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17 febbraio 2016

 

Parmenide di M. Heidegger[1]

 

Concepita in termini essenziali, cioè pensata in base al fondamento essenziale dell’essere stesso, “la storia” è il mutamento dell’essenza della verità. (pag. 115)

 

La storia è fatta di questo, del modo in cui la verità cambia, del modo in cui viene pensata, del modo in cui veniva pensata dai Greci, del modo in cui veniva pensata nel Medioevo, del modo in cui veniva pensata nella modernità.

 

Essa è “soltanto” questo. Ma il “soltanto” non indica una limitazione, bensì la singolarità dell’essenza iniziale, dal cui fondamento scaturiscono come conseguenze essenziali gli altri tratti essenziali della storia. La storia “è” il mutamento dell’essenza della verità. L’ente che è storicamente trae il suo essere da questo mutamento.

Da lungo tempo si ritiene che laddove vi sono processi, movimento e decorsi, dove cioè qualcosa “succede” (passiert), là c’è storia, poiché si pensa che la storia (Geschichte) abbia a che fare con l’”accadere” (Geschehen), e che “accadere” significhi per l’appunto “succedere”. Ma Geschehen e Geschichte, accadere e storia, significano: destino (Geschick), destinazione (Schickung), assegnazione (Zuweisung). Parlando in tedesco genuino non dovremmo dire “die” Geschichte, “la” storia nel senso dell’”accadere”, bensì “das Geschichte”, “l’avvento storico” nel senso dell’assegnazione dell’essere. Ancora Lutero usa la parola genuinamente tedesca das Geschicht. Rimane da chiedersi che cosa sia per l’uomo l’essenzialmente destinabile e destinantesi. Se l’essenza dell’uomo si fonda sul fatto che egli è quell’ente a cui l’essere stesso si svela, allora la destinazione essenziale, l’essenza dell’”avvento storico”, è lo svelamento dell’essere. Se però lo svelamento è l’essenza della verità, e se, a seconda del mutamento di tale essenza, si muta anche l’assegnazione dell’essere, allora l’essenza “della storia” è il mutamento dell’essenza della verità. (pagg.115-116)

 

Solo a un’epoca che aveva già rinunciato a ogni possibilità di meditazione e di pensiero uno scrittore poteva offrire un’opera la cui realizzazione è parimenti frutto di uno splendido acume, un’enorme erudizione, un forte talento per la tipizzazione, una singolare presunzione nel giudizio, una rara superficialità di pensiero e una totale fragilità dei fondamenti. In presenza di una superficialità culturale e di una vacuità del pensiero sconcertanti, ci si trova quindi di fronte alla strana situazione in cui proprio coloro che si indignano per la preminenza del modo di pensare biologico nella metafisica di Nietzsche sono invece a loro agio nella prospettiva del tramonto tracciata dal quadro storico spengleriano, a sua volta fondata ovunque ed esclusivamente su una grossolana interpretazione biologica della storia. (pagg. 117-118)

Il “senso” è la verità in cui sempre riposa l’ente in quanto tale. Il “senso” della storia è però l’essenza della verità, … (pag. 118)

 

A questo punto possiamo tranquillamente dire che il senso è la verità. Dicendo che “il senso è la verità in cui sempre riposa l’ente in quanto tale, Heidegger ci fa riflettere intorno alla questione del senso e anche del significato. Ciò che comunemente si attribuisce al segno linguistico, il significante e il significato, si considera che il significato sia il senso di un significante. Dicendo che il senso è la verità apre una questione notevole perché intanto a questo punto il senso non è più qualcosa di indeterminato ma, per dirla in termini semiotici, non niente altro quella verità a cui il significante dicendosi allude, o meglio, la verità che mostra dicendosi. Ma la mostra in che modo? Svelando ciò che sta dicendo, vale a dire che dicendo qualche cosa questo qualcosa si disvela, ed è questa la verità del segno. Se volessimo leggere Heidegger tenendo conto di de Saussure il significante dicendosi svela qualche cosa, svelando mostra della verità, ma una verità nell’accezione greca non in quella romana o attuale. Non è altro che il mostrarsi di qualche cosa che dal velato si disvela, questo è quello che farebbe il significante dicendosi, il senso di un significante sarebbe questo, ciò che si disvela nel dirsi del significante, quindi nulla a che fare con la verità nell’accezione imperiale o di significato come un qualche cosa che viene attribuito. Sta qui la differenza sostanziale per de Saussure il significato è sì arbitrario ma è ciò che viene attribuito a un significante. Per Heidegger non è proprio così, almeno in questa lettura, il significato qui non è ciò che viene attribuito al significante ma ciò che il significante disvela nel dirsi, il che è diverso.

 

Con il mutamento dell’essenza della verità, che, partendo dall’λήθεια e passando per la veritas romana, giunge alla adæquatio, alla rectitudo e alla iustitia medioevali, e di qui alla certitudo dell’età moderna, cioè alla verità come certezza, validità e sicurezza, mutano nel contempo l’essenza e il genere della contrapposizione tra verità e non verità. È qui che si forma e si consolida l’ovvia opinione secondo cui l’unico opposto della verità è la falsità. Nel mutamento essenziale della verità che domina completamente i secoli dell’Occidente il colpo decisivo lo dà l’evento del mutamento repentino dell’essenza della non verità dallo ψεύδσς greco al falsum romano. Tale mutamento repentino è il presupposto della caratterizzazione moderna dell’essenza della falsità, la quale diviene error, cioè errore nel senso dell’uso scorretto della facoltà umana di assenso e di dissenso. (pag. 119)

 

Vedete come questi termini che si usano correntemente, vero, falso, ecc., non solo hanno una storia ma sono delle costruzioni, che sono state edificate nei secoli per uno scopo, che lui dice indirettamente, che è quello della volontà di potenza, vale a dire, sono funzionali alla volontà di potenza. Lo dice qua

 

Ma l’uso corretto della facoltà di giudizio si determina in considerazione di ciò che pone al sicuro l’autosicurezza (Selbstsicherheit)… (pag. 119)

 

L’autosicurezza, ciò che pone al sicuro. Ricordate Nietzsche: mettersi al sicuro attraverso un superpotenziamento.

 

Viceversa, la considerazione e l’intento rivolti all’assicurazione determinano a loro volta la direzione e la modalità dell’intendere, nonché la scelta di quanto viene rappresentato come ciò a cui vengono accordati l’assenso e il dissenso nel giudicare. (pag. 119)

 

In altri termini, sta dicendo che questo modo di costruire, quindi, di pensare la verità, è ciò che poi determina il modo di pensare, certo, ma quindi anche il modo di giudicare, di giudicare ciò che è vero, ciò che è giusto, ciò che è corretto e ciò che è sbagliato.

L’autosicurezza, un mettere al sicuro ciò che si ha già. Nietzsche diceva che la volontà di potenza non può fermarsi, quando ha messo al sicuro qualche cosa, questo qualchecosa deve autopotenziarsi per evitare di perdere la sicurezza.

 

L’essenza della veritas nella forma della certitudo si dispiega in direzione dell’assicurare la sussistenza della “vita”. La “sicurezza” della vita, vale a dire il suo costante “vantaggio” (Vor-teil), riposa secondo Nietzsche sulla correttezza, ossia sulla sicurezza essenziale della “volontà di potenza”. (pagg.119-120)

 

Sta dicendo in molto esplicito che questo modo di pensare la verità, questo passaggio dall’λήθεια fino alla veritas come certitudo, procede dalla volontà di potenza.

 

Intervento: sul superpotenziamento…

In termini semiotici, mettere al sicuro è affermare qualche cosa. Una volta che è affermato questo qualche cosa, come diceva già Derrida, questa affermazione che dice qualche cosa di fatto avviene lungo un differimento, un differire: la cosa che affermo è già differente, e quindi che cosa devo fare? Devo considerarla di nuovo. E, quindi questo superpotenziamento, questo modo di continuare ad affermare cose per poterle stabilire, non ha mai fine, per questo motivo il superpotenziamento è infinito.

 

Quest’ultima è la realtà, dunque l’essenza di ogni “reale” e non, per esempio, soltanto dell’uomo. (pag. 120)

 

Qualunque cosa, la “realtà” che conosciamo, è volontà di potenza. Quindi, la verità, la realtà, tutto ciò che deve costituire “la sicurezza della vita”, per usare le parole di Nietzsche, tutto questo è volontà di potenza.

 

Nel senso della tradizione occidentale della veritas in quanto iustitia, e senza esserne consapevole, Nietzsche chiama “giustizia” la correttezza essenziale della volontà di potenza, cioè al tempo stesso la sua assicurazione essenziale e la sua sicurezza. In una annotazione dell’anno 1885 egli scrive: “La giustizia, in quanto funzione di una potenza che guarda lontano intorno a sé, che vede al di là delle prospettive anguste del bene e del male, che ha dunque un orizzonte più ampio del vantaggio – essa intende conservare qualcosa che è di più di questa o quella persona” (“che è di più” significa qui “che vale di più”).

Da ciò risulta chiaro che la potenza per cui le prospettive tipo la differenza fra “bene e male” sono “anguste” si muove nell’orizzonte più ampio (e solo a essa confacente) che Nietzsche definisce l’orizzonte del “vantaggio”. (pag. 120)

 

Che cos’è che dà vantaggio? Vantaggio per che cosa, vantaggio di che? Che cosa mi avvantaggia? Qual è l’unica da cui traggo veramente vantaggio? La volontà di potenza, il superpotenziamento. È questa l’unica cosa che cerco perché è l’unico vantaggio che gli umani cercano veramente, non ce ne sono altri.

 

Solo l’avvantaggiarsi sugli altri assicura qui il vantaggio, che concede tutto all’autoassicurazione della potenza, giacché la potenza può venire assicurata solo accrescendo costantemente la potenza. Nietzsche non soltanto ne era pienamente consapevole, ma ha anche espressamente affermato che nell’ambito essenziale della volontà di potenza il semplice attestarsi su un grado di potenza raggiunto costituisce già una diminuzione del livello della potenza. (pag. 120)

 

Se si tiene conto che questa autoassicurazione non è niente altro che l’affermare qualche cosa, diventa tutto molto più chiaro. Ogni volta che si afferma qualche cosa occorre affermare altro per affermare quello di prima e poi affermare altro per affermare ciò è stato necessario affermare quello di prima, e così via all’infinito.

 

Nell’essenza dell’assicurazione è insito il costante autoriferimento a se stessa, che implica di per sé il necessario sopraelevarsi. In tale costante autoriferimento, l’autoassicurazione in quanto autocertezza deve essa stessa divenire assoluta. (pag. 120)

 

Questo è l’obiettivo dell’autocertezza, che non raggiungerà mai, ovviamente.

Qui c’è un richiamo interessante alla questione della verità, così come l’ha esplorata Heidegger nelle pagine precedenti. Lui richiama il prefisso –ver, che si ritrova anche in molti etimi, non solo tedeschi ma anche inglesi. Ho fatto una piccola ricerca. In inglese la verità è truth, questo termine sembra derivare da un altro termine, forse sassone, dree, da cui tree, albero, piantato lì, immobile, alto, questo sarebbe l’etimo di truth. Quindi, il sopraelevarsi, il guardare dall’alto, è la verità. La verità è guardare dall’alto chi sta in basso, chi è sottoposto.

 

Il lineamenti fondamentali dell’essenza metafisica della realtà in quanto verità, e di questa verità in quanto certezza assoluta, compaiono per la prima volta, preparati da Fichte, nella metafisica dello spirito assoluto di Hegel. È qui che la verità diventa l’autocertezza assoluta della ragione assoluta. Nella metafisica di Hegel e in quella di Nietzsche, vale a dire nel diciannovesimo secolo, si compie il mutamento della veritas in certitudo. Questo compimento dell’essenza romana della verità è il senso storico autentico e nascosto del diciannovesimo secolo. (pagg.120-121)

 

È ciò che è intervenuto nell’Ottocento però di cui non c’è traccia, nel senso che nessuno aveva colto ciò che realmente stava accadendo in questo mutamento della nozione di verità.

 

In effetti, nel corso delle nostre considerazioni è emerso che i Greci, accanto allo ψεύδσς, conoscono anche lo σφάλλειν, l’aggirare e raggirare. Sennonché questa modalità di dissimulazione, il cosiddetto “ingannare”, proprio in quanto tale già si fonda sulla dissimulazione e non è quindi un genere autonomo di opposizione essenziale alla svelatezza. Ciò vale anche in riferimento a una modalità di dissimulazione per i Greci ancora più comune, che essi chiamano άπάτη. Anche in questo caso traduciamo con “inganno”, ma, pensata in modo letterale e appropriato, tale parola dice, in tedesco ab-vom, πάτοσ, “via – dal πάτοσ”, cioè via dalla retta via (o dal sentiero). La parola corrente per “via” (Weg) è ή όδός, da cui deriva ή μέθοδος, cioè il forestierismo tedesco Methode, “metodo”. Per i Greci, però, ή μέθοδος non significa “metodo” nel senso di un procedimento con l’ausilio del quale l’uomo attua il suo assalto indagatore e inquisitorio nei confronti degli oggetti. Η μέθοδος è il “restare sulla via” (auf-dem-Weg-bleiben)… (pagg.121-122)

 

Dice che metodo per noi moderni ha questa accezione; se cercate in qualunque dizionario troverete quella definizione, che non sarà bella come quella di Heidegger, però indica quello, cioè il seguire una serie di procedure per ottenere un risultato, ma, dice, il μέθοδος greco significa “restare sulla via”, non cercare un modo per controllare tutto ma “restare sulla via”.

 

… e precisamente su quella via che non è pensata dall’uomo in quanto “metodo”, bensì viene indicata dall’ente e attraverso l’ente che si mostra, e in tal modo già è. In senso greco, ή μέθοδος non è il “procedimento” di un’indagine, è piuttosto questa stessa indagine intesa come “restare sulla via”.  (pag. 122)

 

C’è sempre in Heidegger questo invito a restare sulla via, a non cercare di controllare gli enti, metafisicamente, ma di lasciare che l’ente mostri l’essere, cioè quella apertura da cui procede. Lo dice in molti punti, direttamente o indirettamente, come l’ente mostri l’essere, che consente l’apparire dell’ente, attraverso il domandare. Questa è la via per Heidegger, lo dice spessissimo.

 

Per comprendere l’essenza del “metodo” concepito in modo greco dobbiamo invero considerare anzitutto che al concetto greco di via, όδός, appartengono sia l’”aprire una prospettiva” (das Ausblickhafte) sia l’offrire uno scorcio (das Durchblickbietende). (pag. 122)

 

Sono tutti modi in cui i Greci intendono questo, ma da dove trae tutto questo Heidegger? Sicuramente non dal dizionario etimologico, contro cui ce l’aveva a morte oltre che con quelli che si gingillano con l’etimologia, ma li prende dai più antichi pensatori, Omero, Esiodo, forse Tucidide, ma comunque dai primi che hanno incominciato a parlare di queste cose, a esporle, a raccontarle, anche a interrogarle.

 

´Α πάτη è la de-viazione e via traversa (Ab-und Seitenweg) che in tal modo ci pone di fronte un’altra prospettiva, insinuando così di essere ciò nondimeno essa stessa la via che conduce “dritto dritto” allo svelato. La de-viazione e via traversa fa venire incontro qualcosa che quel che appare sulla retta via invece non mostra. (pag. 122)

 

Sta dicendo che ά πάτη è questo modo di concepire le cose in modo tale per cui il prendere una via, che non è quella diritta che porta dal punto di partenza al punto di arrivo, ha la possibilità di mostrare ciò che invece la via diritta non consente di mostrare. Adesso vediamo perché.

 

Ma nella misura in cui anch’essa mostra qualcosa, la deviazione scambia questo suo mostrato con il propriamente da-mostrare della via diritta. Con tale scambio la de-viazione inganna come quello sviamento (Ab-weg) solo in virtù del quale nasce l’άπάτη, l’inganno; άπατηθήναι significa: venire condotti su una de-viazione e via traversa in modo che la cosa da esperire rimane occultata. Anche l’άπάτη è una modalità del velamento, e in particolare dell’occultamento che contraffà ciò che è velato. Ogni dissimulazione e occultamento è bensì un velamento, ma non ogni velare è un dissimulare nel senso dell’occultare e del contraffare.

Se pertanto la svelatezza dovesse venire riferita anche ad altre modalità del velamento, ne risulterebbe un dato essenziale che secondo il nostro modo di pensare corrente potremmo esprimere in questi termini: la falsità e l’occultamento, quindi la non verità così intesa, non sono affatto l’unico opposto della verità, ammesso ovviamente che si esperisca l’essenza della verità in quanto svelatezza, cioè, ora, come disvelamento. (pagg. 122-123)

 

Tutte queste cose di cui parla, in effetti non si oppongono alla disvelatezza, cosa che invece con la romanità è stata posta in termini precisi, come il fallere, il cadere, da cui falsum, che cancella, come se il falsum cancellasse il verum, come se la velatezza cancellasse la svelatezza, cosa che non è, come insiste a dire Heidegger.

 

Ma i Greci stessi conoscono altre modalità del velamento oltre all’occultamento (ψεύδσς)? Senza dubbio. Lo dimostra la loro condotta linguistica. Conosciamo le parole comuni κεύθω, κρύπτω, καλύπτω, che significano: celare (bergen), velare, coprire: Iliade, XXII, v. 118; Troia “cela” i ricchi tesori; Odissea, IX, v. 348; la nave di Ulisse “cela” vino prezioso; Odissea, VI, v.303: la casa e il cortile “celano” lo ξείνος che entra. Queste modalità del celare e del velare fanno parte degli avvenimenti quotidiani e non indicano alcun rango particolare dell’essenza del velamento. Già più essenziale è il fatto che in Odissea, III, v. 16 ci venga detto che la terra cela (birgt) i morti. In Iliade, XXIII, v.244, si parla di Αϊδι κεύθωμαι, cioè del venire celati nell’Ade. Qui sono la terra stessa e il mondo ctonio a riferirsi al celare e al velare. Emerge dunque il nesso essenziale tra la morte e il velamento. Per i Greci la morte, così come la nascita, non sono affatto un processo “biologico”. Nascita e morte ricevono la loro essenza dall’ambito del disvelamento e del velamento, un ambito da cui trae la sua essenza anche la terra. Essa è il “fra” (das Zwischen), si pone cioè “fra” il carattere velante del mondo ctonio e il carattere rado (licht), disvelante del mondo sovraterreno (della volta celeste, ούρανός). Per i Romani invece la terra è tellus, terra, cioè ciò che è asciutto, la terra distinta dal mare. Questa distinzione distingue ciò su cui sono possibili la coltivazione, l’insediamento e la costruzione da ciò cui tutto questo è impossibile. La terra diviene territorium, territorio di insediamento in quanto ambito di comando. Nella parola romana terra risuona l’accento imperiale, di cui le parole greche γαϊα e γ non recano traccia. (pagg. 123-124)

 

γαϊα e γ indicano la terra, γ da cui geografia, scrittura della terra. Qui c’è di nuovo un richiamo all’uso della parola romana per indicare la terra che indica il dominio, il controllo, il possesso, l’imperium.

 

Soltanto là dove l’essenza della parola si fonda sull’λήθεια, quindi presso i Greci; soltanto là dove la parola così fondata, in quanto saga eccellente, regge ogni poetare e pensare, quindi presso i Greci; soltanto là dove poetare e pensare fondano il riferimento iniziale a ciò che è velato, quindi presso i Greci – soltanto presso i Greci, dunque, v’è ciò che porta il nome greco di μθος, il “mito”. La frase: “C’è solo un mito, il μθος dei Greci” è quasi superflua, poiché dice qualcosa di fin troppo ovvio, come se si affermasse: “V’è solo un fuoco, quello infuocato”. Ma il “mito” non ha forse a che fare con gli dei? La “mitologia” non è forse una “dottrina degli dei”? Certamente. Ma noi domandiamo a nostra volta: che cosa significa qui “dei”? La parola intende “gli dei greci”. Non basta dire che, rispetto al Dio unico dei cristiani, v’è presso i Greci una forma di politeismo, costituita per la precisione da dei che sono meno “spirituali” e in genere di natura inferiore. Finché non tentiamo di pensare gli dei greci in modo greco, quindi in base all’essenza fondamentale dell’essere esperito in modo greco – cioè in base all’λήθεια  -, non abbiamo alcun diritto di dire anche una sola parola su tali dei, né a favore né contro di essi. (pagg. 124-125)

 

Questo è l’inizio di un discorso che sta per fare e che è interessante riguardante il δαιμόν.

 

“Notte”, “luce” e “terra” sono un μθος, e non già “immagini” che evocano il velamento e lo svelamento, ovvero “metafore” da cui ancora non riesce a emanciparsi un pensiero prefilosofico. Velamento e svelatezza sono piuttosto già da prima esperiti in modo talmente essenziale che il semplice alternarsi di notte e giorno basta di per sé a sollevare ciò che in ogni essere è in modo essenziale (das Wesende alles Wesens) alla parola che conserva: μθος. (pag. 125)

 

Per i Greci notte, giorno, sono μθος, un racconto. Non sono un fatto fisico, biologico, logico, è un racconto.

 

Presa in sé, la mera distinzione fra luminosità e oscurità, che solitamente attribuiamo al giorno e alla notte, non dice nulla; e dal momento che anche l’analoga distinzione tra il velare e lo svelare essenziali “non dice nulla”, essa non ha nemmeno il carattere di μθος. La distinzione tra luminoso e oscuro rimane “non mitica”, a meno che la “radura”(Lichtung) e il velamento non appaiano già prima in quanto essenza del luminoso e dell’oscuro, e a meno che, al tempo stesso, ciò che nella luce esce fuori e nell’oscurità si ritrae non appaia in modo che proprio l’uscire fuori alla luce e lo scomparire nell’oscurità costituiscano l’essenza in cui tutto quel che è presente e assente dispiega la propria essenza. Soltanto se prestiamo attenzione a ciò comprendiamo in che misura i pensatori iniziali pensano l’essere stesso partendo dalla svelatezza e dal velamento. Soltanto se possediamo tale misura possiamo soppesare le parole greche che parlano del velare e celare nei loro riferimenti essenziali alla terra, alla morte, alla luce e alla notte.

Purtroppo il bastione dell’essenza della verità dominante, cioè la veritas e la verità intese come correttezza e certezza, ci preclude l’accesso all’λήθεια iniziale. (pag. 125-126)

 

Anche quando parliamo di λήθεια, di svelamento, di fatto è come se pensassimo comunque alla veritas, non riusciamo più a pensare a come pensavano i Greci, per i quali appunto il giorno, la notte, tutte queste cose sono miti, sono racconti.

 

E ciò non significa solo che, coerentemente con la nostra formazione, nelle descrizioni storiografiche della grecità non siamo più in grado di comprendere e di apprezzare il “concetto di verità” greco antico, ma altresì qualcosa di essenzialmente diverso, un fatto serio e di per sé decisivo pe la nostra storia: cioè che la totalità dell’ente si è nel frattempo trasformata a tal punto che l’ente nel suo insieme, quindi anche l’uomo, non vengono più determinati dall’essenza dell’λήθεια. (pag. 126)

 

Non sono più qualcosa che il mito fa apparire ma sono certezze, certezze scientifiche, logiche, pratiche, storiche, tutto quello che volete.

 

Pertanto anche noi, non appena sentiamo parlare di velamento e di modalità del velare, pensiamo subito ed esclusivamente ad attività praticate dall’uomo, non esperiamo cioè il velamento-disvelamento come evento che capita all’ente e all’uomo. Ma se nella grecità l’essenza del velamento e della svelatezza è esperita in modo così essenziale come tratto fondamentale dell’essere in quanto tale, non deve forse anche il velamento stesso mostrare un’essenza più iniziale, che il velamento nella forma dello ψεύδσς, cioè dell’occultamento, non esaurisce affatto?

Nondimeno anche noi, entro certi limiti, possiamo considerare e comprendere modalità diverse del velamento. Anzi, dobbiamo addirittura tentare espressamente di farlo, se vogliamo continuare a essere in grado di imparare a presagire quell’unica modalità del velamento che nella grecità, oltre allo ψεύδσς, ha contribuito a determinare la verità di ogni ente, vale a dire la sua svelatezza e non-dissimulatezza (Unverhohlenheit).

Per noi velare significa abitualmente nascondere, cioè una modalità del “togliere via” (wegschaffen), dell’eliminare. Ciò che non ci è più a lato, ossia accanto (in greco: παρά), è “via” (weg) (in greco: άπό. Ciò che è “via” è scomparso, assente, in certo modo non è più; è annientato. In quanto eliminazione l’annientamento è una modalità del velamento.

Eppure c’è anche una modalità del velamento grazie alla quale il velato non è affatto eliminato e annientato, bensì rimane celato e salvato in ciò che esso è. Questo velare non ci fa perdere la cosa, come accade nel caso dell’occultare e del contraffare, del sottrarre e dell’eliminare. Questo velamento conserva. Esso si addice per esempio a ciò che noi, in un senso specifico, chiamiamo il raro (das Seltene). Di solito, vale a dire per la mera bramosia di calcolare e arraffare, il raro non è niente altro che ciò che è disponibile solo di tanto in tanto, e anche in tal caso solo per pochi. Tuttavia, ciò che è davvero raro è proprio ciò che è lì presente (vorhanden) sempre e per tutti, ma è essenzialmente presente (west) in un velamento che custodisce di volta in volta qualcosa di assolutamente decisivo e tiene in serbo elevate pretese nei confronti dell’uomo. (pagg. 126-127)

 

Qual è la pretesa nei confronti dell’uomo? Che l’uomo interroghi, che l’uomo domandi, che l’uomo non si fermi e chiudere la questione, non cessi di domandare sempre e comunque, cioè non dia nulla per scontato, come se ogni volta si trovasse di fronte a qualche cosa per la prima volta, che per l’appunto non sa che cos’è e quindi vuol sapere e quindi domanda, interroga. Una volta che si suppone di sapere questa domanda cessa. Il domandare autentico, il filosofare per Heidegger, è il porsi sempre e comunque, costantemente, di fronte a qualunque cosa, a qualunque ente, come se fosse la prima volta. Il che non è molto lontano da ciò che fa la psicoanalisi, tra l’altro.

 

Il modo adeguato di riferirsi al raro non è il dargli la caccia, bensì il “lasciare riposare” (das Ruhenlassen) come riconoscimento del velamento. (pag. 127)

 

Cioè, lasciarlo essere. Dargli la caccia, così come lo intende Heidegger, il volersi impadronire di qualcosa, non è il lasciare riposare qualche cosa – infatti lo mette tra virgolette – il lasciare che qualche cosa continui a domandare. Continuare a essere per Heidegger significa questo: continuare a domandare.

 

Nella vicinanza del velamento qui dominante si situa il velamento che contrassegna la segretezza (das Geheime).  Essa può, ma non necessariamente deve possedere il tratto fondamentale del mistero (Geheimnis), la cui essenza si è resa estranea all’uomo da quando egli “spiega” senza indugi il misterioso (das Geheimnisvolle) come l’inspiegabile. Il mistero diventa allora quel “residuo” che ancora si sottrae alla spiegazione; tuttavia, poiché la spiegazione tecnica e l’esplicabilità forniscono il criterio di ciò che deve valere come reale, il residuo inspiegabile che ancora rimane diventa ciò che è superfluo. Il misterioso non è dunque niente altro se non quel residuo che nell’ambito del procedimento esplicativo non si è ancora esaurito nel calcolo. (pag. 128)

 

Qui sta dicendo una cosa interessante. In tutto ciò che si spiega rimane sempre qualcosa di inesplicabile. Ora, questo è ciò che generalmente, il discorso occidentale, la scienza, ritiene il mistero: “la scienza non riesce a spiegare tutto” per cui ecco che rimane il mistero, e da qui la fede e tutte le altre sciocchezze. Ma ciò che sta dicendo non è questa banalità, sta dicendo che ciascuna volta che interviene qualche cosa questo qualche cosa, affermandosi e differendo, rinvia ad altro, che ancora non è presente ma che rende questa cosa che è presente incompleta, manca quel supplemento, di cui parlava Derrida, ma questo supplemento non supplisce di fatto, cioè supplisce qualche cosa che in realtà non c’è, perché questo elemento che io devo stabilire, mentre io lo tengo lì presente, è già un’altra cosa, è già differito. Quindi, come dice lui, questo qualche cosa in più che permane sempre e che impedisce di potere chiudere la questione nella certitudo per esempio, questo supplemento, per dirla alla Derrida, è la différance, cioè quella differenza che c’è tra ciò che è sempre presente e ciò che si ripresenta. È il fatto che ripresentandosi che qualcosa può essere presente, e soltanto in questo secondo momento.

Accade a volte di considerare che i pensatori, almeno quelli che pensano, si trovino molto spesso ad affrontare delle questioni che sono le stesse ma affrontate in modi differenti, con parole diverse, però ciò che li interroga è la stessa cosa, che poi Heidegger lo chiami l’essere, che per Derrida sia la différance, però è sempre un qualche cosa che comunque di per sé è nulla, perché l’essere, questa parola, lo dice anche Heidegger, di per sé è nulla, non dice niente, non fissa niente, eppure è quella che consente al discorso di proseguire. Quante volte, mentre parliamo, diciamo la parola “è”? Ininterrottamente. Potremmo parlare se non ci fosse questa parolina? No. Per cui ciò che è da pensare, di fatto, sempre lo stesso. Verrebbe da dire così, che è il modo di funzionamento del linguaggio, è questo che dà da pensare. Tutte queste considerazioni intorno all’essere, alla verità, non sono altro che considerazioni intorno al significato delle cose, l’essere come significato ultimo delle cose. Ma questo significato ultimo delle cose, cioè l’essere, è una parola vuota, per Derrida è una différance, una barra che non dice niente ma senza la quale non c’è segno. Per Heidegger è l’essere, che non dice niente di per sé ma se non ci fosse questo essere tutti gli enti si riferirebbero a niente, sarebbero come significanti senza significato, quindi sarebbero niente.

 

Nel caso in cui questo fare riferimento all’essenza della via ci avesse fatto scordare i versi del “poema didascalico” di Parmenide scelti all’inizio, sarà utile rammentare che la dea saluta il pensatore che sopraggiunge per una “via”, e al tempo stesso gli rivela come sia stato stabilito che egli debba percorrere una via eccezionale, la quale è έκτός πάτου, cioè in disparte, lungi dal sentiero battuto dagli uomini. Dal momento che lungo la via “aprente una prospettiva” percorsa dal pensatore si mostra qualcosa di straordinario, si ha qui un mostrarsi, cioè uno svelare in senso eminente.  Per questo anche in un frammento più ampio del “poema didascalico” si parla di σήματα, di “segni”. Fra l’essenza della dea λήθεια e le vie che conducono alla sua dimora, e che possono venire determinate a partire da essa, sussiste un nesso essenziale. La “via”, in quanto fornisce apparenze nell’aprire una prospettiva e uno scorcio, rientra nell’ambito dell’λήθεια, così come, viceversa, all’λήθεια e al suo dominio appartengono le vie. (pag. 133)

 

“Via”, dunque, è quella cosa che fornisce la possibilità dell’apertura, dell’apparire delle cose, questo è il metodo per i Greci. Vedete che è totalmente differente da ciò che si intende oggi per metodo, che è inteso per lo più in una accezione scientifica.

 



[1] M. Heidegger, Parmenide, Adelphi, 1999, Milano