19 marzo 2025
Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo
Questo libro di Beierwaltes offre moltissimi elementi di riflessione, come accade con i buoni libri. A pag. 139. Non è tanto nel passaggio dall’Uno allo Spirito che si constata in Plotino un’analogia oggettiva con la categoria schellinghiana della caduta, in quanto la processione dello Spirito dall’Uno, se non viene considerata uno sviluppo dell’Uno di valore equivalente all’Uno stesso, non è neanche da pensarsi come molteplicità radicale o essenziale. La processione si è fermata per il momento all’”Uno essente”. L’analogia sorprendente è piuttosto nel passaggio dall’eternità al tempo. Perché, secondo Plotino, esiste il tempo? Lo Spirito è l’unità senza-tempo di pensiero ed essere, è l’eternità in cui tutto quello che è-da-pensare è “già da sempre” pensato e portato al suo télos. Perché dunque esiste, oltre a questa eternità sufficiente a se stessa, anche il tempo? Come Schelling, così anche Plotino cerca rifugio in un evento di cui non si forniscono ragioni: il tempo “è caduto” dall’eternità. Prima della sua caduta “riposava in seno all’Essere poiché non era ancora tempo. Questo significa che il tempo era nell’eternità quale non-tempo… Da qui i paradossi che immediatamente sorgono. …nel modo d’essere del suo fondamento portante, cioè non (“ancora”) realmente lui stesso. A pag. 140. Il linguaggio mitizzante cerca sì di spiegare il perché della caduta, non riesce però a raggiungere la stringenza di una motivazione vera e propria. Uscendo dalla quiete del pensiero raccolto nell’unità di se stesso, il non-tempo implicito nello Spirito prende a muoversi verso il “sempre dopo e più tardi”: c’è in lui una natura indaffarata, che di sua testa vuol regnare su se stessa, che non è contenta della presenza già da sempre in sé compiuta del tutto, ma “ha sempre cercato più di quello che aveva”. La volontà di questa natura di condurre lo Spirito, per mezzo del sempre-di-più, all’apparente possesso di se stesso, causa però la “caduta”: porta infatti alla costituzione dell’Anima come Ipostasi indipendente nei confronti dello Spirito e con ciò alla costituzione della sua particolare forma d’essere di vita: il tempo. Non so se avete fatto caso, ma qui Beierwaltes sta raccontando che per Schelling - ma già per Plotino e poi tutto il neoplatonismo, quindi, tutta la religione - all’inizio, il principio di tutto è la volontà di potenza, un atto di volontà di potenza. E qui c’è la questione fondamentale. L’Uno, Dio, per conoscersi deve– usiamo questo termine anche se non è preciso – estroflettersi: è l’estasi, l’andare fuori di sé, perché per conoscersi ha bisogno di un significato. Che cosa sono io? Sono questo. Ecco Hegel: l’in sé che dice “io sono l’in sé”, cioè che cosa? Il per sé naturalmente, il mio significato, quello che sono. E, allora, una volta che c’è il per sé, cioè il mio significato, l’in sé che cosa si dice? Ecco, io sono questo. Ma finché non c’è questo uscire da sé e tornare a sé, l’in sé non può dire niente di se stesso, e l’Uno, Dio, non può dire nulla di sé senza il mondo, che sarebbe in un certo qual modo una sua estroflessione. Ci vuole questo atto, che per i teologi è in fondo un atto di volontà, ma i teologi non si rendono conto che, in effetti, si struttura come volontà di potenza, che non è altro che il funzionamento del linguaggio, e cioè il significante, per essere significante, necessita di un significato. Il significante deve uscire da sé per potere ritornare a sé ed essere quello che è, e questo è Hegel. Quindi, ci troviamo qui di fronte al modo in cui la teologia ha avvertito il problema del linguaggio, nel senso che ha riportato questo problema del linguaggio a una sorta di mitologia, sulla quale ha costruito la religione, e cioè il Dio, l’Uno, che deve estroflettersi, deve diventare l’Intelletto e l’Anima; l’in sé deve diventare per sé, il Padre deve diventare Figlio e Spirito Santo per potere essere Padre. Deve, cioè, uscire fuori, uscendo fuori trova il suo significato e a questo punto può dire: ecco, io sono questo, io sono colui che sono. Quando dice “io sono colui che sono” è già uscito da sé per potere dire una cosa del genere, sennò non può dire niente. Come diceva Plotino: Io-Io. Intanto, perché questo secondo Io? Questo raddoppiamento è sempre un uscire fuori da sé, per poi tornare e garantire il primo. Qualunque significante non esiste senza significato. Ora, nel mito questo significato sarebbe una estroflessione, un debordamento del significante, come diceva Plotino dell’Uno che trabocca. Potremmo quasi dire che tutta la religione, quindi il neoplatonismo, è una mitologia intorno al linguaggio, è un mito dove c’è il Dio, che sarebbe ciò che appare, il significante, ciò che si dice, l’Uno, che è quello che è; ma quello che è, per potere essere quello che è, ha bisogno di uscire da sé, prendere – adesso la dico proprio mitologicamente - il significato e portarselo qui, e allora solo così può dire “io sono questa cosa qui” o, per esempio, “io sono colui che sono”. È un mito, un mito del linguaggio, né più né meno. La volontà: Dio avrebbe fatto tutto questo per la sua volontà di conoscersi, per la sua volontà di essere. Da qui la cosmogonia: come si è creato l’universo? Non solo per consentire ai fisici di misurarlo, ma perché in questa estroflessione - questo era già in Plotino - l’Uno deborda e produce l’Intelletto. Ma a cosa serve l’Intelletto? Serve a conoscersi, e poi dall’Intelletto procede l’Anima, la psiche, il vivente, e si animano le cose perché l’Intelletto produce la vita. Ma è un mito del linguaggio, non è nient’altro che un mito, un racconto, e tutta la religione è questo, in fondo. Qui lo dice in un modo estremamente chiaro: c’è questa volontà, l’Uno, che però non sa in realtà di sé finché non esce fuori, finché non c’è l’Intelletto. E, allora, trabocca, deborda, eccede, anche se non si sa come avvenga questo eccedere, c’è la caduta, dice, infatti, dice che non ci sono molte argomentazioni, è così, c’è la caduta, e grazie a questo è nato il tempo dall’eternità, come qualcosa che cade dall’eternità. Questo va bene nel mito, certo, ma sarebbe come dire che il significato si produce perché cade dal significante. Ma il significante non cade; il fatto è che significante e significato sono la stessa cosa: è questo che è sempre mancato e che continua a mancare ancora oggi che parliamo. E questo rende conto anche, tra l’altro, di come gli umani, vivendo, continuando sempre, a tutt’oggi, a vivere nel mito, naturalmente siano presi da cose che appaiono essere inverosimili. Appaiono, certo, perché costruite dal mito, appunto. È come l’idea che il significato cada dal significante, il significante trabocca e casca giù il significato. Significante e significato sono la stessa cosa. Ma sono la stessa cosa, e non si possono scindere in nessun modo, ma è questo che è sempre mancato e continua a mancare, per cui si ricorre al mito. Con tutte le conseguenze, in fondo, perché attenersi al mito significa attenersi all’ineffabile, perché il mito sorge sempre da un ineffabile, da qualcosa che non può essere detto, che non può essere scritto, non può essere conosciuto. Quindi, c’è sempre qualche cosa di indicibile, che non può essere detto. E questo ineffabile è un limite, rappresenta il limite invalicabile della civiltà. È invalicabile perché, se lo si valica, crolla tutto. Perché, se il significato non è più quella cosa che cade dal significante ma è la stessa cosa del significato, cioè, sono inscindibili perché sono due momenti dello stesso, allora significa che le cose, qualunque cosa, è quella cosa e anche non lo è, necessariamente e simultaneamente. Non c’è la possibilità che non sia così, perché quella cosa ha bisogno di quell’altra per determinarsi, sennò non è; esattamente, come dicevo, dell’in sé e del per sé di Hegel. Anche Hegel descrive un mito, in fondo: questo in sé che non può dire “io sono l’in sé” finché non c’è il per sé. Ma anche l’essere e l’ente: ancora in Heidegger c’è questa cosa. L’essere sarebbe il significato dell’ente, l’essenza dell’ente, quello che l’ente veramente è. Certo, ma l’essere che cos’è esattamente? Da qui tutta una costruzione faraonica della filosofia sull’essere. Aveva ragione Sini, in fondo, che per intendere anche in Heidegger la questione dell’essere e dell’ente basta intenderli come significante e significato: l’essere come significato e l’ente come significante. Non può darsi uno senza l’altro. Ma, torno a dire, ha ragione Beierwaltes: si pensa in modo neoplatonico, cioè, si pensa come se i due elementi fossero separati, tant’è che Heidegger parla appunto di differenza ontologica. A pag. 141. La negatività di questo processo consiste nel fatto che lo Spirito eterno non rimane contento sé stesso ma, anzi, per mezzo dell’Anima e in lei si estrania da sé stesso e ancor più dalla sua propria origine in direzione del semplice più molteplice. Il molteplice è il significato. Plotino designa il fatto che l’ente (o addirittura le ipostasi) passi senza mediazione o spontaneamente da un grado ipostatico ad un altro con espressioni come distanziarsi o cadere per una separazione, saltar via, staccarsi, analogo allo schellinghiano Sich-Losreisen (distaccarsi, strapparsi). E questo è il modo per intendere in questo mito come il significato si sia staccato dal significante, lasciando il significante lì a non significare niente, per cui dobbiamo trovarglielo il significato, per forza. Il fatto che il non-tempo e la non-Anima nello Spirito siano concepiti come una Physis che, affaccendata, vuole essere padrona di se stessa e per questo “vuole uscire”, Ecco, vedete queste metafore, descrivono proprio il mito, quest’anima che è insoddisfatta e vuole uscire da se stessa per ritrovarsi, cioè, per determinarsi.
Intervento: …
Dici bene perché, in effetti, questo télos, questo compimento, che sarebbe l’entelechia, è l’unificazione, è quella unificazione che è necessaria per continuare a parlare: io, per potere pensare, per dire qualunque cosa, devo unificare. Poi, chiaramente, per determinare questa unificazione ho bisogno di nuovo dei molti e si innesca questo processo interminabile.
Intervento: …
È qualcosa di prossimo a ciò che diceva Severino rispetto alla tecnica. Originariamente si pensava che la tecnica fosse uno strumento, un utilizzabile. Poi, diventa non più lo strumento ma il fine, ed è la tecnica a questo punto che in un certo qual modo gestisce tutto. Severino ne parlava a proposito del capitalismo, che pensa di potere utilizzare la tecnica a proprio vantaggio, ma fino a un certo punto perché poi la tecnica non è più un utilizzabile ma diventa il fine. Il risultato della “caduta” è sì qualcosa che non dovrebbe essere, e, quanto a dignità d’essere, inferiore al suo punto di partenza; Plotino non lo considera tuttavia ancora peccato originale e punizione - in senso gnostico o schellinghiano. Infatti, anche il mondo sensibile è - in senso agnostico - buono in sé, riceve dal fondamento che agisce in lui come Anima del mondo, realtà e bellezza, anche se adombrate, e può essere perciò tematizzato anche dalla filosofia. Infatti, per Plotino ogni cosa, procedendo dall’Uno, mantiene la dignità dell’Uno. È dopo che si è pensato al peccato, alla punizione, ma per Plotino, tutto sommato, non era ancora così. A pag. 142. La realtà di Dio si compie nell’attività di due forze originarie o potenze a lui interne, che si sollecitano a vicenda: egoismo e amore. L’inizio della creazione si concepisce dunque come “superamento dell’egoismo divino da parte dell’amore divino”. C’è l’egoismo e poi l’amore che invece è proteso verso l’altro, verso i molti, il molteplice. Nel linguaggio della teologia mitologica dei Weltalter questo significa: “Dall’azione combinata, consapevole e guidata secondo l’intenzione in virtù dello Spirito, della forza contrattiva del Padre e di quella espansiva del Figlio… Poi, nella linguistica sono diventate la metafora e la metonimia. L’azione combinata di contrazione ed espansione fonda o è il flusso infinito, il traboccare e il parteciparsi al di fuori di Dio. Dio diventa “ex-statico”. Appunto, come dicevamo, l’estasi. È Dio che si proietta all’infuori. Dio è egoista ma è anche amore; finché è egoista rimane quello che è, quando è amore ecco che si protende all’esterno attraverso l’estasi. Poiché egli è privo di invidia... Ma come facciamo a saperlo? Non avevamo stabilito che, per via di tutta la teologia negativa, non possiamo dire niente di lui e adesso invece diciamo che è privo di invidia. In base a che cosa? Poiché è privo di invidia, non si tiene indietro, ma si manifesta come amore nella comunicazione estatica di se stesso. …la decisione di Dio di creare il mondo è una decisione eterna. “L’egoità dell’eterno Padre viene tuttora superato nell’amore e si apre e fluisce nella creatura”. Estroflettendosi per amore, ecco che si producono le creature, perché incomincia a pensare. È il movimento che descrive Hegel: dall’in sé al per sé, e poi torna naturalmente sull’in sé. La creazione del mondo è una cosa stessa con la generazione del Figlio. Il mondo dunque è, perché il Padre genera eternamente il Figlio, ovvero: l’essere del mondo non è altro che l’atto d’amore divino; l’autogenerazione di Dio genera il mondo. Se si pensa al mito, tutto questo diventa molto comprensibile: questo Uno, in effetti, è un qualche cosa che si estroflette verso i molti. Ma la cosa interessante, che già è già presente in Plotino, è che questi molti - che poi è diventato anche un problema teologico - questi molti preesistono, esistono già prima, perché questi molti sono il pensiero di Dio che pensandosi deve pensarsi nell’estasi, proiettato all’esterno, perché, dicendo “Io sono colui che sono”, c’è un raddoppiamento; poi, ci si è impegnati e ingegnati a dire che questo raddoppiamento mantiene sempre la stessa sostanza, che non ci sono due sostanze ma è sempre una. Rimane il fatto che è in questo processo che si creano le cose, perché in questo processo è come se sorgessero i molti dal pensiero dell’Uno che pensa se stesso e che diventa due. Quindi, genera i molti e, generando i molti, da lì incomincia a generare tutto quanto. A pag. 144. Per lo Spirito (l’Intelletto per Plotino) il ritorno (o conversione) si realizza nella forma dell’autoriflessione… L’Uno che si autoriflette. …in essa ha luogo il pensiero dell’essere (= delle idee) e del fondamento dell’essere (dell’Uno immanente allo Spirito);… Perché l’Uno rimane sempre il fondamento, ciò da cui parte tutto quanto. …per l’Anima. Il ritorno si realizza come conversione sulla propria interiorità sostanziale, il cui fine è che l’Anima “diventi Spirito”, che riconosca, cioè nell’auto-approvazione, lo Spirito come il fondamento di se stessa. All’interno di questo mito, in effetti, sorge quella cosa che poi diventerà l’autoconsapevolezza, l’autoriflessione, ecc., e cioè nel mito dell’autoriflessione la persona pensa a se stessa, pensando a se stessa trova la verità che è all’interno di sé, che è sempre l’Uno - perché procede dall’Uno e, quindi, è l’Uno che si mantiene sempre -; quindi trova la verità, trova Dio, e pertanto a questo punto sa esattamente chi è, e cioè un prodotto di Dio, per cui non ha più domande da farsi. A pag. 145. La dialettica di processione e conversione è però costitutiva anche del rapporto tra infinito e finito. L’Assoluto-Infinito è la suprema unità “che noi riguardiamo come il sacro abisso da cui tutto procede e da cui tutto ritorna”. L’unità differenziantesi ritorna dunque, passando per la differenza dei suoi momenti, nell’unità originaria e assoluta: redenzione dalla caduta, dissolvimento del finito nell’assolutezza. Qui c’è tutto Hegel. L’Assoluto-Infinito è la suprema unità. Lo Spirito assoluto è la suprema unità a cui noi guardiamo, dice, come il sacro abisso da cui tutto procede e a cui tutto ritorna. Cioè, ciò che guardiamo è l’abisso, qualcosa che non è delimitabile, determinabile, ecc.; quindi, siamo noi che, guardandolo, lo determiniamo come abisso in questo caso; quindi, questa unità che si differenzia nell’autoriflessione, (dicendo “io sono colui che sono si differenzia) ritorna - passando per la differenza dei suoi momenti (uno e l’altro) - a essere l’unità originaria e assoluta. Questo è l’obiettivo di Hegel ed è per questo motivo che Beierwaltes legittimamente considera Hegel un neoplatonico, perché comunque c’è il ritorno all’assoluto, all’unità, e, quindi, scompaiono i molti, il per sé viene eliminato dall’Aufhebung. Qui c’è una citazione da Giordano Bruno: “…un tendere all’unità, nella quale soltanto tutto è veramente.”. A pag. 146. La storicità del processo può diventare, con intenzione identica a quella di Hegel, la chiave di interpretazione della storia della filosofia: la fase della processione o caduta equivarrebbe al venir meno dell’Assoluto, del principio divino... La caduta è ciò che distanzia dall’Uno: Uno, Intelletto e Anima, poi giù fino alla materia. …che provoca la separazione netta di soggetto e oggetto, di infinito e finito, di ideale e reale; questa sottrazione “lacera” l’idea. Anche questo è interessante, perché è come se mettesse in guardia e dicesse “guardate bene, sono da tenere sempre separati l’Uno dai molti”. Perché questa caduta, cioè i molti, è il venire meno dell’Assoluto, cioè dell’unità assoluta, alla quale tutti devono guardare perché, come abbiamo appena visto da Bruno: tendere all’unità nella quale soltanto tutto è veramente.
Intervento: …
Anche questo titolo messo da Severino, non a caso. L’idea che esista una struttura originaria è qualcosa che spinge il pensiero verso l’assoluto e, infatti, poi lui lo descrive così: quando tutti gli astratti diventano il concreto, allora c’è l’intero, l’assoluto, l’identico. La composizione della frattura è opera dell’idealismo, in quanto esso è la filosofia giunta alla coscienza di se stessa. Essa riconduce l’Assoluto. Da questo punto di vista, il movimento nell’essere è “storia” nella forma di un epos composto nella mente di Dio: “Le sue due parti principali sono: quella che rappresenta l’esodo dell’umanità dal suo centro fino alla distanza suprema da esso; l’altra, quella che rappresenta il ritorno”. C’è sempre questa idea di allontanamento e di ritorno, l’anabasi. Non è lontana da questa figura la metafora dell’Odissea, che Plotino usa per significare il ritorno in “patria” (nell’Uno) - ritorno però per Plotino individuale, intrapreso per mezzo del pensiero e dell’ascesi. Oltre che della purificatio, naturalmente. Per Plotino la condizione ontologica perché l’uomo sia in grado di attingere all’Uno o divenire, nell’estasi, una cosa sola con lui, è la similitudine strutturale fra l’uomo e l’origine. E qui torniamo al punto fondamentale: l’analogia. È l’analogia che consente di pensare una cosa del genere, cioè che attraverso il pensiero si possa tornare a essere una cosa sola con lui, con l’Uno, con Dio, quello che volete; per analogia, per similitudine strutturale, perché siamo simili e siamo simili perché ci ha prodotti lui, per ebollizione, per traboccamento. A pag. 149. L’intuizione intellettuale... Intuizione intellettuale che potremmo intendere all’interno del mito, di cui stiamo parlando, come l’intuizione estatica o mistica. L’esperienza mistica ancora oggi persiste, per esempio, nella psicanalisi: l’esperienza inconscia è esperienza mistica, estatica. L’intuizione intellettuale oltrepassa dunque per principio l’ambito empirico, procede per conoscenza immediata, senza cioè con concettualità discorsiva… Non c’è argomentazione. …perché mira all’Assoluto, all’assolutezza pura priva di qualsiasi altra determinazione… Quindi, almeno una ce l’ha perché, se è priva di qualsiasi altra determinazione, vuole dire che almeno una c’è, e, se ha una determinazione, allora non è Assoluto. …fatalmente irraggiungibile perciò dai concetti. Vedere e comprendere l’Assoluto si può soltanto quando la relazione soggetto-oggetto, costitutiva per il pensiero, si tolta e annullata: quando, cioè, cessiamo di essere oggetti a noi stessi, “quando, ritirateci in noi stessi, il nostro io intuente è tutt’uno con quello intuito”. Sarebbe l’idea dell’introspezione: vedersi dentro. Allora questo io, che è l’intuente, diventa tutt’uno con l’intuito, cioè, fa tutt’uno con se stesso, diventa la totalità, naturalmente sempre sotto la garanzia di Dio. A pag. 150. Abbiamo detto che il nostro io viene posto al di fuori del suo luogo, al di fuori cioè dell’essere-soggetto. A questa “desoggettivazione del contemplante” corrisponde l’impossibilità di pensare l’Assoluto come oggetto… /…/ Nell’intuizione intellettuale estatica, il soggetto abbandona di conseguenze “il suo luogo”, “deve essere posto al di fuori di sé come qualcosa che non ci sia nemmeno più”. “Soltanto in questa perdita di se stesso può sorgere in lui il soggetto assoluto”. Questo perdere-se-stesso non è dunque un irrazionale rinunciare all’evidenza... Un rinunciare a pensare praticamente …ma anzi conversione al sapere autentico: “quasi non sapendo sapere Dio”. Soltanto in questo “sapere non sapendo” quale “scienza suprema, si chiude l’occhio mortale, dove non più l’uomo vede, ma l’eterno vedere se stesso si è fatto vedente in lui”. Il compimento del sapere è dunque assoluto vedere o intuire l’Assoluto nell’essere finito uomo, ovvero, da parte dell’Assoluto, vedere se stesso nell’uomo. Questo è il fine - potremmo addirittura azzardare - della ricerca scientifica, e cioè arrivare a vedere la verità epistemica, arrivare a vedere l’Assoluto; ma questo assoluto chi ci garantisce che ci sia, se non Dio? E come mai ci sarebbe questo Dio come assoluto all’interno di ciascuno di noi? Perché veniamo da lui, e abbiamo mantenuto - questo già in Plotino - l’Uno, che si mantiene in tutte le varie ipostasi, ed è questo che garantisce che ciascuna delle ipostasi conservi l’Uno, conservando l’Uno vuole ritornare all’Uno come sua origine, sua causa. A pag. 151. Per congiungere il proprio centro col centro di tutto, con l’Uno privo di determinazioni, il pensiero stesso deve spogliarsi delle determinazioni, ossia farsi semplice (togliere i molti), il che vuol dire essere non-discorsivo e privo di ogni molteplicità. Questo è l’uomo puro, quello privo di ogni molteplicità.