oggetto, è un’evidenza che quell’apparenza corrisponde a una realtà. Tutte cose che devo già sapere. In questo caso la fotografia è un indice ma potrebbe essere anche un’icona. Se lui la pone come indice, ovviamente, è come se una fotografia fosse come una freccia che indica l’oggetto reale che è magari assente in quel momento, però, dice che c’è un oggetto reale. Un simbolo è un representamen il cui significato speciale o la cui capacità appropriata di rappresentare proprio ciò che rappresenta riposa esclusivamente sul fatto dell’esistenza di un abito, di una disposizione, o di un’altra effettiva regola generale che sarà appunto così interpretata. Il simbolo, dunque. La bandiera italiana è un simbolo; il bianco, il rosso e il verde non hanno di per sé niente a che fare con l’Italia, però, questa corrispondenza è data da un’abitudine, cioè, siamo abituati, quando vediamo un cencio bianco, rosse e verde che sventola… quando uno arriva dalla Francia e vede questa cosa dice “ah, ecco, siamo in Italia”. Si prenda ad esempio la parola “man”. Queste tre lettere non sono minimamente simili a un uomo; né lo è il suono con il quale esse sono associate. Né la parola è connessa esistenzialmente con qualche uomo alla maniera di un indice. Non si possono dare tali circostanze dal momento che la parola non è in alcun modo un’esistenza. La parola non consiste infatti di tre tratti di inchiostro. Se la parola “man” ricorre centinaia di volte in un libro del quale sono state stampate migliaia di copie, tutti questi milioni di tre macchie d’inchiostro sono incarnazioni di una e medesima parola. Io chiamo ognuna di queste incarnazioni una replica del simbolo. Questi tre segnetti, m, a, n, sono simbolo, non indicano nulla, non rappresentano nulla, non rinviano a nulla di fatto. Sono un simbolo, cioè, interpretiamo questi tre segnetti con un abito, per un’abitudine. Ciò mostra che la parola non è una cosa. Qual è la sua natura? Essa consiste nella reale attuazione della regola generale secondo la quale tali tre macchie, viste da una persona che conosce l’inglese, produrranno effetti sulla sua condotta e sui suoi pensieri in accordo con una regola. Ecco la risposta: io rispondo in un certo modo perché conosco certe regole, regole che sono quelle del mio abito mentale. Così il modo d’essere del simbolo è differente da quello dell’icona e dell’indice. L’icona ha un essere che appartiene all’esperienza passata. Vedo l’icona russa con la Madonna, mi ricordo della Madonna, di altri quadri, ecc. Essa esiste solo come un’immagine nella mente. Un indice ha l’essere dell’esperienza presente. La freccia la vedo adesso, so che questa freccia i indica qualche cosa. Qui si potrebbe anche obiettare che, sì, certo, questa freccia è presente, riguarda il presente, ma se non avessi mai visto prima questa freccia questa non mi direbbe nulla, e pertanto occorre un’esperienza passata, almeno in questo caso. Per dirla più appropriatamente, questa freccia deve essere già nel mondo. L’essere di un simbolo consiste nel fatto reale per cui qualcosa verrà sicuramente esperito se certe condizioni sono soddisfatte. Varco il confine Francia-Italia, vedo lo straccetto rosso, bianco e verde e dico “sono in Italia”. Le condizioni sono soddisfatte, cioè, io riconosco un qualche cosa che mi dice, in quel caso, che ho varcato la frontiera. Pertanto, esso influenzerà il pensiero, la condotta del suo interprete. Questo è importante. Il pensiero e la condotta dell’interprete, cioè del simbolo, vengono influenzati. Il simbolo non è puramente un dato di fatto, una fattualità, ma è un qualche cosa che muta la mia condotta, che mi costringe a dare una risposta: io vedo il cencio bianco, rosso e verde e dico “ecco, siamo in Italia”. Qualcosa è cambiato in me, prima eravamo in Francia, adesso siamo in Italia. Ecco in che modo questo simbolo ha inserito un mutamento nella mia condotta, mi ha costretto a dare una risposta. Ogni parola è un simbolo. Ogni frase è un simbolo. Ogni libro è un simbolo. Ogni representamen dipendente da una convenzione è un simbolo. Sarebbe difficile pensare a un representamen che non dipende da una convenzione, e cioè che significhi puramente per sé. Proprio come una fotografia è un indice che ha un’icona incorporata in sé, vale a dire eccitata nella mente dalla sua forza, così un simbolo può avere un’icona o un indice incorporati in esso. Ciò significa: la legge attiva che esso è può richiedere che la sua interpretazione comporti la rievocazione di un’immagine, o di una fotografia composita di numerose immagini delle passate esperienze, come accade normalmente con i nomi comuni e i verbi; oppure esso può esigere che la sua interpretazione si riferisca alle circostanze reali che accompagnano l’occasione della sua incarnazione, come accade con parole quali quello, questo, io, tu, il quale, qui, ora, laggiù, ecc. Sono quelle cose che Jakobson chiamava shifters, operatori deittici. Tutto ciò che cosa ci dice? Lui si è fatto tutto un riassuntino del suo pensiero per dire che, di fatto, ciascun segno può comportare questi tre aspetti, ma questi tre aspetti sono sempre e comunque riferiti a un abito, necessariamente, a una convenzione, a un modo di pensare; sono sempre e comunque elementi che procedono dalla chiacchiera, dal senso comune. Come dire che tutto ciò di cui è fatta la parola procede dal senso comune.