17 settembre 2025
Agostino d’Ippona De Trinitate
Agostino si accorge molto bene del problema del linguaggio. Si rende conto che parlando non c’è il controllo sulla parola, che cioè non c’è nulla in questo mondo che garantisca che ciò che sto dicendo corrisponda a qualcosa, in questo mondo; nell’altro mondo, invece, c’è chi può garantire. Ora, accade che più o meno fino all’anno mille, cioè fino a che dura la priorità dell’agostinismo, anche se non è che poi gli altri si siano molto occupati di linguaggio, vedremo poi con Gregorio di Nissa eventualmente, ma l’accorgersi del problema ha avuto degli effetti, perché Agostino ha potuto accorgersi del problema del linguaggio perché aveva una soluzione, e cioè Dio. E, quindi, ha potuto affrontare la questione nei suoi termini, cioè, come dicevo prima, che parlando non c’è nulla che mi garantisca che ciò che dico corrisponda a qualcosa.
Intervento: È partito dalla soluzione per costruire il problema.
Sì e no, perché lui, intanto era un retore e, quindi, con le parole aveva spesso a che fare, però, la questione che a noi interessa è che Agostino ha potuto porsi la questione del linguaggio perché aveva la soluzione. Altri, a un certo punto, dopo l’anno mille grosso modo, hanno invece - come sappiamo, già da Anselmo - tentato di utilizzare la logica non solo per dimostrare l’esistenza di Dio ma per sostenere, per argomentare tutto ciò che la teologia andava elaborando. A questo punto è accaduto qualcosa. Intanto, era sempre necessaria questa garanzia, finché c’era l’agostinismo questa garanzia era Dio, e tanto bastava; dopo, invischiandosi con la logica più o meno malamente, questa garanzia da dove arrivava? Sì, c’era sempre Dio, però occorreva qualche cosa di più specifico, di più vicino all’argomentazione logica e, quindi, ecco che sorge la questione della realtà. La questione della realtà sorge grosso modo dopo l’anno mille e si manifesta poi più fortemente con Tommaso. Perché a questo punto che cosa garantisce? C’è bisogno della realtà, che è stata messa in un certo senso al posto di Dio, in un certo senso fino al Rinascimento, dopo a tutti gli effetti, dopo è diventata la natura, è diventata la ragione, è diventata una serie di cose, ma sempre messe al posto di Dio e sempre utilizzate come quella garanzia che deve dire che ciò che sto affermando corrisponde a qualche cosa. E questo è stato un passo importante perché dimostra in prima istanza che tutto il pensiero comunque è rimasto necessariamente religioso. Anche se non ha parlato più di Dio esplicitamente, però, ha messo un qualche cosa che comunque aveva la stessa identica funzione di garante.
Intervento: Il passaggio è stato Spinosa.
Sì, Spinosa, certo, ha aperto la strada, sicuramente. Più avanti sarà anche interessante leggere Ficino, che è stato l’ultimo dei teologi neoplatonici, proprio nel momento in cui ci fu una grande ripresa del neoplatonismo e dello gnosticismo nel Rinascimento. Ora, dicevo che questo mostra come tutto il discorso sia rimasto necessariamente religioso perché ha bisogno di un qualche cosa che lo garantisca. Agostino, invece, non aveva bisogno di un’altra cosa che garantissse; quindi, poteva affrontare la questione del linguaggio tranquillamente e mostrare e dire apertamente che il linguaggio non può garantire niente. Questo dopo non potevano più dirlo, perché la logica è il linguaggio e se il linguaggio non può garantire niente neanche la logica può garantire niente. E, allora, chi ci garantisce? Ecco la necessità dello spostamento sulla natura, sulla logica, ecc. Questo in Agostino è molto evidente, anche se non mi risulta che nessuno ne abbia mai parlato prima di questa sera. Agostino poteva ancora parlare del linguaggio in questi termini, cioè, dire che il linguaggio non può garantire niente, perché essendo fatto nel modo in cui è fatto, e cioè che per dire una cosa devo dirne un’altra, non può garantire nulla. Dopo, come dicevo, invece questo non è più stato possibile, non è più stato possibile dire che il linguaggio non garantisce niente. E, infatti, dopo un po’, un po’ alla volta, ecco sorgere la linguistica, poi tutti gli studi di logica, fino alla semiotica, cioè il sorgere di tutte queste discipline che devono dare una sorta di certezza che parlando si parli effettivamente di qualcosa, utilizzando, tra l’altro, lo stesso schema di Agostino: la Trinità. Due elementi e il terzo, l’amore per Agostino, la relazione che li tiene insieme e che, quindi, impedisce che questi due elementi, intanto, si sovrappongano l’uno all’altro, ché poi si disperdono, perché chi garantisce che dal Padre segua il Figlio o dall’uno segua il due o dal significante segua il significato? Nessuno a questo mondo; l’altro mondo, invece, può garantire. Ora, questa questione potrebbe essere di notevole importanza perché ci mostra che, in effetti, non è cambiato nulla, se non nei termini: tolto Dio compare la natura, fa il suo ingresso ufficiale la natura. La natura e, quindi, la logica, perché la natura non può pensare in termini che non siano logici. Le leggi di natura sorgono proprio da questa idea che la natura debba avere una priorità, perché è quella che in fondo garantisce tutto; perché Dio, mano a mano che viene eliminato, lascia il posto a dei sostituti, che hanno esattamente la stessa funzione. E questo ha mantenuto la religiosità nel discorso, quindi nel pensiero, fino ad oggi immutata, assolutamente immutata. Fino ad Agostino ci si poteva concedere il lusso di vedere il linguaggio per quello che è, cioè, come qualcosa di impossibile. Dopo questo lusso non c’è più stato; dopo, attraverso la logica, si è tentato di inquadrare il linguaggio. La logica serve a questo, a inquadrare il linguaggio in regole fisse prestabilite, in modo che da lì non si esca. Per questo hanno avuto tanto successo i Primi analitici di Aristotele, perché era praticamente un programma per computer; Aristotele infatti tentava proprio questo, di inglobare, di chiudere il linguaggio dentro schemi prefissati, i sillogismi. Poi, con i Secondi analitici il discorso è cambiato, perché ha cominciato a farsi delle domande ed è successo un disastro, come succede talvolta quando si fanno le domande: succede un disastro, tutto si scombina, cioè, irrompono i molti quando ci si fanno le domande; prima no, prima c’è l’Uno, c’è la verità epistemica, so come stanno le cose; poi, irrompono i molti e le cose, sì, stanno anche così magari, ma anche cosà, in infiniti altri modi, cioè, non le controllo. Questa sorta di messaggio è importante - perché non è che lui volesse trasmettere questo propriamente – perché, come dicevamo già qualche volta fa, ha fondato la semiotica, ha fondato il pensiero logico in un certo senso. Dico in un certo senso perché non è che abbia fondato la logica, no, lui non si occupava tanto di logica, era un retore, però ha dato, come dire, la base, il fondamento, perché la logica, costruita dopo di lui dopo l’anno mille grosso modo, potesse avere una validità, una valenza veritativa, cioè, si potesse pensare che attraverso la logica si potesse giungere alla verità. Il primo fu Berengario di Tours, poi Anselmo: l’idea che la dialettica avesse la capacità, la possibilità di dire il vero, cioè, di dire come stanno le cose. Quindi, sì, certo, rimaneva Dio, ovviamente, però si cercava già un’altra via, apparentemente più persuasiva, perché, se parliamo alle persone di Dio, magari non capiscono bene; se, invece, si argomenta logicamente - in fondo, anche Anselmo aveva questa idea - il discorso è più costrittivo; occorreva un discorso forte anche perché c’erano le varie eresie, sette, ecc. Anche perché la Parola di Dio, quella della Bibbia, ognuno la interpreta come gli pare e non ne veniamo più fuori; se, invece, usiamo la logica, questa è molto più restrittiva, perché una conclusione logica, se corretta, non è obiettabile, sempre che si accolgano le premesse, naturalmente. Ecco, dunque, che cosa ci sta dicendo Agostino: soltanto la Trinità può garantirci che parlando si possa sapere di cosa si sta parlando, solo la Trinità, solo Dio. Ed è vero, in un certo senso. Non che abbiamo bisogno di Dio naturalmente, non ci importa assolutamente nulla, ma abbiamo bisogno di questo terzo elemento che tiene insieme i due. Come diceva già il semiotico francese Greimas: i due termini della relazione sono tenuti insieme dal terzo, che è la relazione propriamente; ma ci vuole un terzo che li tenga assieme, sennò cosa li tiene assieme? Per Agostino è l’amore, va bene, ma comunque è la relazione, è lo Spirito Santo, è l’albero di de Saussure, né più né meno. Cosa garantisce che il significante e il significato siano un qualche cosa anziché essere niente? Il fatto che esista l’albero come referente. Nel caso di de Saussure è l’alberello a fare la funzione di Dio e di garante, che poi è la realtà delle cose. Andiamo un po’ avanti con Agostino. 16. 22. Cita la lettera ai Corinti dell’apostolo Paolo. Se infatti io prego con la lingua, il mio spirito prega, ma la mia anima intellettiva non ne ricava alcun frutto. Egli allude al caso in cui non si comprende ciò che si dice, perché non si può nemmeno dir nulla, se l’immagine delle parole materiali, nella rappresentazione dello spirito, non precedesse il suono della voce. Quindi, occorre che ci sia un’immagine prima di parlare. Poi, è diventata la precomprensione di Heidegger. È un sistema per risolvere il problema abbastanza diffuso: c’è, come dire, una sorta di precomprensione attraverso la quale io posso conoscere le cose. Che poi non è così lontano da quello che diceva Platone: c’è prima l’idea. Si chiama spirito anche il principio vitale dell’uomo; per questo si legge nel Vangelo: "È chiamato il capo, rese lo spirito". /…/ Ma non vuole certamente designare due realtà, come se una cosa fosse la carne, altra cosa è il corpo di carne. Ma poiché la parola “corpo” si applica a molte cose, nessuna delle quali è carne, l’Apostolo chiama corpo di carne il corpo che è carne. Allo stesso modo chiama spirito dell’anima intellettiva lo spirito che è anima intellettiva. In un altro passo, più esplicitamente ancora, parla dell’immagine, facendo la stessa raccomandazione con altre parole: "Spogliandovi dell’uomo vecchio e delle sue azioni, rivestitevi dell’uomo nuovo che si rinnova nella conoscenza di Dio, secondo l’immagine di Colui che l’ha creato". /…/ E mentre prima scriveva: nella vera giustizia e santità, ora scrive nella conoscenza di Dio. Dunque, questo rinnovamento e questa riformazione dello spirito si verificano secondo Dio o secondo l’immagine di Dio. Ma è detto: secondo Dio, perché non si ritenga che si verifichi secondo un’altra creatura. Quindi, si rende conto che la parola è un’immagine, come poi dirà de Saussure: un’immagine acustica. E, quindi, mette in guardia dal fatto che le parole producono, sì, immagini, ma le immagini non sono la cosa. Cioè, le parole non garantiscono: se io parlo del corpo, la mia parola non è carne; c’è, da un’altra parte, una carne e tutto quanto quello che segue. Ma lui vuole che si tenga conto che la parola inganna, ché se non è garantita non ci porta da nessuna parte, che la parola, appunto, è un’immagine, un’immagine che può essere di tante cose. Come dice qui, la parola corpo può volere dire tante cose, ogni parola può volere dire tante cose; cioè, sta dicendo che ci sono i molti. E chi è l’unico che può toglierci i molti di torno? Libro decimoquinto 2. 2. È così, infatti, che bisogna cercare le cose incomprensibili perché non ritenga di aver trovato nulla colui che abbia potuto trovare quanto è incomprensibile ciò che cercava. Perché allora cerca, se comprende che è incomprensibile ciò che cerca… Questa è una bella domanda. Perché, dice, cercare l’incomprensibile, cioè Dio in fondo, quando sappiamo che non possiamo conoscerlo? La parola non ce lo consente perché ci sposta continuamente e, quindi, rimane inconoscibile. E allora si chiede: perché cercare comunque questo significato ultimo delle cose? Si risponde: Perché lo si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore. È in questo senso che si può intendere l’affermazione che l’Ecclesiastico pone in bocca alla Sapienza: Coloro che mi mangiano avranno ancora fame e coloro che mi bevono avranno ancora sete. Mangiano infatti e bevono, perché trovano, e, poiché hanno fame e sete, cercano ancora. La fede cerca, l’intelligenza trova; per questo il Profeta dice: «Se non crederete, non comprenderete». E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato; perché Dio guarda sui figli dell’uomo, come si canta nel Salmo ispirato per vedere se c’è chi ha intelligenza, chi cerca Dio. Dunque, per questo l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio. Ma la sua domanda era questa: perché cerco qualcosa che non posso trovare? E qui l’unica risposta è la fede. Trasponiamo la cosa rispetto al linguaggio: perché cerco il significato unico, che non posso trovare? Perché ho fede che ci sia. È questo che consente di continuare a parlare: ho fede che ci sia, per poterlo utilizzare. Fede che si può intendere comunemente come il dare il proprio assenso a un’affermazione che non è sostenuta da nessuna argomentazione, ma è la fede, come dire: io so che c’è il significato ultimo, io so che c’è una verità, bisogna trovarla. È quello che dice Agostino: bisogna mettersi lì e trovarla; io la cerco perché so che c’è, ma poi devo trovarla. E questa è la verità epistemica. 9. 15. Tutto questo è stato detto per commentare le parole dell’Apostolo che afferma che noi vediamo ora in uno specchio. Le parole seguenti: in enigma, sono incomprensibili a tutti gli illetterati che ignorano le figure della retorica, che i Greci chiamano tropi, parola passata dalla loro lingua alla lingua latina. Come infatti parliamo più correntemente di “schemi” che di “figure”, così parliamo più correntemente di “tropi” che di “figure retoriche”. Quanto a tradurre in latino i nomi di ogni tropo o figura, in modo che ad ogni parola greca ne corrisponda una latina, è impresa fin troppo difficile e inusitata. Qui fa una digressione intorno alla retorica. Ma è necessario che la definizione di un termine generico abbracci tutte le specie. È l’idea di Platone. Per questo, come ogni cavallo è animale, ma non ogni animale è cavallo, così ogni enigma è allegoria ma non ogni allegoria è un enigma. L’allegoria è quella figura retorica per cui si dice una cosa al posto di un’altra. L’allegoria, dice, non è un enigma. Infatti, eccetto per coloro che sono molto tardi di ingegno, il senso di questa espressione è pienamente evidente. L’enigma, invece, è, per spiegarlo in breve, un’allegoria oscura, come il passo: La sanguisuga ha tre figlie, ed altri di questo genere. Tuttavia, quando l’Apostolo parla di allegoria, non la individua nelle parole ma in un fatto, nel fatto in cui mostra che i due figli di Abramo, uno della schiava e l’altro della donna libera, devono significare i due Testamenti; questo fatto, prima della spiegazione, restava oscuro. Perciò una tale allegoria, termine generico, potrebbe essere chiamata enigma se si usa un termine specifico. Qui lui pone una questione, della quale neanche se ne accorge, in effetti, forse perché comunque ha sempre Dio come riferimento e, quindi, tanto l’allegoria quanto l’enigma hanno la loro soluzione in Dio. Si potrebbe obiettare anche molto facilmente che tanto l’allegoria quanto l’enigma possano essere interpretati in più modi e che, quindi, a questo punto, c’è l’eventualità che tanto l’allegoria quanto l’enigma risultino assolutamente incomprensibili se non hanno un fine o, meglio, una fine, cioè, se non c’è un significato univoco, se non c’è una verità epistemica. 9.16. Qui fa una sorta di precisazione. Cita la parola dell’Apostolo quando dice afferma che ora noi vediamo in enigma, ma dice ancora vediamo ora attraverso uno specchio, e poi aggiunge in enigma. È infatti una sola espressione perché l’Apostolo dice in una sola frase così: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma. Perciò, a quanto mi sembra, se con la parola “specchio” volle significare l’immagine, con la parola “enigma”, sebbene abbia voluto significare una “somiglianza”, ha voluto tuttavia significare una somiglianza oscura e difficile da attingere. Sta parlando dell’analogia, la somiglianza è un’analogia. Se dunque si può intendere che con le parole “specchio” ed “enigma” l’Apostolo ha voluto significare qualunque somiglianza adatta a farsi comprendere Dio, nella misura in cui è possibile, tuttavia niente è più adatto di ciò che, non senza fondamento, è chiamato immagine di Dio. Nessuno si meravigli dunque - dato il modo di vedere che ci è concesso durante questa vita, cioè attraverso uno specchio e in enigma -dello sforzo che dobbiamo fare per vedere in qualche modo. Perché se fosse facile vedere, non si incontrerebbe in questo passo la parola “enigma”. E l’enigma è ancora più grande per questo: che non vediamo ciò che non possiamo non vedere. Infatti, chi non vede il suo pensiero? E chi vede il suo pensiero, non dico con gli occhi della carne, ma con lo sguardo interiore? Chi non lo vede e chi lo vede? Perché il pensiero è una specie di visione dell’anima, sia che siano presenti gli oggetti che anche gli occhi del corpo possono vedere o gli altri sensi possono percepire, sia che tali oggetti siano assenti e con il pensiero si vedano le loro immagini, sia che non venga pensato nulla di questo, ma si pensino cose che non sono corporee, né sono immagini di cose corporee, così si pensano le virtù e i vizi... Questa è una risposta a un’obiezione che allora veniva fatta: come faccio io a fare un’immagine di Dio se non lo posso vedere, se non lo posso comprendere, ecc.? Diceva, sì, l’immagine puoi fartela; è chiaro che non è mai l’immagine precisa, però, è un riferimento comunque, perché anche i pensieri non li vedi, però sai che ci sono, e Dio è la stessa cosa. Questo anche per dare un’idea delle argomentazioni di Agostino. 10.18. I pensieri, dunque, sono una specie di linguaggio del cuore, nel quale il Signore ci mostra che esiste una bocca quando dice: Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca, questo contamina l’uomo. Cioè, ciò che dice. In una sola frase il Signore parla in qualche modo di due bocche dell’uomo: una del corpo, una del cuore. Perché è evidente che, secondo l’opinione dei Giudei, ciò che contamina l’uomo entra per la bocca del corpo, mentre, secondo l’affermazione del Signore, ciò che contamina l’uomo esce dalla bocca del cuore. /…/ Tuttavia, quando diciamo che i pensieri sono le parole del cuore, non neghiamo per questo che siano anche visioni scaturite dalla visione della conoscenza implicita, almeno quando sono vere. Infatti, quando queste cose si producono al di fuori per mezzo del corpo, una cosa è la parola. altra la visione, ma all’interno, quando pensiamo, sono tutte e due una cosa sola. Ecco perché è vera la parola che viene dall’interno, perché vede effettivamente qualche cosa che è. Mentre la parola inganna, la visione no, perché la visione è mossa da Dio e, quindi, non può ingannare. 10.19. Chiunque, perciò, può comprendere che cosa sia il verbo, non soltanto prima che risuoni al di fuori, ma anche prima che il pensiero si occupi delle immagini e dei suoni (questo verbo, infatti, non appartiene ad alcuna lingua. e a nessuna di quelle che chiamano “lingue delle genti”, tra le quali c’è anche la nostra lingua latina); chiunque, dico, può comprendere che cosa sia il verbo, può già vedere per mezzo di questo specchio ed in questo enigma una certa somiglianza di quel Verbo di cui è detto: "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio". Il Verbo è Gesù Cristo. Infatti, quando diciamo il vero, ciò che sappiamo è necessario che nasca dalla scienza che conserviamo nella nostra memoria un verbo che sia pienamente della stessa specie della scienza da cui è nato. Il pensiero che si è formato a partire da ciò che già sappiamo è il verbo che pronunciamo nel cuore: verbo che non è né greco né latino, che non appartiene ad alcun’altra lingua; ma quando c’è bisogno di portarlo a conoscenza di coloro ai quali parliamo, si fa ricorso a qualche segno che lo esprima. Ecco, la semiotica, il segno: il segno è garantito da una parola interiore. Quello che dico, le cose che dico, possono anche non essere, ma, se si riferiscono a qualcosa che sento dentro, allora sono vere. Perché sono vere? Perché le sento dentro: non le posso vedere ma le percepisco, così come percepisco i miei pensieri, non li vedo, eppure so che sto pensando. Per Agostino è la stessa cosa. Tale segno è nella maggior parte dei casi un suono, talvolta un gesto; il primo si dirige agli orecchi, il secondo agli occhi… Perché anche il fare un gesto che altro è se non parlare in qualche modo, visibilmente… È preciso su questo: anche i gesti sono parole. 11.20. Parla dell’immagine di Dio. …immagine non nata da Dio, ma creata da Dio, verbo che non è nemmeno proferito in un suono né pensato alla maniera di un suono - ché allora dovrebbero appartenere a qualche lingua -, ma che è anteriore a tutti i segni in cui viene espresso ed è generato dalla scienza immanente all’anima, quando questa stessa scienza si esprime in una parola interiore tale qual è. Infatti, la visione del pensiero è in tutto simile alla visione della scienza. Ma quando ciò che è nel verbo riproduce esattamente ciò che è nella conoscenza implicita, è allora che c’è un verbo vero e c’è la verità quale l’uomo la desidera; che, cioè, quanto c’è nella conoscenza ci sia anche nel verbo… Cioè, la parola deve dire come stanno le cose. Si riconosce qui quel "sì, sì, no, no"… Cioè, l’affermare e il negare. Così la somiglianza dell’immagine creata si approssima, per quanto è possibile, alla somiglianza dell’immagine generata, quella per la quale si afferma che Dio Figlio è simile sostanzialmente in tutto al Padre. Perché alla fine è questo che interessa ad Agostino: fare intendere come è possibile farsi un’immagine di Dio, che in teoria sarebbe impossibile perché non ne sappiamo nulla, ma è possibile farlo per somiglianza, per analogia. Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, così l’uomo non fa nulla che prima non dica nel suo cuore. Per questo è scritto il verbo è l’inizio di ogni opera. La parola è l’inizio, ma anche la condizione, potremmo dire, di ogni opera. Ma anche qui, quando il verbo è vero, allora è l’inizio di un’opera buona. Ora il verbo è vero quando è generato dalla scienza del bene operare, cosicché anche là sia rispettato il sì, sì, no, no. Cioè, vero o falso. Il nostro verbo può esistere senza che si traduca in azione, ma non vi può essere azione se non la precede il verbo. Come il Verbo di Dio ha potuto esistere senza che esistesse alcuna creatura, ma nessuna creatura potrebbe esistere se non per opera del Verbo per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. Cioè, è la parola, insiste a dire, che crea, è la parola che fa le cose. 12. 21. In primo luogo, questa stessa scienza (la scienza umana) che informa, secondo verità, il nostro pensiero, quando diciamo ciò che sappiamo, di che genere è e in quale misura un uomo, per quanto competente e dotto egli sia, può possederla? Si pone delle questioni interessanti: possiamo conoscere? È possibile la conoscenza? Questa è la domanda che si sta facendo. Prescindiamo da ciò che nell’anima è apporto dei sensi; in questo campo la realtà è così spesso diversa dall’apparenza che l’insensato, avendo l’anima troppo ingombra di queste false apparenze, si ritiene pieno di buon senso; per questo la filosofia dell’Accademia ha preso vigore fino al punto che, dubitando di tutto, è caduta in una follia più miserevole. Prescindendo dunque da ciò che si trova nell’anime come apporto dei sensi, c’è, fra quelle che ci restano, una conoscenza ugualmente certa di quella che abbiamo di vivere? Lui prende questa idea: noi siamo certi di vivere. Dice: di che cosa siamo certi? Per Cartesio è l’avere il dubbio. Qui, invece, l’unica certezza è quella di vivere: posso mettere in dubbio che sto vivendo? Chiaramente lui è un retore, quindi avrebbe potuto, forse dovuto, opporre subito un’obiezione: se stiamo vivendo, come facciamo a saperlo? In questo caso non abbiamo timore alcuno che ci accada di essere ingannati da qualche falsa apparenza… Non è così automatico. …perché è certo che anche colui che si inganna vive. Qui non accade come nel caso della vista degli oggetti esterni… in cui la realtà è differente da ciò che appare, perché questo non si vede con l’occhio della carne. È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere… Ad Agostino preme questa cosa: mostrare che ciò che sentiamo dentro è vero. …cosicché un filosofo dell’Accademia non può neppure obiettare “Forse tu dormi senza saperlo e quello che tu vedi, lo vedi in sogno”. Chi non sa infatti che le cose viste in sogno sono assai simili a quelle in stato di veglia? Ma colui che, con scienza certa, sa di vivere, non dice "so di essere sveglio", ma "so di vivere". Quindi, a questo punto, secondo Agostino, c’è un sapere incontrovertibile: io so una cosa che è assolutamente vera. Che, poi, non è assolutamente vera perché, appunto, come faccio a sapere di vivere? Cosa vuole dire vivere? Le obiezioni che si potrebbero muovere a questa certezza assoluta, so di vivere, sono molte: so che cosa esattamente? Però, lui non si pone queste questioni, lui pone il vivere come una cosa assolutamente ineccepibile e inattaccabile. 12. 22. Dunque, tutte queste conoscenze che l’anima umana acquisisce da sé, e per mezzo dei sensi del corpo e per testimonianza degli altri, le tiene riposte nel tesoro della sua memoria; sono esse che generano un verbo vero, quando diciamo ciò che sappiamo, verbo che precede ogni parola che risuona e ogni pensiero della parola che risuona. Ciò che sappiamo. È importante questo, non solo per Agostino, ancora oggi, è importante la certezza del sapere: io so, io so che è così. È esattamente quello che dice Agostino, perché uno potrebbe dire “so che…”, ma come fai a saperlo? È una di quelle cose che si sentono, così come “so di vivere”, allo stesso modo. Capite che è un’argomentazione che può, in alcuni casi, essere anche efficace: so queste cose così come so di vivere, perché le sento, perché fanno parte di me. Allora, infatti, il verbo è perfettamente simile alla cosa conosciuta da cui nasce e di cui è immagine, perché dalla visione della scienza procede la visione del pensiero, che è un verbo non appartenente a nessuna lingua, verbo vero da una cosa vera, che non possiede niente di proprio ma riceve tutto da quella scienza da cui ha origine. Poco importa il momento in cui colui che dice ciò che sa lo ha appreso; a volte, appena lo apprende, lo dice; l’importante è che il verbo sia vero, cioè che abbia tratto la sua origine da cose conosciute. E la cosa conosciuta è questa: io vivo. Quindi, c’è una verità incontrovertibile.
Intervento: Forse intendi dire che c’è una verità incontrovertibile nel momento in cui uno dice "io so".
Eh sì, perché dicendo questo è come se emanasse qualcosa dal suo interno, da questa conoscenza che ha, conoscenza che è assoluta. Lui equipara le due cose, la conoscenza dell’interno e la conoscenza del sapere di vivere sono la stessa cosa. So che vivo e, quindi, posso sapere: questa è la cosa importante, perché prima l’aveva messa in discussione rispetto alle parole che sono immagini, che possono ingannare e, quindi, avrebbero potuto condurre all’ipotesi che non c’è possibile conoscenza. Invece, così dice che questa conoscenza è possibile, così com’è è possibile affermare che sto vivendo, affermazione che secondo lui è incontrovertibile.
Intervento: Mi è parso di capire che questa conoscenza deve essere predisposta per poter parlare, perché lui dice che praticamente queste cose vengono tenute come un tesoro nella memoria e da queste cose poi interviene il verbo, per cui si dicono le cose.
Sì, e torniamo alla precomprensione. La precomprensione chiaramente chiama in causa Dio: è la parola di Dio che muove tutto. In fondo, è sempre l’unica garanzia possibile. Il linguaggio non offre nessuna garanzia, l’unica garanzia che possiamo offrire è Dio, non ce ne sono altre. 13. 22. Infatti, Dio non poteva non conoscere le cose che un giorno avrebbe creato. Dunque, è perché le ha conosciute che le ha create… Questo è importante: le conosce e quindi le crea, le crea nel momento in cui le conosce, cioè le pone. Dunque, è perché le ha conosciute che le ha create, e non è perché le ha create che le ha conosciute. Non è che le creo e poi le conosco. No, le conosco, quindi le creo, cioè le penso, quindi le dico, dicendole esistono. E dopo averle create non le ha conosciute diversamente da come le conosceva prima di crearle… Cioè, è sempre il suo pensiero.