INDIETRO

 

 

20 marzo 2024

 

Aristotele Fisica

 

Questo libro di Cilento, Paiedia antignostica, è molto interessante. È un libro fatto diversi anni fa, nel 1971. Cilento, come altri, ebbe l’idea che Porfirio, nel mettere assieme le lezioni di Plotino, abbia fatto un gran pasticcio. È un testo scritto in greco senza traduzione, che invece si può reperire naturalmente su altri testi. La tesi che qui a noi interessa è la seguente. Plotino, vissuto nel III sec. d.C., pare, a detta di molti, che abbia preso buona parte di ciò che dice nelle Enneadi da Numenio di Apamea, siriano. Numenio, vissuto nel II sec. d.C., quindi, un secolo prima di Plotino, era uno gnostico, viene annoverato in genere tra i medioplatonici ed era un profondo conoscitore di Filone d’Alessandria. Era, quindi, un medioplatonico e, soprattutto, uno gnostico. La gnosi, più che una religione a sé stante, è qualcosa che ha attraversato e continua ad attraversare tutto il pensiero religioso, ma non solo. I motti più famosi della gnosi sono: l’uno “sarete come dei” e l’altro “potrò essere tutto quello che vorrò”. Plotino ha scritto molto contro gli gnostici, nonostante alcuni sostengano che lui abbia preso a man bassa dagli scritti di Numenio, perché gli gnostici pensavano che attraverso la conoscenza si potesse giungere a essere dio. Quindi, per gli gnostici era una possibilità umana arrivare all’Uno, a dio. Plotino, invece, nega fortissimamente che sia possibile da parte degli umani diventare Uno, dio; da qui, quindi, la Paideia antignostica. La conoscenza, quindi. A tutt’oggi si pensa che la conoscenza abbia questo carattere soteriologico. La soteriologia è la dottrina della salvezza: ci si salva attraverso la conoscenza, e la conoscenza è quella cosa che porta verso Dio. Oggi non c’è più questo concetto, ma l’idea permane, l’idea che la conoscenza sia fondamentale. Ma qualcuno si chiede di che cosa è fatta la conoscenza? Abbiamo visto con Aristotele di che cosa è fatta la conoscenza, e cioè il sapere epistemico, che prevede una verità che non c’è. Aristotele ha mostrato questo in modo molto evidente: c’è un’ἀλήθεια nel senso di δόξα, di un sapere che viene dagli antichi, da tante cose, per cui so cose che non so dire da dove mi arrivano. Quindi, questo sapere, questa conoscenza, importa davvero oppure no? Per gli gnostici sicuramente sì, perché è la strada per arrivare a Dio, ma attraverso questa idea soteriologica per cui si mettono in atto tutta una serie di operazioni apotropaiche (scaramantiche) fino alla teurgia, cioè, fino a ideare delle cose che servono a mettermi in buona luce davanti a Dio che mi giudica. La soteriologia, la dottrina della salvezza… ma salvezza da che? Dall’inferno, così come è diventato nel cristianesimo, ma soprattutto dall’ignoranza: salvarmi dall’ignoranza che il non sapere è ciò che allontana da Dio. Lo gnosticismo è più un pensiero che una religione, ha attraversato tutte le religioni ed è molto antico. Questi due volumi occorrerà leggerli: uno è di Henry Puech, francese, Le tracce della gnosi, l’altro è di Hans Jonas, tedesco, Lo gnosticismo. Sono i due più celebri studiosi dello gnosticismo; tutto quello che c’è da sapere sullo gnosticismo è qui dentro, in questi due volumi. Il neoplatonismo viene da lì, dallo gnosticismo, viene da lì che sia necessaria la salvezza. Torno a dirvi: salvezza da che? Tanto più se si suppone che sia la conoscenza a dovere salvare, ma Aristotele ci ha spiegato molto bene di che cosa è fatta.

Intervento: …

Sarebbe interessante fare una riflessione tra questo mito dell’età dell’oro e l’altro mito, quello della caverna di Platone, perché ci sono sicuramente delle connessioni. Ma adesso ci troviamo di fronte a un problema. Siamo al Terzo libro. Poiché la natura è principio del movimento e del cangiamento e noi stiamo studiando metodicamente la natura, non ci deve rimanere nascosto che cosa sia il movimento. È inevitabile, infatti, che, se questo si ignora, si ignori anche la natura. Definito il movimento, bisogna, poi, cercare allo stesso modo di giungere a definire ciò che ne consegue. Orbene, sembra che il movimento faccia parte dei continui; e l’infinito si manifesta in primo luogo nel continuo. Perciò, anche a chi definisce il continuo, capita di servirsi spesso del concetto di infinito, perché è continuo ciò che è divisibile all’infinito. Inoltre, senza luogo e vuoto e tempo pare impossibile che vi sia movimento. È chiaro, dunque, che per questo motivo e per il fatto che queste cose sono comuni a tutti gli uomini e universali per tutti, bisogna por mano all’indagine su ciascuna di esse (ché lo studio delle singole proprietà è posteriore a quello delle cose comuni)… Si parte dalla δόξα, poi si cerca dio precisare. …e in primo luogo, come dicevamo, bisogna trattare del movimento. C’è qualcosa che è solo in atto, e qualcosa che è in potenza e in atto: e tale distinzione va applicata all’essenza determinata, alla quantità, alla qualità e, parimenti, alle altre categorie dell’essere. Qui c’è un problema. Non da parte di Aristotele, naturalmente, ma da parte del traduttore. In questo testo Aristotele parla di δύναμις, ἐνέργεια e di έντελέχειᾳ. Ora, δύναμις è potenza, e qui va bene; invece, ἐνέργεια e έντελέχειᾳ vengono sempre tradotti con atto, ma non sono la stessa cosa. L’atto come ἐνέργεια, per riprendere l’esempio che fa Aristotele della costruzione della casa, è la posa in opera di qualcosa, il fare ciò che la potenza ha potere di fare; altra cosa è l’έντελέχειᾳ. Vi ricordate l’analisi che Heidegger fa dell’έντελέχειᾳ? Lui scompone questa parola έντελέχειᾳ: έντέλος - ἕκειν. Qui έν non è l’uno ma preposizione “in”; τέλος è il fine, non lo scopo ma il compimento, il compiersi di qualche cosa; poi, ἕκειν che significa avere. Quindi, l’έντελέχειᾳ è l’avere il compimento, l’essere compiuto. L’ἐνέργεια è il porre in atto di qualche cosa che la potenza ha potenza di fare. Sono due concetti differenti e, infatti, Aristotele li usa o in un modo o nell’altro, a seconda dei casi, ma distingue tra ἐνέργεια e έντελέχειᾳ. In questa traduzione, invece, non sono più distinti, è sempre atto. Questi due termini sono fondamentali nel pensiero di Aristotele, perché lì si gioca tutta la questione. Poi, quando più avanti parlerà in modo più specifico di δύναμις, di ἐνέργεια e di έντελέχειᾳ, lì si gioca la questione della simultaneità: questi tre elementi non sono ipostasi, come l’Uno, l’Intelletto e l’Anima di Plotino. Se voi pensate alle tripartizioni, si tratta sempre di ipostasi. La prima è forse quella dei pitagorici – l’uno è l’immagine, il due è ciò che quella immagine non è e il tre è la relazione tra i due; poi, c’è la tripartizione di Aristotele, che propriamente non è una tripartizione, per cui lέντελέχειᾳ è il movimento tra i due, tra δύναμις ed ἐνέργεια, movimento simultaneo; poi, c’è Plotino – l’Uno, l’Intelletto e l’Anima, che poi con la teologia trinitaria di Agostino diventa Padre, Figlio e Spirito Santo; poi, c’è Hegel, ma con lui non c’è la ipostatizzazione di questi tre momenti, l’in sé, il per sé e l’Aufhebung, che è il movimento dell’in sé e del per sé; si arriva, poi, fino ai giorni nostri con la tripartizione di Peirce – Primità, Secondità e Terzità, quella di Lacan – simbolico, immaginario e  reale –, sino a Verdiglione – lo specchio, lo sguardo, la voce. Ora, che cosa distingue queste tre cose dall’essere ipostasi oppure no? La simultaneità. Le ipostasi mantengono la tripartizione, sono tre ma separate; in Aristotele e in Hegel, non è così ma ci sono due elementi e il movimento dei due elementi, il positivo e il negativo, per Aristotele è l’έντελέχειᾳ e per Hegel è l’Aufhebung; ma è il movimento, quindi, non si tratta più di ipostasi, perché ciascun elemento è quello che è in virtù di non essere quell’altro; quindi, c’è il suo negativo simultaneo. Ora, qui si pone un problema, Lombardo Radice nel volume di Bompiani e Antonio Russo in quello edito da Laterza, hanno tradotto έντελέχειᾳ con atto, ma perché c’è questo appiattimento? Tutto quanto diventa atto, non c’è più differenza tra ἐνέργεια e έντελέχειᾳ. Questa è la traduzione che avrebbe potuto fare Porfirio, cioè, appiattire tutto in modo che scompaia per sempre la coappartenenza di ciò che si pone e del suo contrario, cioè, la simultaneità tra bene e male. Quindi, a distanza di duemila anni ancora si traduce come avrebbe tradotto Porfirio, appiattendo tutta la questione centrale di Aristotele, senza la quale non si intende nulla di Aristotele. Il testo di Russo è senz’altro migliore nella traduzione, ma a questo punto occorre avere sempre sott’occhio il testo greco, che abbiamo visto essere fondamentale. Questa traduzione è ideologica, ma è voluta o involontaria? Non credo sia voluta, è involontaria, così come era involontario il fraintendimento di Diels, nel senso che ormai attiene al modo di pensare, non se ne esce. Solo Heidegger è riuscito a cogliere in modo preciso la questione, prima con la traduzione di Diels del famoso frammento 26 di Eraclito e poi con la Fisica di Aristotele, dove coglie questo aspetto per cui non si tratta di tre ipostasi. Qui, invece, in questa traduzione è come se li considerassero veramente come delle ipostasi plotinianamente intese, cioè, dall’Uno procedono le altre ipostasi, in una processione. Così come in Agostino – il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo –, come se queste cose procedessero dall’Uno. In Aristotele no, non procedono affatto dall’Uno, non c’è l’Uno, c’è la coappartenenza di due elementi opposti. Aristotele chiama questa simultaneità έντελέχειᾳ, che è il compimento, è il modo in cui questi due elementi sono compiuti, compiuti in quanto coesistono, si coappartengono in quanto contrari. Ora, certo, non è facile tradurre έντελέχειᾳ in italiano, tradurlo con compiuto o con compimento non rende bene, però, si potrebbe lasciarlo non tradotto con la piccola avvertenza che si può tradurre έντελέχειᾳ in questi modi ma che si è preferito lasciarlo in greco. Heidegger lo ha fatto: ha scomposto έντελέχειᾳ in έντέλος - ἕκειν. C’è qualcosa che è solo in atto, e qualcosa che è in potenza e in atto… Qui la parola che Aristotele usa è έντελέχειᾳ, non usa ἐνέργεια; come dire che alcuni sono in potenza, altri sono compiuti; mentre l’“in potenza” mantiene qualcosa di incompiuto, che non è integro. Ma tutto questo nella traduzione scompare. Perché? Il perché in qualche modo si può intuire: si è ormai addestrati a pensare neoplatonicamente, perché il neoplatonismo è quello che ha vinto su tutto e, quindi, si pensa così; da qui la traduzione di Diels di πάντα con il tutto. Torniamo ad Aristotele e al movimento. Perché è importante questa distinzione che fa? Arriverà a dire che il movimento è l’έντελέχειᾳ, è questo il movimento tra la δύναμις e l’ἐνέργεια. Se traduco tutto quanto con atto, questo movimento scompare e non ci si chiede più che cos’è il movimento. 200b, 28. Per quanto concerne, invece, la relazione, si parla di eccesso e di difetto, o anche di attività e di passività, e, in genere, del motore e del mobile: infatti, il motore è motore del mobile, e il mobile è il mobile per opera del motore. 201a, 10. Poiché, a proposito di ciascun genere, ciò che è in atto è stato distinto da ciò che è in potenza, l’atto di ciò che è in potenza, in quanto tale, è il movimento… Nel testo greco è έντελέχειᾳ. Dice l’atto di ciò che è in potenza: il tradurlo così intende la potenza che agisce, fa delle cose; se, invece, l’atto lo intendiamo come έντελέχειᾳ allora è il compimento di potenza e atto, è il compiersi di qualcosa che prima è solo in potenza. 201a, 17. E che questo sia il movimento è chiaro da quanto segue. Quando il costruibile, entro il limite in cui diciamo che tale esso è, è in atto, esso è costruito, è, cioè, la costruzione: e ciò vale anche per l’istruzione, la medicazione, la rotazione, il salto, la crescita e l’invecchiamento. Aristotele usa molto spesso έντελέχειᾳ più di quanto usi ἐνέργεια, quasi a sottolineare il fatto che la potenza è qualche cosa di incompiuto. L’ἐνέργεια non è altro che il porre in atto qualche cosa che la potenza può fare, ma questo non dà il senso del compiuto, di una sorta di integrazione tra potenza e atto, cosa che invece fornisce l’ἐνέργεια. 201b. …in quel caso, però, l’essere malati e l’essere sani non sarebbero la medesima cosa, mentre il sostrato, sia in quanto sano sia in quanto malato, è un solo e medesimo, acqua o sangue che esso sia. E poiché l’oggetto in quanto tale e l’oggetto in quanto mobile in potenza non si identificano, come il colore non si identifica col visibile, è chiaro che il movimento è l’entelechia di ciò che è in potenza, ma solo in quanto è in potenza. L’atto, l’έντελέχειᾳ, è il movimento. Il movimento è dato dall’έντελέχειᾳ, dall’essere queste due cose insieme, coappartenendosi. 201b, 15. Che la nostra tesi sia esatta è confermato anche dal pensiero degli altri sul movimento e dalle difficoltà che si incontrano nel determinarlo in altra guisa:… Non definisce il movimento come una successione di punti, ma come la coappartenenza di potenza e atto, atto nel senso di ἐνέργεια. …l’impossibilità, infatti, di porre il movimento e il cangiamento in un altro genere risulta chiaramente quando si esaminano con attenzione le tesi di quelli che concepiscono il movimento come alterità, ineguaglianza, non-essere. Eppure, non è affatto necessario che qualcosa di queste cose si muova, né in quanto altra, né in quanto ineguale, né in quanto non-ente; d’altra parte, il mutamento non ha come origine o come fine questi termini più che i loro opposti. Insiste a dire che il movimento è tra due opposti, è questo il movimento, non ce ne sono altri. Ma il motivo per cui il movimento vien posto in tali cose sta nel fatto che esso appare come qualcosa di indeterminato, e i principi di quell’altra serie sono indeterminati pe il fatto che causano privazione: essi, infatti, non sono né l’essenza determinata né la qualità né alcuna delle altre categorie. Porre il movimento come appartenente a una categoria significa porlo come indeterminato, perché ponendolo come categoria (un quale, un quanto, ecc.) viene meno il movimento tra la potenza e l’atto. Una delle ragioni per cui il movimento sembra indeterminato sta nel fatto che esso non si può porre in senso assoluto né nella potenza degli enti né nel loro atto. Sta parlando del movimento come di qualcosa di indefinito ed elenca tutte le varie possibilità. Difatti, né la quantità in potenza né la quantità in atto si muovono necessariamente… Qui atto nel testo greco è ἐνέργεια e non έντελέχειᾳ. …e il movimento sembra essere un certo atto, ma imperfetto. Anche qui atto è ἐνέργεια. E la causa sta nel fatto che imperfetto è il possibile di cui il movimento è, appunto, l’atto. E perciò è arduo stabilire che cosa sia il movimento: infatti, è necessario porlo o nella privazione o nella potenza o nell’atto assoluto, ma nessuna di queste soluzioni sembra accettabile. Ci sta dicendo che se teniamo separate le cose non comprendiamo il movimento. Rimane allora da intenderlo nel modo da noi indicato, che, cioè, esso è un atto nel senso che noi abbiamo detto: atto difficile da intuirsi, ma ammissibile come reale. Del movimento non riusciamo a dirne niente, però, se lo poniamo così, ecco che, forse, riusciamo a capirne qualcosa. Del resto, si muove ogni motore che, come abbiamo detto, è mobile in potenza e la cui immobilità si riduce a riposo (si dice, invero, quiete l’immobilità di una cosa a cui, però, non manca la possibilità del movimento). Difatti, l’agire sul mobile in quanto tale significa appunto muovere, e il motore fa ciò per contatto, sicché nello stesso tempo anch’esso patisce. È attivo e passivo, insieme. 202a, 12. È evidente dove si annidi la difficoltà; essa è nel fatto che il movimento si esercita sul mobile: difatti, esso è l’entelechia di questo e per opera del motore. E l’atto del motore non è diverso, giacché ci deve essere entelechia per entrambi: il motore, infatti, è in potenza ciò che muove, ma esso pone in atto il mobile; sicché unico è parimenti l’atto per entrambi, come è medesimo l’intervallo tra l’uno e il due e tra il due e l’uno, o come sono la stessa cosa la salita e la discesa. In queste poche righe anticipa ciò che dirà più avanti in modo più articolato: questo movimento è dato da ambedue. Fa l’esempio della strada in salita e in discesa: sono due opposti, ma due momenti dello stesso, come dirà poi Hegel. Queste, in realtà, sono una cosa sola, benché non una sia la loro definizione. E ciò vale pure per il motore e per il mosso. Il dubbio che si presenta è di carattere logico; è, difatti, forse necessario che l’atto dell’agente sia diverso da quello del paziente: l’uno, infatti, è creazione, l’altro è passione, e l’opera e il fine del primo è il puro creare, del secondo il puro patire. Parla di ἐνέργεια quando si tratta di tenere distinti i due momenti; parla, invece, di έντελέχειᾳ quando vuole indicare il movimento, che non è questi due elementi ma la loro integrazione. Pertanto, se entrambi sono movimenti e sono diversi, in quale dei due soggetti saranno? Essi sono o entrambi nel paziente e nel mosso, oppure l’azione è nell’agente, la passione nel paziente (se, poi, anche quest’ultima dovesse chiamarsi azione, si tratterebbe, in tal caso, di sola omonimia). In pratica, stiamo dicendo la stessa cosa. Anche qui continua a ribadire che, sì, possiamo tenere separati δύναμις ed ἐνέργεια, ma se li separiamo non capiamo il movimento e, allora, dobbiamo andarlo a cercare altrove, per esempio nella successione di punti. In quest’ultimo caso il movimento sarà nel motore (lo stesso termine logico vale, infatti, tanto per il motore quanto per il mosso) e, di conseguenza, o tutto ciò che muove si muoverà, oppure, anche avendo il movimento, non si muoverà. Se, invece, l’azione e la passione sono entrambe nel mosso e nel paziente, come ad esempio l’insegnamento e l’apprendimento, pur essendo due, sono soltanto in chi apprende, allora in primo luogo l’atto di ciascuna cosa non sussisterà in questa stessa cosa, in secondo luogo sarà assurdo che la medesima cosa simultaneamente sia mossa per due movimenti. Quali mai, difatti, saranno le due alterazioni di ciò che è uno e va verso una sola forma? Questo risulta davvero impossibile. Qui Aristotele pone una questione, cui occorre fare attenzione. Sembra che, quando a un certo punto parla dell’atto, parli dell’infinito, per esempio, in atto. Ma non sta parlando dell’infinito attuale, anzi, dirà che non c’è l’infinito in atto, perché per lui l’atto è la forma; e se è nella forma non può essere infinito perché la forma è delimitata; quindi, per Aristotele l’infinito è solo potenziale, non può essere in atto. 202b. ci si potrà obiettare che, in fin dei conti, l’atto sarà uno. Ma allora sarà assurdo che di due cose, differenti per forma, vi sia un medesimo e solo atto. Eppure, questo accadrebbe, se veramente l’insegnamento e l’apprendimento o anche l’azione e la passione fossero la stessa cosa, e se insegnare fosse lo stesso che imparare, e l’agire lo stesso che il patire: e di conseguenza chi insegna si dovrà mettere a imparare i suoi stessi insegnamenti, e chi fa una cosa dovrà anche patire. Invece, non è un’assurdità che l’atto dell’uno si eserciti sull’altro (in realtà, l’insegnamento è l’atto che si esercita su qualcuno da parte di chi ha la capacità di insegnare; e non è separato, ma è l’atto di questo su quello)… Vedete come insiste sulla non separazione: non è possibile separare questi due momenti. 202b, 20. A dirla in breve, l’identità vera e propria non è tra insegnamento e apprendimento, né tra azione e passione, ma nel movimento al quale ineriscono entrambi questi termini. Questi termini si coappartengono ma non coincidono. L’identità appartiene al movimento. In sede logica, infatti, l’essere atto di qualcosa su qualcos’altro differisce dall’essere atto di qualcosa da parte di qualcos’altro. Noi li distinguiamo per poterli pensare, ma non sono distinguibili. Che cosa sia dunque il movimento e in universale e in particolare, è stato detto. 202b, 30. Poiché la scienza della natura studia le grandezze, il movimento e il tempo, ciascuno dei quali necessariamente è infinito o finito, anche se non ogni cosa è infinita o finita, come, ad esempio, una passione o un punto – ché forse niente di tal genere va necessariamente collocato in una di queste due cose –, converrà a chi si occupa della natura meditare sull’infinito, se esso è o non è; e se è, che cosa mai esso è. Adesso qui fa un excursus storico. È significativo il fatto che la meditazione su di esso è familiare a questa scienza. Difatti, tutti quelli che sembra abbiano toccato in modo degno questo lato della filosofia, hanno fatto parola dell’infinito, e tutti lo pongono come un qualche principio degli enti. Alcuni, come i Pitagorici e Platone, pongono l’infinito di per sé, come non accidentale a qualche altra cosa, ma come sostanza autentica;… Ecco perché l’infinito è trattabile matematicamente: perché è considerato platonicamente come sostanza; d’altra parte, tutta la matematica è platonica. …senonché i Pitagorici lo pongono nelle cose sensibili (essi, infatti, non considerano il numero come alcunché di separato) e chiamano infinito quello che è fuori del cielo, Platone, invece, asserisce che fuori del cielo non c’è alcun corpo, neppure le idee, per il fatto che queste sono in nessun luogo, ma che, comunque, l’infinito è sia nelle cose sensibili sia nelle idee. Per Platone l’idea sta nell’Iperuranio e il sensibile è una rappresentazione di questa idea che sta lassù. Inoltre, i Pitagorici dicono che l’infinito è il pari: infatti, questo, assunto e determinato dal dispari, conferisce agli enti l’infinità; e un indizio di questo è ciò che si verifica nei numeri: ponendo, infatti, degli gnomoni… Gli gnomoni erano un artificio che si faceva a quel tempo e consiste in questo: se da una certa figura io tolgo una parte, la figura rimane totalmente la stessa, anche se più piccola. …intorno all’uno e separatamente, una volta si produce una figura sempre diversa, un’altra volta una figura sempre identica. Platone, invece, dice che gli infiniti sono due: il grande e il piccolo. L’infinito per grandezza e l’infinito per piccolezza. Tutti i naturalisti pongono, tuttavia, al di sotto dell’infinito sempre una qualche altra natura desunta dai cosiddetti elementi, come l’acqua, l’aria o il loro intermedio. Nessuno, però, di quelli che pongono un numero finito di elementi, ammette che essi siano singolarmente infiniti; quanti, invece, pongono infiniti elementi, come Anassagora e Democrito, l’uno con le omeomerie, l’altro con la disseminazione universale delle figure, sostengono che l’infinito è continuo per contatto. 203b, 15. La credenza che vi sia qualcosa d’infinito potrebbe nascere, nei pensatori, da cinque motivi soprattutto: dal tempo (questo, infatti, è infinito); dalla divisione in grandezze (anche i matematici, difatti, si servono dell’infinito); inoltre, dal fatto che, soltanto se è infinito ciò da cui il divenire prende le mosse, non si potranno togliere via la generazione e la corruzione; oltre a ciò dal fatto che il finito tende sempre ad un termine, sicché è necessario che non vi sia alcun limite, se necessariamente una cosa tende sempre verso l’altra;… Ha descritto il linguaggio. Si aggiunge sempre un’altra parola e, poi, quell’altra, che deve fare da limite, cioè, da significato a quella precedente, ma non ci riesce, per cui ne aggiunge sempre un’altra.