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18 giugno 2025

 

Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo

 

La volta scorsa abbiamo accennato alcune cose, ma ci manca un elemento, un elemento che ho trovato in Paolo di Tarso, che ha fama di essere colui che ha inventato il cristianesimo, cosa che in parte è vera. Certamente, non lo ha fatto da solo perché senza Platone prima e il neoplatonismo dopo sarebbe stato complicato. Lo leggeremo perché è importante, Paolo ha fatto una operazione straordinaria. Quando è stato inventato Dio? Tralasciando momenti sporadici in cui è comparso qualcosa di simile, il Dio del monoteismo è comparso nel VI secolo a.C. con gli ebrei, nello stesso secolo di Parmenide. La cosa interessante dell’operazione di Paolo è che ha preso il Dio furibondo degli ebrei e lo ha trasformato nel Dio dell’amore, della carità, della compassione, del perdono. Operazione strategica che ha fatto sì che Paolo abbia inventato il cristianesimo, ma lo ha inventato inventando l’anima bella. Anima bella è un termine coniato da Hegel, noi lo utilizziamo e man mano preciseremo. La prima anima bella è Gesù Cristo. L’anima bella compie un’operazione importante attraverso l’amore: l’amore ingloba tutto, l’amore unifica, elimina i contrari. Il che significa che tutto quanto può, deve essere reinserito all’interno di questo amore; in fondo, Hegel fa esattamente questo. Ora, questa operazione è passata assolutamente inosservata. Solo uno se ne è accorto: Nietzsche, il quale si è accorto dell’inganno, dell’enorme contributo di questa cosa alla volontà di potenza, che ha ottenuto, attraverso Paolo, quindi attraverso l’istituzione dell’anima bella Gesù Cristo, il massimo del suo potere. Il potere non è soltanto quello di fare credere di essere l’eletto, ma dà il potere alle persone di avere come riferimento un Dio assoluto, quindi un Bene assoluto, che quindi c’è, io lo conosco e questo mi autorizza a giudicare tutti. Ci sono in Paolo delle affermazioni straordinarie, dove dice esattamente questo: da questo momento tu potrai giudicare tutti perché tu conosci il bene. Ma questo bene deve essere assoluto, bene assoluto che non è altro che il Dio assoluto, e questo viene dritto da Platone. Quindi, soltanto con l’unico bene, con l’unico Dio, è possibile giudicare tutti da quella posizione assolutamente privilegiata di colui che sa, appunto l’anima bella. In questo modo Paolo ha effettivamente inventato il cristianesimo, dando ai cristiani questo straordinario e nuovo immenso potere: conoscere il bene assoluto e, quindi, da quella posizione potere giudicare tutti. Ora, chi rinuncia all’eventualità di potere giudicare tutti in verità? Leggeremo, dicevo, le Lettere di Paolo perché – e questo è il tassello che ci mancava – qui si vede come si è costruito il cristianesimo a partire dalla volontà di potenza, cioè, a partire dall’offrire alle persone l’occasione per potere esercitare la loro volontà di potenza, in verità. Tutti l’hanno sempre esercitata, naturalmente, però in questo caso, con Paolo si esercita la volontà di potenza, ma a partire da una verità unica, che io conosco. Certo, Dio è stato inventato dagli ebrei, però questo Dio degli ebrei, furibondo, tremendo e vendicativo, non riusciva a persuadere tutti. D’altra parte, gli ebrei, essendo loro gli eletti, non gradivano che altri potessero usufruire di questa elezione; mentre con il cristianesimo il discorso cambia completamente, ed è questo che poi ha consentito l’evangelizzazione, cioè, la diffusione planetaria del cristianesimo. Esiste un bene unico, che è il Dio unico. Se si pone come il Dio dell’amore, vuole che tutti partecipino, che tutti vengano salvati. Ecco, quindi, con Paolo la necessità di portare il verbo fra le genti. Qui ci stiamo ponendo la questione su come Paolo ha fatto affinché il cristianesimo attecchisse, perché non era così scontato, ha incontrato un certo numero di problemi, alla fine Paolo è stato decapitato. L’operazione è stata proprio questo passaggio dal Dio terribile degli ebrei al Dio dell’amore. L’amore unifica e lo dice continuamente anche qui Agostino della necessità di unificare sempre. Quindi, il Dio dell’amore dà a tutti l’opportunità di essere i prediletti del Signore, non più come nel caso dell’ebraismo che limitava l’elezione solo a un popolo, ma tutto il mondo, semplicemente fornendo a ciascuno dei discepoli questa opportunità di avere in un certo qual modo l’autorizzazione divina a giudicare tutti. È bastato questo fatto? Difficile a dirsi, però sicuramente ha avuto una portata notevole nel persuadere le persone. Attraverso Dio tu diventi la persona più potente perché sei sorretto dal bene, dall’unico bene; ed è questo che dà la forza al credente: essere il portatore dell’unico bene, dell’unico Dio. Cosa che viene da Platone, il responsabile di tutto è sempre lui, di sicuro non Aristotele. Questo per anticipare il lavoro che faremo appena terminato Beierwaltes. Anche perché le cose che dice qui non sono del tutto estranee a questa questione. La parola espressa non è un realismo fotografico né critico. L’opera d’arte, piuttosto o nonostante attraverso il suo carattere di finzione o di illusione, è sempre trasformazione della realtà; quindi, costituisce una uova realtà che rende possibile l’avvio della riflessione concettuale che supera persino il processo conoscitivo della realtà da cui deriva. Questo sarebbe impensabile se l’opera d’arte fosse una mera duplicante immagine della realtà e non pre-manifestazione trascendente in sé medesima. Una pre-manifestazione: questa è la questione che utilizza adesso Agostino per parlare del linguaggio. In fondo, anche Agostino riprende una stessa questione di Paolo: è necessario che la parola in qualche modo non possa essere messa in discussione. Le parole, chiaramente, si muovono, dicono una cosa e poi ne dicono un’altra, quindi, come facciamo a stabilire la parola autentica? Perché ci sono due parole, Porfirio docet: una è la parola interiore, l’altra è la parola espressa; significante e significato, de Saussure non si è mosso da qui, ha continuato sulla stessa linea. Siamo all’ultimo capitolo, La metafisica del linguaggio in Agostino. Chi si accosta anche solo a poche pagine delle Confessiones di Agostino sente un discorso che apertamente sa perché si esprime in quel determinato modo. Non è routine retorica, la quale potrebbe risultare di disturbo per il proprio svolgimento interno, ma piuttosto è il concetto stesso che domina il linguaggio; così come per pochi vale per Agostino il detto di Quintiliano sull’arte del linguaggio per cui essa deriva dalla fonte interna della sapienza. I suoi dialoghi a volte manifestano ancora scorrevolezza platonica e lasciano brillare quell’ironia che nel corso del pensiero non si lascia inchiodare ai canoni dell’ortodossia. I suoi successivi trattati, più consistenti per forma e indirizzo come il De Trinitate e il Civitas Dei, chiariscono in modo particolare lo sfondo su cui si è formato qualcosa di linguisticamente diverso e giustamente più ricco, vale a dire l’acuta articolazione concettuale di un pensiero in cui l’elemento platonico accoglie continuamente precisi fondamenti in modo aristotelico. Le sue omelie sono comprensibili esercizi spirituali dell’ideale al fine di essere in actione contemplativus (contemplativo in atto). Pertanto, egli guarda il popolo sulla bocca, ma al contempo pretende anche, con la purezza e la severità della struttura linguistica, prima di ogni contenuto la sospensione dei luoghi comuni; e questo in modo genuino e non adattato cristianamente, quindi, non segue la perfida massima per cui possa valere come comprensibile, e quindi accoglibile, ciò che non occorre anzitutto comprendere. /…/ La metafora di Agostino è tale da stabilire il significato in modo non assolutamente rigido ma in modo che possa oscillare in un ampio campo di significati. Essa può apparire inadeguata solo per un pensiero che stabilisce un’esattezza matematica o fisica come unico ideale di ogni esternazione linguistica e che, quindi, discrimina la figura, la metafora, l’analogia o il simbolo in quanto non scientifiche. Per esso, però, oltre alla poesia devono restare fondamentalmente non percorribili anche tutte le forme di discorso indiretto, di mediazione concettuale, come l’ironia, la contraffazione o l’emozione giacché il pensiero in queste forme si sfrangia in un modo che a dir loro non è permesso. Non appare affatto sorprendente che all’uso di Agostino della lingua, riflessa in così grande misura, si fonda soprattutto su una riflessione sul linguaggio, ma questa riflessione, giacché si interiorizza secondo il fondamento del pensiero agostiniano verso la risoluzione metafisica e verso la trascendenza, ossia risulta ispirato dall’homo interior, nella sua valutazione dell’uso esterno della lingua, si trova in notevole contrasto con il concreto dispendio accennato all’arte linguistica. La modalità è sempre quella suggerita, anzi quasi imposta, da Porfirio, due parole: una, quella che usiamo noi; l’altra è quella che sta lassù. Come il numero, lo diceva qualche pagina prima: c’è il numero, quello che usiamo e, poi, c’è “il” numero, che noi non possiamo usare perché è di Dio, Dio è il titolare di quel numero. Se si guarda la situazione attuale del pensiero linguistico, che in prevalenza rappresenta aspetti non metafisici o antimetafisici, nell’essenza della lingua sospetta di mitologia in Heidegger o nell’ordinaria … dei filosofi che tenta di indagare contro l’impazzimento metafisico del linguaggio solo la giustezza logica dell’affermazione ma non il suo presupposto, allora potrebbe sembrare se assurdo almeno anacronistico prefiggersi di analizzare la metafisica del linguaggio di Agostino. Prescindendo dalla forza irritante che ha relegato il pensiero di Agostino nell’agostinismo medioevale e moderno… Qui Beierwaltes è seccatissimo per il fatto che Agostino sia stato malinteso nel prosieguo. Da ultimo anche Scheler ma anche istituzioni che non sono affatto agostiniane, come per esempio alla fine delle Meditazioni cartesiane di Husserl o dell’imperativo agostiniano “Non uscire fuor di te” è diventato un ornamento scenografico della riproduzione trascendentale o in Essere e tempo di Heidegger ove l’antropologia agostiniana funge particolarmente e cripticamente come movente nell’analisi di paura, timore e preoccupazione, e sporadicamente ma in modo rilevante come elemento ancora platonico nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Prescindendo, quindi, dalla storia degli effetti, è pensabile che la base metafisica del linguaggio per Agostino possa fungere come critica e correzione di un pensiero linguistico, formalistico o mitologico, almeno come spinta ermeneutica per considerare il problema linguaggio in modo più rinnovato e basilare. Questo è Beierwaltes che vuole dire la sua, ma non ha tutti i torti perché, in fondo, queste critiche che muove, per esempio alla filosofia del linguaggio, alla logica, alle Ricerche logiche di Husserl, ecc…. tutte queste posizioni sarebbero, in teoria, poste antimetafisicamente, mentre Agostino pone il linguaggio in modo metafisico, cioè, il linguaggio è certo. Ma non ha torto Beierwaltes dicendo che, in fondo, la posizione di Agostino è tutt’altro che superata. Su che cosa si fondono, si basano tutte queste dottrine, come quelle dello stesso Husserl o Heidegger o Wittgenstein o de Saussure, ecc.? Tutti presuppongono che la parola sia quella che è. Cosa glielo fa pensare? Perché pensare una cosa del genere è un pensiero metafisico, tutt’altro che antimetafisico. L’idea che la parola sia o che debba essere quello che è non è altro che l’idea antica che possa darsi l’uno senza i molti. In questo modo, sia Husserl che Heidegger, Wittgenstein e gli altri, possono muovere da questo fondamento che dice che la parola è quella che è: se io uso questa parola, questa parola vuole dire questa cosa. Solo a questa condizione posso costruire una teoria. Ecco perché gli antichi, i presocratici soprattutto, ci andavano più cauti con queste affermazioni, perché avevano inteso che la cosa non era così semplice, non era così semplice eliminare i molti dall’uno, anzi, per Eraclito era impossibile. Invece, poi, con il neoplatonismo è passata questa idea. Attraverso cosa è passata? Il bene unico, perché c’è il Dio unico, quindi la verità unica, quindi: la verità c’è, il bene c’è, Dio c’è. Agostino si è trovato di fronte allo stesso problema che si è trovata di fronte la linguistica contemporanea: il problema della cosa, cioè, il problema del referente. Pensate a de Saussure: significante, significato, referente. Il referente è l’alberello; il significante è l’immagine acustica, il suono; il significato, il concetto di albero. Naturalmente, a garanzia di tutto c’è l’alberello, che è quello che è. Rispetto a questa questione, bisogna tenere conto di alcuni elementi. Il rapporto di linguaggio e pensiero ovvero della parola interna con quella esterna. /…/ Il rapporto di parola e cosa, ovvero la funzione di rimando alla cosa della lingua; la parola come segno. Un pensiero di Agostino che ci obbliga a prendere in considerazione il possibile sviluppo del pensiero linguistico metafisico da come si è in realtà sviluppato nel Medioevo. La parola come segno, quindi, come rinvio. Il rapporto di parola e cosa, questa funzione di rimando alla cosa, è importante. Su cosa si regge questa idea che la parola possa dire la cosa? È una questione antica e si regge sull’idea che sia possibile passare dall’uno al due, dal due al tre ecc., immaginando, presupponendo che ci sia un qualche cosa che garantisca questo passaggio. Sappiamo bene che Aristotele si è accorto che non c’è, che non c’è niente al mondo che possa garantire il passaggio dall’antecedente al conseguente. Ma, allora, come fa la parola a dire la cosa? È una questione che ancora oggi interroga. Ponete la cosa in questi termini: io voglio dire che cos’è una cosa, questo tavolo, per esempio. Incomincio con una definizione. Ma questa definizione è il tavolo? È una definizione che dovrebbe rinviare al tavolo, ma il tavolo è una cosa e la definizione un’altra, le definizioni sono parole; e, allora, provo a definirlo meglio, e posso andare avanti all’infinito. Ma ciò che mi troverò di fronte non sarà mai il tavolo, saranno sempre e soltanto altre parole, all’infinito. Ecco, quindi, la questione della cosa: la parola non dice la cosa, la parola inventa la cosa, la presuppone per potere dirsi. Così come si inventa la verità. Di fatto, come dicevo prima, è una questione antica, è, in fondo, lo stesso problema di Zenone, degli eleati. Il problema è ancora oggi presente, per esempio nelle prime pagine del libro di logica matematica di Mendelson. Il problema è sempre lì perché non ci si accorge che per definire qualche cosa, per poterlo cogliere devo determinarlo, ma queste determinazioni sono soltanto parole, ed è solo con queste che io ho a che fare. E, allora, la cosa? La cosa l’ho inventata per potere parlare. Agostino si pone una domanda precisa, cioè, cos’è la lingua nella sua essenza? Questo però implica la domanda che si chiede perché e da dove la lingua è resa possibile; quindi, soprattutto la domanda sul fondamento e sull’origine della lingua. Punto di partenza è la parola come elemento del linguaggio. Ci si chiede quindi: dove si basa e da dove deriva la parola? Da dove si può capire l’esistenza e il significato della parola? La risposta rinvia alla struttura personale dialogica dell’uomo, alla possibilità della lingua data in lui dal pensare, che rende possibile in primo luogo ogni concreto linguaggio storico. In termini agostiniani, la risposta è data dalla parola interna o parole del cuore, come essenza della lingua. Dunque, la lingua può essere compresa solo a partire dalla personalità dell’uomo, a partire dall’homo interior. La lingua è, così come la libertà spontanea, la responsabilità l’autoriflessione e la storicità, un fondamento della persona, così che la domanda sulla lingua va sempre insieme alla domanda sulla struttura personale dell’uomo. Entrambe si chiariscono a vicenda. Se Agostino è noto per la frase assai citata e stessa fraintesa, tratta dal De vera religione, “non andare fuori, ritorna in te stesso”, nell’uomo interiore abita la verità, allora con ciò viene affermato soprattutto che la verità può diventare visibile solo nell’autoriflessione del pensiero, ma insieme che l’atto temporale della scoperta della verità è un ritorno dello spirito nel fondamento della verità. L’uomo è invitato a identificarsi nella risalita trascendente, con la verità che è natura e suprema coincidenza con sé medesima. Cioè, è l’Uno. È questa la verità, e soprattutto è l’idea di Agostino della parola interiore. Perché è identica a sé? Perché viene da Dio, lo dirà tra poco, viene dal Maestro, è lui che garantisce che la parola sia quella che è, cioè, sia identica a sé. Agostino intende la parola interna come parola del cuore. La metafora del cuore naturalmente non indica uno stato di contemplazione emozionale o irrazionale; il cuore è l’intimum personale e, dunque, razionale dell’uomo, esso è l’unità del senso interno. Il riferimento al cuore è il riferimento all’unità del senso interno della parola. Unità del senso, cioè, la parola è identica a sé. Poiché il cuore è centro del pensiero metafisico, che vuol dire concentrantesi sul fondamento assoluto, esso è anche principio per il mezzo di questa ascesa, la parola. Pertanto, la ratio cordis, questa può essere descritta come parlare nel cuore, come bocca del cuore, come bocca o parola interna, che vuol dire figlio del cuore. Gesù Cristo. Insomma, la parola interna, dice Agostino, ha innanzitutto il suo valore senza la parola esterna. La parola esterna è inutile senza la parola interna. /…/ Nel cardine del mio cuore, nel segreto della mia mente, la parola interna è venuta prima di quella esterna. Quindi, è anche parola in senso particolare. La parola esterna, al contrario, è figura determinata o segno di quella interna. La parola che risuona all’esterno è un segno della parola che risplende all’interno. La parola interna, verbum cordis, è stata definita principio di quella esterna della vox verbi. In quanto tale essa non è fissata in nessuna lingua storica e concreta... È la parola di Dio. …quindi essa, come dice Agostino, non è né greca, né latina, né di altro genere; piuttosto, precede queste lingue. Questo antecedit riguarda la dignità ontologica della parola. La parola interna, pertanto, si deve intendere come fondamento reale, preesistente di ogni temporalizzazione, di ogni particolarizzazione, che comprende in sé ogni possibilità di lingua storica concreta. /…/ Agostino spiega il carattere intenzionale del pensiero determinando il pensare come vedere. Il pensiero è una certa visione dell’anima. Dato che il pensare è collegato all’essere di ogni cosa o di ogni stato di cose, in modo intenzionale, essendo da esso attratto e ricevendo da esso la sua misura, lo pensa realiter, se è vero che vede l’essere della cosa o dello stato di cose con l’occhio interno e intravede la figura sensibile di questo essere. Vedere e dire l’essere della cosa sono però la stessa identica cosa. Dire la cosa vedendola all’interno. Io vedo la cosa, la dico, ma è la mia parola che, essendo la parola di Dio, garantisce la cosa e non il contrario. È una questione interessante, però per Agostino questo ha un senso perché la parola interiore è la parola di Dio, è la parola divina. Quindi, io dico la cosa con la parola; la mia parola garantisce la cosa perché la parola è verità assoluta. Fuori, nell’ambito di ciò che ha vita, una cosa è il parlare, un’altra cosa è il vedere, ma dentro, quando pensiamo, entrambi sono una unità. Quindi, è sconveniente chiedersi cosa venga prima, parlare o pensare. Parlare e pensare sono piuttosto un atto simultaneo. Infatti, Agostino non intende un’identità ingenua di parola e cosa; in ogni modo, egli non si pone assolutamente il problema, con ogni riservatezza, contro la sensibilità di ciò che è comunicabile linguisticamente del rapporto della parola con sé e indipendentemente dalla cosa con la cosa reale. Il senso reale di una cosa, come è stato affermato, è misurante per la sua conceptio spiritualis esprimibile. Cioè, è reale per il concetto spirituale che esprime. Il senso di una cosa o di una realtà viene accolta come concepito, ovvero come concetto, quindi la parola, nella quale si articola il concetto, ha lo stesso rapporto con la cosa del pensiero concettualizzante. Le si avvicina per quanto è possibile, è la sua immagine. La parola è molto simile alla cosa conosciuta da cui deriva ed è una sua immagine. La somiglianza o l’adeguatezza, quantum potest, della parola con la cosa reale in sé mette in evidenza che il pensare, in quanto concettualizzazione e giudicante, è capace di portare sé medesimo in concordanza con la cosa, e porta in concordanza attualmente di volta in volta anche se medesima, e in questo modo è vero. Dice Agostino: la verità mostra ciò che è. Si deve quindi intendere già nell’orizzonte della successiva definizione di verità, veritas est adæquatio rei et intellectus. La verità è la concordanza o l’adeguamento della cosa e dell’intelletto. Vedete, quindi, come funziona in effetti la questione linguistica in Agostino e come questa questione sia ancora presente oggi. Perché il problema della cosa - come la parola dica la cosa - non è mai scomparso. La cosa, come dice Agostino, viene garantita dalla parola interna; la parola esterna la dice, certo, la elabora, la manipola, ma è la parola interna che la fa esistere, cioè Dio, in fondo. Agostino chiarisce in modo eccellente il rapporto di parola e cosa nel pensiero concettualizzante, ossia la capacità della parola di racchiudere l’essere con la metafora della luce, che deriva da una metafisica o teologia della luce. La parola è luce sensibile in due modi, è luce e illumina permettendo la visione. Per questo, poiché all’essere compete un’originaria forza illuminante indicante che la parola traduce in segno determinato, atto ad indicare ed illuminante. La funzione illuminante o apofantica della parola fa riferimento dal fronte a un principio teologico ed aiuta a chiarirlo. Apofantica vuol dire che è sottoponibile a un criterio vero-funzionale; apodittico no, è immediatamente evidente. Questo significa la parola finale o parola nel tempo ha dunque solo una funzione apofantico-illuminante, perché la parola prima dei tempi, il verbo atemporale in sé, è pura luce, fulgore del Padre, luce da luce. Il parlare o esprimersi del verbum filius dal padre viene inteso quindi come illuminare con lo splendore della sapienza. Quindi, è la stessa automanifestazione di Dio come verbo, luce e sapienza. Padre, Figlio e Spirito. Infatti, parla di verbo atemporale rispetto alla parola interiore. Dice nelle Confessioni. Soltanto ciò che Dio dice, ossia ciò che è eternamente idealiter pensa e insieme dice, egli lo crea esclusivamente con il suo pensiero che parla... Sarebbe il Figlio. …e che il creato comprensibile nel verbo… Cioè, quello che noi possiamo comprendere. …rimanda al creatore, le cose proclamano che sono state create, e la loro voce è la stessa evidenza. Il fatto che il verbo illuminante ovvero la luce nel verbo sia presupposto universale dell’essere mostra anche l’affinità del verbo come luce e del verbo come vita. /…/ D’altra parte, la luce del verbo atemporale è per l’uomo nel tempo fonte… L’uomo nel tempo, cioè, noi umani. …della vita reale e sensata. Ora, la connessione tra la parola e la verità. Le parole contengono in sé la verità della cosa, tanto poco quanto la verità può essere facilmente comunicata con le parole. Lo sguardo nella verità della cosa è piuttosto un atto individuale da compiere in modo originario di volta in volta. Soltanto guardandosi dentro. Lo scopo dello scritto De magistro non è perciò la formulazione di una teoria dei segni, bensì rendere chiari la condizione di possibilità e il criterio di verità di questo atto individuale della conoscenza. Come è possibile che noi conosciamo? È possibile perché noi ci rapportiamo alla cosa, analizziamo la cosa, ecc., ma tutte le parole che utilizziamo per dire quella cosa sono parole esteriori, che sono il frutto di una parola interiore che viene da Dio, è quella che garantisce ogni cosa. Altrimenti, siamo nelle mani dei sofisti. Quindi, chi insegna? Cosa rende comunicabile la cosa? Il nostro proprio maestro, risponde così Agostino, secondo Matteo è Cristo, il magister interior Christus, che prende il posto della anamnesi platonica e dell’intelletto aristotelico dell’anima, psiché. Quindi la ricerca filosofica che ora è possibilità presente basilarmente a priori nell’uomo che ci fa conoscere con fiducia l’assoluto nel tempo, è sviluppata dal punto di vista teologico ed è collegabile alla caratteristica dottrina agostiniana dell’illuminazione. Dio o Cristo, in quanto verità immutabile è l’ultimativa garanzia ontologica e logica dell’evidenza. Qui siamo arrivati proprio alla questione. È Dio che garantisce tutto quanto. Non c’è più l’anamnesi platonica del ricordo… Avete presente: io vedo quella cosa lì, però la conosco perché ricordo l’idea. Dal fondo di questo criterio assolutamente oggettivo della conoscenza della verità in intimo, è una conseguenza comprensibile ma scoraggiante per la comprensione della realtà che circonda la negatività teologica della parola esterna. Cioè, se non ci fosse la parola interna, con la parola esterna non potremmo comprendere niente. Solo con la parola esterna siamo nelle mani dei sofisti, ci vuole la parola interna, solo la parola interna ci garantisce; se ci affidiamo alla parola esterna è finita, siamo presi in un rinvio infinito. Accade quello che dicevamo prima: se voglio definire qualcosa, se voglio determinarlo, determino all’infinito. La fondazione metafisica e teologica della lingua di Agostino ha condizionato essenzialmente ed efficacemente il pensiero linguistico metafisico di Anselmo, Riccardo di San Vittore, Bonaventura, Tommaso d’Aquino. Questa metafisica del linguaggio si è persa nel corso della teoria linguistica logica del Medioevo. No, in realtà non si è mai persa, si è modificata; si è modificata quando, intorno all’anno Mille, si è pensato che la logica potesse fornire quelle risposte che Agostino attribuiva a Dio. È il motivo per cui ci fu questa discussione, proprio intorno all’anno Mille, tra i dialettici e gli antidialettici: i dialettici volevano provare, soprattutto Anselmo, dimostrare l’esistenza di Dio, cioè giungere a una parola unica attraverso la logica; ma molti erano in disaccordo perché non si può trasformare la parola divina in termini logici. Questa demetafisicizzazione e di conseguenza deteologizzazione del linguaggio deriva in modo speciale dalla recezione della logica aristotelico-boeziana… Diciamo boeziana perché di aristotelico c’è ben poco. …che paradossalmente richiamata anche nella teoria agostiniana dei segni, naturalmente senza l’accettazione della sua dimensione metafisica e della sua visione negativa del segno. Perché visione negativa del segno? Perché il segno non coglie mai la cosa, a meno che ci sia la parola interiore. Se io mi guardo dentro, cosa vedo? Vedo la verità, perché dentro c’è Dio. È significativa l’intenzione di questi trattati, Tommaso di Erfurt, Giovanni Martina, Simone Boezio di Dacia… Siamo più o meno nell’anno 1000. …trovare la struttura logica e categoriale del linguaggio come universale e, sulla base della dottrina logica del significato raggiunta in questo modo, comprendere la stessa lingua parlata. Questa è la direzione che poi ha preso la filosofia del linguaggio ancora oggi, cioè, intendere attraverso la logica come funziona il linguaggio. La demetafisicizzazione non va comunque così lontano, neanche con Occam, tanto che essa mantiene anche il rapporto parola, concetto, cosa, come del resto avviene in alcune ricerche formalistiche dell’analisi moderna del linguaggio o della semantica, e piuttosto rimane il contenuto significativo della realtà data fondato ontologicamente. Quindi, il modus entis misura per il segno e per il giudizio formulato dal segno parola. Non si va molto lontani con questa idea di demetafisicizzare, perché questo rapporto parola-concetto-cosa è metafisico, non posso dimostrarlo in nessun modo, devo presupporlo, cioè, devo dire “è così e tanto basta”. La conclusione di Beierwaltes. Agostino ha tentato di mostrare questo, una certa lingua, e prima di ogni sistema esterno di segni, soprattutto un atto progettante a priori della coscienza medesima. Mi sembra di leggere Heidegger. Agostino ha tentato di mostrare questo sulla base dei suoi presupposti filosofici e teologici. Una richiesta antimetafisica, al contrario, potrebbe anche in una certa misura risultare sensata o anche feconda, se si decide a comprendere le domande reali e i problemi che stanno dietro le parole del pensiero metafisico, che queste parole hanno voluto presupporre. La nostra situazione dovrebbe apparire in ogni modo senza speranza, se dopo una fase di metafisica estrema, finanche tendenza acriticamente all’irrazionale o di superamento della metafisica, da una parte, e di negazione positivistico-radicale dei problemi filosofici, dall’altra, non fosse libero neanche lo sguardo razionale e critico per l’oggetto e per il problema del filosofare, che ci rende inquieti in quanto problematici. A tale riguardo riguarda la fissazione ideologica anche in questo punto non è una via d’uscita. Quindi, torniamo a Plotino, dice Beierwaltes, perché lì c’è la soluzione di ogni cosa.