16 luglio 2025
Agostino d’Ippona Il maestro e la parola
Iniziamo allora il De Magistro. Però, mettiamo un esergo con le parole di Origene, tratte dal Libro terzo dei Principi. Tutto il mondo si assoggetterà al Padre, non per violenza, né per necessità che costringa la soggezione, ma per la parola, la ragione, l’insegnamento, l’emulazione dei migliori, le buone norme e anche le minacce meritate e adatte. Ecco, questo consideratelo l’esergo perché adesso parleremo proprio di questo. Il libro si svolge come un dialogo tra Agostino e suo figlio Adeodato. Come inizia Agostino, cos’è la prima cosa che ci dice? Incomincia con una domanda: Secondo te che cosa vogliamo ottenere parlando? …è chiaro che parlando intendiamo insegnare… Questa è la prima cosa che dice Agostino, cioè, parliamo per insegnare. Ora, tenete conto di quanto diceva Paolo: insegnare l’Evangelo, insegnare e correggere, correggere l’ignoranza. Dunque, potremmo dire che si parla per correggere l’ignoranza? È questo l’unico motivo per cui parliamo? No, ce n’è un altro di cui parlerà Agostino a breve, ma questo aspetto qui direi che apre già a tutta la questione. Si parla allo scopo di insegnare ad altri perché l’altro non sa e, quindi, occorre correggere la sua ignoranza. Ora, insieme all’insegnare lui metteva anche imparare, ma, dice giustamente Agostino, noi quando preghiamo non è che stiamo insegnando a Dio, non abbiamo nulla da insegnare a lui; quindi, Dio non impara nulla da noi. A pag. 17. Non dubiti, credo, che qualunque sia il movimento del corpo con cui tenterà di mostrarmi la cosa… Faceva l’esempio di come si insegna a qualcuno che cosa vuole dire camminare, per cui mi metto lì e cammino. Agostino dice no, non basta questo, sennò uno può pensare che camminare sia esattamente quella cosa che faccio, per il tragitto che faccio, nel modo in cui lo faccio, mentre la cosa è più generale. Qui c’è naturalmente Platone, perché ciò che io vedo ha un significato che trascende ciò che vedo. Per sapere che cos’è un tavolo, o io conosco tutti i tavoli passati, presenti e futuri oppure conosco l’idea di tavolo, quella di cui parla Platone: è l’idea di tavolo, dice lui, che mi consente di riconoscere un certo aggeggio fatto in un certo modo come un tavolo. C’è qualche cosa che trascende, l’idea, appunto. …qualunque sia il movimento del corpo, con cui tenterà di mostrarmi la cosa che è significata da questa parola, non sarà la cosa stessa, ma un segno. Pertanto, anche lui, se non una parola con una parola, mi indicherà quantomeno un segno con un segno… Qui Agostino sta rilevando un problema, che poi risolverà a modo suo, che è questo: noi possiamo determinare qualcosa soltanto con altre determinazioni, soltanto con altri segni, possiamo parlare di un segno con altri segni, non c’è uscita da questo. Capite che è un problema perché questa cosa, se è riportata a Dio, diventa un grossissimo problema; cioè, per conoscere Dio dobbiamo conoscere qualche cos’altro che non è Dio e che mi consente di conoscere Dio, per cui Dio a questo punto dipende da questo qualche cos’altro. Insomma, succede una cosa assolutamente sgradevole. A pag. 19. Ammetto che non possiamo mostrare nulla senza un segno, se siamo interrogati mentre lo stiamo facendo: se non aggiungiamo nulla, chi ci domanda penserà che non glielo vogliamo mostrare e che senza dargli retta abbiamo continuato a fare quello che stavamo facendo. Soltanto attraverso i segni possiamo imparare, quindi, insegnare. A pag. 27. Definiamo ugualmente segni le insegne dei militari, che sono chiamate segni in senso proprio, con cui le parole non hanno nulla a che vedere. Sono sempre un segno, un rinvio. Tuttavia, se ti dicessi che come ogni cavallo è un animale ma non ogni animale è un cavallo, così ogni parola è un segno, ma non ogni segno è una parola, credo che non avresti più alcun dubbio. Qui si potrebbe obiettare, ovviamente, che per potere fare queste operazioni occorrerebbe prima avere definito “parola”, definito “segno” e avere trovato una definizione tale che sia irrelata, cioè, che non rinvii più a nient’altro, ma abbia un significato univoco. A pag. 29. Quando nominiamo le parole, intendiamo significare tutto ciò che è pronunciato mediante la voce articolata con un significato. Quindi ogni nome, e anche quando diciamo lo stesso “nome”, è una parola, ma non ogni parola è un nome, sebbene si dia un nome quando diciamo “parola”. Qui c’è una ambiguità continua: non ogni parola è un nome; sì, però, comunque questa parola, se la indico, gli do un nome, qualunque esso sia. Quindi, è un nome? Sì, no, non si sa. A pag. 31. Ti accorgi, credo, che tutto ciò che esce dalla bocca mediante la voce articolata e con un significato colpisce l’udito, per essere percepito, ed è trasmesso alla memoria, per poter essere conosciuto. Accadono dunque due fatti, quando proferiamo qualcosa mediante la voce articolata. E se da uno dei due prendessero nome le parole, dall’altro i nomi? Le parole, verba, da verberare (lat. colpire); i nomi invece da noscere, così da derivare il modo di essere denominati l’uno dall’udito, l’altro dall’anima. A pag. 33. Quindi è altrettanto chiaro che non c’è alcuna differenza se si dice “si chiama sì” o “si denomina sì ciò che era in lui”. Qui ce l’ha con il sì. E vedi anche già che cosa più voglio mostrare? E così tu non vedi che il nome è ciò con cui si denomina qualche cosa? E vedi quindi che est è un nome perché ciò che era in lui si denomina est. Quindi est è un verbo ma è anche un nome. Ma se ti chiedessi che parte il discorso è est, non credo che mi diresti che è un nome, quanto piuttosto un verbo, sebbene il ragionamento ci abbia insegnato che è anche un nome. Sta combattendo qui con la polisemia delle parole, e cioè con i molti. Poi, li ricondurrà forzatamente all’uno, però, tutto il libro è un tentativo di gestire i molti, che rampollano ovunque. A pag. 43. Si è anche dimostrato che in questo genere in cui segni si significano a vicenda, alcuni non hanno un valore equivalente, altri equivalente, altri proprio lo stesso. E infatti quel bisillabo, che risuona quando diciamo “segno”, significa assolutamente tutto ciò con cui è significato qualcosa. Il segno è tutto ciò con cui si significa qualcosa. Se invece diciamo “parola”, non è segno di tutti i segni, ma soltanto di quelli che sono proferiti mediante la voce articolata. Qui che cosa fa? Lui dà una sua definizione - non la dà propriamente, ma la fa intuire - cioè, la parola è tutto ciò che si pronuncia con l’articolazione della voce. Ma questa è una definizione sua, chi ha detto che la parola è questo? Quindi è chiaro che, sebbene la parola sia significata dal segno il segno della parola, queste due sillabe da quelle e da queste, vale tuttavia di più il segno della parola, perché queste due sillabe significano più cose rispetto a quelle altre. Invece hanno lo stesso valore la parola in senso generale e il nome in senso generale. Qui sta cercando di organizzare una sorta di gerarchia, ma non gli riesce bene perché una cosa rinvia immediatamente anche all’altra: posso parlare della parola senza parlare del segno? È difficile e così il segno senza la parola non esiste. È con queste cose che Agostino si è trovato a combattere e ha perso perché, infatti, il ricorso che farà poi a Dio è una sconfitta totale. A pag. 49. Per tralasciare altri motivi, se tu avessi preso la mia prima domanda soltanto nel senso del suono delle sillabe, non mi avresti risposto niente. Parla dell’uomo. Anche il termine uomo è bisillabico. Avresti potuto anche pensare che io non ti avessi chiesto nulla. Ho pronunciato tre parole e ho ripetuto quella in mezzo, dicendo: “Se l’uomo è uomo”. Tu hai preso la prima e l’ultima parola non come segni, ma come ciò che da esse è il significato, e questo è evidente per il fatto che hai ritenuto di dover rispondere alla domanda subito, tranquillo e sicuro. Ci sta dicendo: qual è il significato delle cose? È la doxa, è quella cosa che ciascuno ha imparato, è quella che viene in mente immediatamente quando uno dice una qualunque cosa; la prima cosa che gli viene in mente è quella che ha imparata dalla doxa. Poi, se incomincio a pensarci allora il discorso cambia, ma d’acchito, immediatamente, è con la doxa che si ha a che fare. A pag. 53. Perché, non appena risuonano queste parole, non posso non pensare che la conclusione si riferisca a ciò che è significato dalle due sillabe, secondo la regola, naturalmente validissima, per cui una volta uditi i segni, l’attenzione si porta alle cose che sono significate. Si porta immediatamente, quasi in una sorta di automatismo. E questo è il potere della doxa, che è quella che ci dice immediatamente che cosa significa qualcosa. Non ce lo dice il ragionamento, ce lo dice la doxa, è la doxa che dice immediatamente in che modo si usa quella parola. A pag. 55. Ma forse allo stesso modo anche tu e qualunque uomo in grado di valutare le cose, a un chiacchierone amante delle parole che dicesse “Insegno per parlare”, rispondereste: “Buon uomo, perché piuttosto non parli per insegnare?”. E se queste cose sono vere, come sai che lo sono, certo vedi quanto le parole siano da considerare inferiori a ciò per cui usiamo le parole, poiché lo stesso uso delle parole è già da preferire alle parole: le parole esistono perché ne usiamo e noi le usiamo appunto per insegnare. Quanto è migliore insegnare rispetto a parlare, tanto il linguaggio è migliore delle parole. È quindi molto migliore il contenuto dell’insegnamento rispetto alle parole. Qui incomincia a approcciare la questione più importante per lui. Si parla per insegnare? Sì, certo, supponiamo che sia così, ma insegnare che cosa? E poi devo insegnare cose vere, naturalmente, ma come so che sono vere? Come so che sono vere se ciascun segno rinvia necessariamente a un altro, in un continuo rinviare di segni? A pag. 57. Ma, come suppongo, comprendi che questa norma di tre sillabe, che risuona quando diciamo “vizio”, è migliore di ciò che significa, mentre la conoscenza del nome è di molto inferiore alla conoscenza dei vizi. La conoscenza della cosa è più importante della conoscenza della parola che la esprime, che la manifesta, che la mostra. E anche ammesso che tu consideri i quattro elementi, nome e cosa, conoscenza del nome e conoscenza della cosa, a buon diritto preferiamo il primo al secondo. Preferiamo la cosa al nome. Questo stesso nome, posto in un componimento poetico dove Persio dice: “Ma costui è istupidito dal vizio”, non solo non ha portato niente di vizioso al verso, ma gli ha dato anche una certa eleganza: eppure la cosa che è significata in questo nome, in chiunque si trovi, lo costringe a essere vizioso. Sembra quasi che stia cercando, un po’ sulla scorta di Porfirio, di cancellare quella sorta di trauma che devono essere state allora le Categorie di Aristotele, perché in fondo è come se chiedesse: vale di più la sostanza o le parole che la descrivono? Per potere porre questa domanda già occorre avere compiuta un’operazione che non è del tutto lecita: la separazione. La sostanza e ciò che ne dico non sono separate, sono esattamente la stessa cosa. Mentre qui no; anche in questo caso, finalmente, teologicamente, non possiamo ammettere che Dio non sia nient’altro che ciò che se ne dice. A pag. 59. Ti sembra che si possano mostrare senza un segno tutte le cose che possiamo eseguire subito dopo che ci è stata rivolta una domanda? Adeodato deve acconsentire: per mostrare qualche cosa ci vuole un segno. Quindi, per mostrare Dio ci vuole un segno. Da qui la teologia negativa: non posso indicarlo in nessun modo, se non come ciò che non è. E, come sappiamo, poi alla fine risulta che non è nemmeno lui. Ma questo è un problema teologico che vedremo più avanti. A pag. 61. Dunque, poco fa hai detto una cosa falsa, che quando si chiede che cos’è insegnare, si può insegnare la cosa senza segni... Perché Adeodato a un certo punto aveva detto che sì, posso anche senza segni, io la indico. Sarebbe questa la dimostrazione ostensiva, quella che mostra, fa vedere. …mentre vediamo che neanche questo si può fare senza un segno, poiché hai concesso che una cosa è produrre segni, un altro insegnare. Se sono diversi, come appare evidente, e se questo si mostra solo tramite quello, non si mostra affatto di per sé, come ti era sembrato. Cioè, si mostra sempre attraverso segni. Pertanto, non si è ancora trovato qualcosa che possa essere mostrato di per sé oltre al linguaggio, che, tra le altre cose, significa anche se stesso. Ma siccome anch’esso è un segno, non emerge proprio nulla che sembra poter essere insegnato senza segni. E qui c’è il problema grave, perché inizialmente ha detto che si parla per insegnare, quindi, si parla per segni, ma ha anche detto che questi segni rinviano l’uno all’altro. Agostino, in fondo, non arriva a nessuna conclusione, se non al fatto che ci mette dentro Dio come un Deus ex machina e risolve il problema. Ma quando è immerso nel linguaggio, si accorge che non c’è la soluzione. Se non può essere mostrato nulla senza segni, allora ci si pone un altro problema: che cosa mostro se non posso non mostrare nulla senza i segni? Allora mostro i segni. È questo che sto mostrando? Segni? Parrebbe. A pag. 63. Accolgo con piacere la tua esitazione, perché è indicativa di uno spirito niente affatto avventato, che è la migliore salvaguardia della serenità. È infatti molto difficile non turbarsi quando ciò che accettavamo con un’approvazione spontanea e immediata crolla a causa di dimostrazioni in senso contrario e ci viene quasi strappato in mano. Pertanto, come è giusto cedere davanti a ragioni ben vagliate e considerate, così è pericoloso prendere per conosciuto ciò che non si conosce. Tutto questo dopo aver appena detto che, di fatto, conosciamo soltanto attraverso segni e che questi segni rinviano l’uno all’altro. Dunque, che cosa si conosce? Che cos’è la conoscenza, a questo punto? C’è da temere appunto che se con frequenza viene demolito ciò di cui eravamo sicuri che fosse stabile e duraturo, possiamo incorrere in tanto odio o timore della ragione, da sembrarci che non si debba prestare fede neanche alla verità più evidente. Qui ce l’aveva con i sofisti, probabilmente, i quali insegnavano appunto questo, che non c’è da prestare fede a nulla, perché nulla può essere affermato in modo univoco, o, come dirà Aristotele, la verità epistemica è un’invenzione. A pag. 65. Ma se consideriamo la cosa più attentamente, forse non troverai niente che sia appreso tramite i suoi segni. Adesso dice il contrario. Quando mi è dato un segno, se mi trova che non so di cosa è segno, non mi può insegnare nulla. Se invece lo so, che cosa imparo dal segno? La parola non mi mostra che cosa significa, quando leggo: e le loro sarabare non erano state danneggiate. Infatti, se con questo nome sono definiti determinati copricapi, nell’udirlo ho forse appreso che cosa sia il capo e che cosa sia ciò che lo copre? Li avevo già conosciuti… È un omaggio a Platone, alla rimemorazione: ci sono le idee, le ricordo e, quindi, c’è l’idea della testa e tutto quanto. …e non ne ho avuto notizia quando sono stati nominati da altri, ma quando sono stati visti da me. Infatti, quando per la prima volta le due sillabe di quando diciamo “capo” hanno colpito il mio udito, non ho saputo che cosa significavano, tanto quanto la prima volta che udito ho letto “sarabare”. Ma siccome “capo” si dice spesso, io stando sempre e accorto quando veniva detto, ho scoperto che era il nome di una cosa che mi era già molto nota per averla vista. Prima di averlo scoperto, questa parola era per me solo un suono: ho invece appreso che era un segno quando ho trovato ciò di cui era segno… Cioè, come viene utilizzato. …cosa che, come ho detto, avevo appreso non dall’uso dei segni, ma dalla vista. E quindi si apprende più il segno tramite la cosa conosciuta che la cosa tramite il segno dato. Ora, al di là del fatto che anticipa in buona parte lo stesso Wittgenstein, in fondo cosa dice? Come sa certe cose? Le sa perché le ha imparate. Vi rileggo la frase perché è importante. ho invece appreso che era un segno quando ho trovato ciò di cui era segno, cosa che, come ho detto, avevo appreso non dall’uso dei segni, ma dalla vista. Sì, certo, ma la vista vede qualche cosa in quanto rinvia a qualche cos’altro, cioè, qualche cosa è un qualche cosa in quanto rinvia ad altro, sennò è nulla, e quindi crolla anche questa sua posizione. Qui ancora cerca di ribadire il concetto. A pag. 67. Piuttosto, come ho detto, impariamo il valore della parola, cioè il significato che si nasconde nel suono, tramite la cosa conosciuta che è significata, anziché la cosa tramite la significazione stessa. Come dire che io conosco la cosa perché la parola rinvia a una certa cosa: se io conosco la cosa, ecco che allora ne conosco anche il significato. Ma questa cosa, per essere una cosa, già deve significare qualche cosa, devo sapere che è qualcosa, cioè, è già un significato. Le parole ci invitano solo a cercare la cosa, non ce la mostrano in modo da poterla conoscere. Mi insegna qualcosa solo chi mi presenta davanti agli occhi, o a qualche altro senso del corpo, o anche alla mente, ciò che voglio conoscere. Qui continua a ribadire che è attraverso la cosa che si conosce, senza tenere conto che questa cosa io la conosco in quanto è un significato, cioè, mi rinvia a qualche cosa, a delle determinazioni che sono il suo significato. Senza determinazioni questa cosa è nulla, non esiste nemmeno. A pag.69. Del resto, confesso più di credere che non di sapere che tutto ciò che si legge in quella storia è avvenuto in quel tempo, così come è stato scritto, e non ignorarono questa differenza anche coloro ai quali crediamo. Dice infatti il Profeta: se non crederete, non capirete, cosa che non avrebbe certo detto se avesse pensato che non c’è nessuna differenza. Dunque, ciò che capisco lo credo anche, ma non tutto ciò che credo capisco. Inizia a parlare della fede. E non per questo non so che è utile credere anche molte cose che non so, e a questa utilità ascrivo anche la storia dei tre giovani: poiché non potrei sapere la maggior parte delle cose, so che con grande utilità si credono. Quindi, l’utilità della fede. Ora, per tutte le cose che conosciamo, non ci rivolgiamo a chi parla con voce che risuona da fuori, ma alla verità che interiormente presiede la stessa mente, forse invitati a farlo dalle parole. Cioè, le parole che utilizziamo sono quelle cose che ci rinviano alla parola interiore. Qui c’è tutto Platone, naturalmente: c’è la parola su nell’iperuranio e le parole che utilizziamo, che hanno un significato perché rinviano a quell’altra parola che sta lassù, che è la parola di Dio e che ciascuno ha dentro di sé. E colui ci si rivolge insegna, colui che è detto abitare nell’uomo interiore, Cristo, ossia l’immutabile potenza di Dio e l’eterna Sapienza, cui ogni anima razionale si rivolge, ma che si rivela a ciascuno solo per quanto possa contenere secondo la propria cattiva o buona volontà. E se talora si cade in errore, non avviene per difetto della verità cui ci si è volti, come non è un difetto della luce esteriore che gli occhi del corpo spesso cadano in errore e noi ammettiamo di rivolgerci a questa luce per quel che riguarda le cose visibili, affinché ce le mostri per quanto siamo in grado di vedere. Qui incomincia a porsi l’altra questione. Siamo partiti dalla domanda iniziale “perché si parla?” e ha detto che parliamo per insegnare, cioè, per correggere. A questo punto, anche tenendo conto delle cose che dice rispetto al segno, conosciamo i segni ma la cosa non la conosciamo se non attraverso la parola di Dio. A pag. 73. Dunque, pur dicendo cose vere, non insegno neanche a lui, che vede le cose vere. Non è ammaestrato dalle mie parole, ma dalle cose stesse che gli si manifestano perché Dio le rivela nell’interiorità: interrogato a riguardo, potrebbe anche rispondere. Non è ammaestrato delle mie parole, ma dalla parola interiore che c’è in lui; senza questa parola interiore di Dio tutte le cose non avrebbero nessuna garanzia, cioè, sarebbero un rinvio infinito. È Dio che mette il punto. Qui pone una questione, che è quella della definizione: per parlare abbiamo bisogno di definizioni. A pag. 77. Come se uno dicesse a noi che lo ascoltiamo che l’uomo è superato per valore di alcune bestie: noi immediatamente non riusciamo a sopportarlo e rifiutiamo con grande ardore un’opinione così falsa e pericolosa. Ma quello forse chiama valore le forze fisiche ed esprimendo con questo nome ciò che pensa non mente, non sbaglia per quel che riguarda le cose, non intesse parole imparate a memoria pensando ad altro, non pronuncia cose diverse rispetto a ciò che pensava per un lapsus della lingua. Soltanto chiama la cosa a cui pensa con un altro nome rispetta noi, e su questo saremmo subito d’accordo se potessimo scorgere il suo pensiero, che non è ancora riuscito a renderci manifesto dopo aver proferito quelle parole e spiegato la sua opinione. Dicono che a questo errore possono rimediare le definizioni: se in questo caso si definisse che cos’è il valore, apparirebbe chiaro, dicono, che la controversia non è intorno alla cosa, ma intorno alla parola. Posso concedere che sia così, ma quanti uomini capaci di definire bene si possono trovare? Già allora non era così facile, evidentemente. E per di più contro l’arte della definizione si sono fatte molte obiezioni, che non è opportuno trattare in questa sede, e poi in generale non le approvo. Quali sono le obiezioni alla definizione? Che non c’è una definizione ultima, perché non c’è il significato univoco, sarebbe quello a imporre la definizione - definire, cioè, tagliare fuori qualche cosa, ritagliare. A pag. 81. Qui è Adeodato che parla. Io invece ho imparato, dall’invito delle sue parole, che l’uomo con le parole è solo sollecitato a imparare e che è molto poco ciò che del pensiero di chi parla appare tramite il linguaggio… Questione poi ripresa dalla psicologia: io dico delle cose, ma c’è molto di più. È possibile, certo, non lo possiamo escludere. …se poi si dicano cose vere, lo insegna solo colui che, mentre parla esteriormente, ci ha ricordato che abita nell’interiorità. Le parole che sentiamo sono vere se l’altro trae queste parole dalla sua interiorità. Con il suo aiuto, lo amerò tanto più ardentemente quanto progredirò nell’imparare. Tutto questo ci pone una domanda, una domanda che sarebbe interessante porsi con una certa frequenza, e cioè: perché parlo? A che scopo? Provate a immaginare di porvi questa domanda ogni volta in cui vi trovate presi in una qualche fantasia, in qualche ricordo, in qualche conversazione, dove non è immediata la risposta. Io vado dal tabaccaio a comprare le sigarette e parlo per avere in cambio le sigarette. Ma in genere non avviene così, si parla per insegnare, cioè, si parla per ammaestrare l’altro, per sedurlo, quindi, per piegarlo. È questo che si fa ciascuna volta che si parla? E solo per questo che si sta parlando? È una questione che meriterebbe di essere presa in considerazione, dal momento che potrebbe - usiamo tutti i condizionali del caso - potrebbe essere la risposta a molte domande. Domandarsi “perché sto parlando?” significa anche che cosa voglio ottenere con le mie parole? La ragione sull’altro? Sì, certo. Un altro modo per intendere che, in effetti, così come appare, si parla solo per questo, e cioè per manifestare il proprio potere. Ma dirò di più. Anche l’agire, il fare delle persone - quando agiscono, fanno cose -, se anche questo agire, questo fare non fosse nient’altro che una messa in atto, una rappresentazione, una messa in scena, uno spettacolo allestito per mostrare che le cose sono esattamente così come dico io, e io mi comporto di conseguenza? E, allora, anche l’agire a questo punto sarebbe strettamente connesso con il motivo per cui sto parlando. Dicevo prima, la domanda che potremmo porci continuamente “perché parlo, perché sto parlando, anziché tacere?”. Ciò che ci sta mostrando qui Agostino, ma poi, naturalmente questa è soltanto una breve introduzione a ciò che affronteremo da mercoledì prossimo, e cioè il De Trinitate. Con il De Trinitate entriamo nel cuore della teologia trinitaria. Ma la teologia trinitaria ci dice un’altra cosa, che già qui Agostino dice, ce lo fa intuire fra le righe, e che sta a fianco di ciò che dicevo un attimo fa: cioè, si parla per rimediare al linguaggio. Il linguaggio, come sappiamo, è un problema perché ogni volta ci sono i molti. Per rimediare a questo problema ecco che si parla. Allora parlare è, come diceva giustamente anche Beierwaltes parlando di Agostino, si parla per ricondurre i molti all’Uno, perché l’Uno rappresenta – lo diceva bene Beierwaltes - rappresenta la quiete, la tranquillità, l’immobilità, rappresenta l’assoluto. Questo tornare all’Uno, questa Aufhebung, è il processo che costringe a parlare, perché parlando io pongo i molti immediatamente e, ponendo i molti, sono costretto, per così dire, a compiere questa operazione, e cioè ricondurre i molti all’Uno. E, allora, verrebbe quasi da pensare che gli umani, lungo tutta la loro esistenza facciano esattamente questo: parlano, perché è stato loro insegnato; dicendo delle cose intervengono i molti, cioè l’Uno si sparpaglia ovunque; dopodiché bisogna ricondurre queste cose frammentate all’Uno.
Intervento: Uno che peraltro deve essere sentito. Quindi, in un momento privo di parole.
Sì. Infatti, occorre, paradossalmente, compiere un’operazione per ricondurre la parola alla non parola, perché ricondurre all’Uno è ricondurre alla non parola, perché l’Uno è fuori del linguaggio, e questo già in Plotino. Comunque, provate a pensare a questo, poi naturalmente quando affronteremo il De Trinitate tutto apparirà più chiaro. Così come la Trinità è stata inventata come rimedio al problema del linguaggio, Agostino qua ci sta già suggerendo che si parla per rimediare al linguaggio, per rimediare ai “danni” del linguaggio, cioè alla proliferazione, all’irruzione dei molti. Per porre l’Uno dobbiamo parlare, parlando intervengono i molti, quindi l’Uno si dissolve; pertanto, dobbiamo ritornare all’Uno. È l’Aufhebung della dialettica hegeliana, né più né meno. Questo processo infinito che finisce, dice Hegel, quando si raggiunge lo Spirito assoluto, che è un po’ come dire che quando tutti gli astratti interverranno nel concreto allora … Ponendo la teologia trinitaria come rimedio al problema del linguaggio, stiamo dicendo questo: si parla, cioè, si costruisce una Trinità, si costruisce un discorso che muove da qualcosa che è ineffabile perché non si può dimostrare; poi, si passa attraverso il Figlio, che è il dire, la parola, e da cui si ricava la Sapienza. E, allora, ecco che abbiamo introdotto la teologia trinitaria, e cioè la Trinità è l’atto di parola, la teologia trinitaria è il rimedio all’atto di parola, quella cosa che riconduce o riduce il problema del linguaggio a Dio.