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16 aprile 2025

 

Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo

 

Siamo a pag. 198. Se si considera il punto di partenza delle rispettive filosofie, Hegel e Proclo sono certamente incompatibili. La differenza fra essere che si fonda nell’Uno al di là dell’essere e del pensiero da una parte, e soggetto che, inizialmente vuoto, si sviluppa a idea assoluta che sa se stessa dall’altra, è una differenza incolmabile. Il processo di Hegel è antitetico allo sviluppo o all’emanazione dell’Uno neoplatonico... Non c’è nessuna emanazione in Hegel. …in quanto quest’ultimo non si perfeziona, ma non si diminuisce nemmeno nell’atto del causare... Lo sappiamo, l’Uno non diminuisce né aumenta …soltanto il causato diminuisce di grado in grado quanto all’intensità con cui è essere e unità. Lo Spirito che ha origine dall’Uno è sempre soltanto spirito per così dire “reso finito da un punto di vista quantitativo”, diviso com’è nel Molteplice, non è mai però spirito assoluto, spirito, cioè, che nel finito o per mezzo del finito quale momento proprio richiude il cerchio con se stesso facendosi autocoscienza del soggetto. Questo è Hegel, non Plotino, naturalmente. La frase della Filosofia della religione di Hegel: “L’intera filosofia è lo studio delle determinazioni dell’unità” vale dunque soltanto da un punto di vista formale in egual misura per il neoplatonismo e per l’idealismo speculativo: il neoplatonismo determina l’Uno positivamente come il fondamento e l’origine già da sempre assoluti… Già da sempre assoluti, mentre in Hegel l’assoluto è un risultato. …negativamente come il niente di tutto ciò che è oltre a lui, unità non-pensante e sopra-essenze, in sé priva di relazione; l’idealismo speculativo invece prende l’inizialmente astratto e vuoto (l’in sé) e lo determina a compiuto e concreto, processo che ha come risultato l’idea assoluta, come l’unità, pensante a se stessa, di pensiero e oggetto. Questa è la differenza, molto ben spiegata da Beierwaltes, tra Proclo e Plotino e l’idealismo tedesco. L’Uno neoplatonico è dunque, in antitesi al soggetto assoluto di Hegel, a priori pienezza libera dal processo. /…/ Uno dei problemi fondamentali del neoplatonismo rimane invisibile a Hegel, nascosto com’è dalle premesse idealistiche… Abbiamo già visto prima che Beierwaltes nota che Hegel cerca di leggere il neoplatonismo attraverso il suo pensiero, attraverso cioè l’idealismo tedesco …e precisamente la dialettica di unità e molteplicità, il cui senso genuinamente neoplatonico presuppone un Uno privo di molteplicità, in sé libero dalla relazione. Questo soltanto è propriamente unità. L’unità in sé differenziata mediante la molteplicità o alterità è già una “caduta” rispetto all’unità originaria. Per Hegel invece proprio unità in sé differenziata... Differenza tra in sé e per sé. …l’unità mediata in se stessa per mezzo della negatività o nella negatività - l’identità concreta, cioè di fronte ad un’identità vuota e astratta -che costituisce l’unico concetto sensato di unità. Si è passati dall’idea dell’Uno come ipostasi all’idea dell’Uno come risultato di un processo. Questa idea di Hegel poi è stata ripresa da Marx, e cioè della storia come processo, il materialismo storico. Marx, non parla più di assoluto, ma si giunge all’unità, il dominio del proletariato, attraverso un processo, che è la lotta di classe; senza lotta di classe non si arriva mai a raggiungere questo obiettivo. Come dire che la dialettica hegeliana ha costituito il fondamento teorico della lotta di classe, a partire dal mito del servo e del padrone. È, in effetti, una specie di mito, come quello di Freud in Totem e tabù. Sono miti che si raccontano per cercare di spiegare il processo, ma per Marx invece è diventato il caposaldo del suo pensiero, cioè il servo deve eliminare il padrone e in questo processo di eliminazione del padrone, che è la lotta di classe, giungere al potere, cioè all’Uno, dove in questo caso l’Uno sarebbe il proletariato al potere. A pag. 202. Oltre alle osservazioni più generiche, per esempio, di Cousin o di Creuzer, noi abbiamo di più precise: Michelet, nella sua esposizione della logica hegeliana, rivendica per Proclo soltanto la stessa chiarezza di coscienza di Hegel, in quanto ha concepito il sistema della scienza - il pensiero che si interpreta mediante se stesso fino a costituire tutta la verità - come una “triade di ordini del mondo”… La triade, il tre. A partire dagli dei di Samotracia, che erano tre, questa terna, questa triade, questa trinità si è conservata, si è mantenuta. Ma perché questo tre, anziché un qualunque altro numero? A cosa serve? Bisogna intendere bene la questione perché tutto il lavoro trinitario del Medioevo ci induce a pensare alla trinità come al linguaggio, a una rappresentazione del linguaggio. Pensate bene: per Plotino Uno-Intelletto-Anima, per il cristianesimo Padre-Figlio-Spirito. Questo tre si mantiene poi in Hegel, tesi-antitesi-sintesi, fino a Peirce, poi anche in Lacan, se volete metterci anche lui dentro, reale-simbolico-immaginario. C’è sempre una tripartizione. Perché? Perché non bastano due, ma ci vuole il terzo? Perché, soprattutto in Hegel ma non solo, i due, tesi e antitesi, se lasciati da soli, si autodistruggono, si annientano; occorre il terzo, che li ordina in una successione e li rende aritmetizzabili, cioè, economizzabili, gestibili. La triade da cui si parte generalmente è quella di Platone: νούς, ψυχή, σῶμα, cioè, intelletto, ψυχή sarebbe l’anima, ma possiamo dire il vivente... Bella la definizione che dava Heidegger: ψυχή è il tizio che legge il giornale, che, quindi, non soltanto è un umano, ma ha una serie di abilità, sa leggere, sa pensare. E, poi, il σῶμα, il corpo. Questa è la prima triade di Platone. Pensate ancora al segno di de Saussure: significante, significato, referente. Il significante è l’immagine acustica, il suono della voce; il significato è ciò che vuol dire quella cosa, e poi c’è il referente, la cosa. Infatti, nell’esempio che fa nei suoi Corsi di linguistica generale, mette il significante e il significato, la parola albero, arbre in francese, e poi ci mette l’albero, che sarebbe il referente. Il fatto che ci sia l’alberello garantisce in fondo che il significante, cioè l’immagine acustica, e il significato, possano sussistere in una relazione gestita. Un qualche cosa che vuole dire qualche cos’altro, che va bene naturalmente, però, è come se ci fosse sempre il timore che, se si lasciano solo due elementi, questi due elementi si autoannullano. Che, in fondo, è esattamente quello che accade, in un certo senso. Per pensare l’Uno come lo penso? Pensando i molti, cioè, le sue determinazioni; per pensare i molti devo pensarli come un tutto, quindi, come Uno; quindi pensare i molti significa pensare uno. Ora, non è che queste due cose si annullino a vicenda, però, si pongono in modo tale da rendere impossibile la determinazione di ciascuno dei due, perché ciascuno dei due è l’altro, simultaneamente. Con l’introduzione del terzo il discorso cambia perché, come dicevamo, il terzo è quello che consente di ordinare i due, di gestirli, di farne un’economia, cioè una gestione, dimodoché, una volta gestiti, ordinati, questi due non costituiscano una minaccia per l’umanità, e la minaccia è quella di rendere impossibile la determinazione di alcunché, e cioè la possibilità di potere affermare con certezza e con verità una qualunque cosa. Questo è il motivo per cui compare il tre, che una volta comparso non si è mai più levato di torno. Tutta la trinità è in un certo qual modo un’analisi del linguaggio. Come diceva non mi ricordo chi: il cristianesimo è un platonismo per il popolo. Ma già nella teologia - lo vedremo tra poco con Giovanni Scoto Eriugena - si sapeva che c’è il Padre, che è l’Uno, da cui parte tutto quanto e che è ineffabile; poi, compare il verbo, cioè la parola, che fa essere le cose. Quindi la trinità è un modo, spesso antropomorfizzato, di pensare il linguaggio. Il figlio è la parola, è il verbo: in principio è la verità. Arriviamo dunque a Giovanni Scoto Eriugena. Siamo nel IX sec. d.C., quindi un secolo e mezzo, grosso modo, prima di Anselmo, quattro secoli dopo Agostino. A pag. 207. Possiamo chiamare “riscoperta” l’interesse scientifico destatosi nell’Occidente per l’Eriugena, in quanto il suo pensiero, rimasto a lungo lettera morta per la filosofia, viene ora, in seguito ai nuovi impulsi filosofici, fatto parlare, viene intensamente interrogato e discusso. Conformemente alla spinta filosofica che aveva promosso l’interesse, la discussione fu determinata - in senso positivo e negativo - da filosofemi idealisti; fu un tentativo, in parte rigorosamente condotto - di riferire la problematica filosofica e teologica dell’Eriugena al proprio livello di coscienza, o addirittura di legittimarla esclusivamente a partire da esso. A pag. 209. Con l’idea fondamentale dell’Eriugena: “veram esse philosophiam veram religionem, conversimque veram religionem esse veram philosophiam” (la filosofia è la vera religione e d’altra parte la vera religione è la vera filosofia) il pensiero idealistico poteva essere incondizionatamente d’accordo sia in senso formale che dal punto di vista del luogo da essa occupato nel sistema. Per l’Eriugena il problema di Dio non è isolatamente l’oggetto della religio o di una teologia senza contatti con la filosofia, ma è essenzialmente di competenza della filosofia. Con Eriugena c’è questo primo passaggio, che poi verrà promosso anche, per esempio, da Anselmo, cioè il pensiero, la ratio, la logica, diventa la via regia per intendere la religione. Vera religio è quindi possibile soltanto - anche nella dimensione cristiana -come comprensione scientificamente fondata, e questo vuol dire come comprensione filosofica del concetto di Dio; a sua volta la filosofia riceve però il suo senso a partire dal problema di Dio: il pensiero pensato nella tradizione aristotelica viene dunque rafforzato in senso cristiano. Sta dicendo che la religione può essere intesa solo dall’intelligenza, dalla ratio, dalla filosofia, quindi, ma la filosofia a sua volta muove dal problema di Dio, cioè dal problema dell’origine, dell’άρχή e dell’αἳτια, cioè, del principio e della causa. È Dio che muove il pensiero, la domanda intorno a Dio, cioè, il principio primo, ché in fondo era questo ciò su cui si interrogava anche Aristotele: la protofilosofia è la filosofia prima, quella che si interroga sui principi primi. Il sapere immediato… Badate bene cosa dice qui Beierwaltes. …il quale è identico alla fede…. Curiosa affermazione, il sapere immediato, cioè, l’intuizione: io so questa cosa perché la so, perché la sento. Ecco, questo è identico alla fede, cioè, è un atto di fede. …deve rilevarsi a sapere mediato con se stesso, così che alla fine di questo processo la fede sia annullata nel sapere e diventi con lui un’unità indissolubile. E qui c’è già in parte Hegel. Anche per Eriugena si tratta di un processo: in fondo, la fede riflette su se stessa, riflettendo su se stessa trova se stessa ma rafforzata. È in fondo quello che dirà Hegel nella dialettica, dell’in sé che si è estroflette sul per sé, torna sull’in sé e lo rinforza, lo corrobora, ecc. Se dunque meta della filosofia è concepire pensando l’Assoluto, dall’essenza dell’oggetto stesso risulta necessariamente l’unità dei due modi di comprenderlo: l’unità cioè di fede e sapere, di teologia e filosofia. La filosofia può dunque essere intesa come la rappresentazione dell’autoaffermazione di Dio… Vedete come Eriugena affronta questo percorso che, in effetti, è molto simile. Non a caso qui ne parla Beierwaltes a proposito di Hegel, naturalmente. …o come il divenire-se-stesso dell’idea che si concepisce come il vero e l’Assoluto stesso. Qui è Hegel. A pag. 211. “Se osserviamo da vicino allo spirito che si annuncia possentemente nella filosofia cristiana ovvero teologia speculativa del tempo presente, ci accorgiamo, penetrando più profondamente nell’essenza di questo spirito, che non è altri che lo spirito dell’Eriugena, nuovamente sorto a muovere il mondo”. Il suo merito, determinante per un’epoca, è dunque di aver condotto la speculazione cristiana una volta per tutte alla coscienza di se stessa. Se dunque la fede è già una conoscenza scientifica, il paradosso che la rivelazione cristiana si è costruito da se stessa è eliminato in entrambe le epoche del pensiero, la fede come scandalo della ragione è addomesticata dalla ragione stessa. Fino ad allora, grosso modo, il pensiero era stato quello agostiniano. Agostino era un retore più che un filosofo e sosteneva che la parola di Dio va sentita, un po’ come Plotino, va sentita e non pensata. Possiamo anche pensare, ma non è questo che ci dà la forza, che ci dà la fede, è soltanto il sentire la parola di Dio dentro di sé. Invece, Eriugena per primo ha ripreso tutta la questione dicendo che, sì, non ha torto Agostino, però la ragione ci consente di rafforzare la fede, di dare un supporto più potente alla fede; tenendo anche conto del fatto che in quel periodo le eresie pullulavano un po’ ovunque. Infatti, dice della fede come scandalo della ragione: la ragione non può ammettere la fede senza perché la fede non prevede l’argomentazione, lo stesso Uno di Plotino sarebbe uno scandalo per la ragione e, infatti, non lo si può concepire. A pag. 212. Contro un’interpretazione in questo senso, Staudenmaier è l’apologeta ostinato di un Eriugena teista. Per lui, che caratterizza criticamente il sistema hegeliano come panteismo logico… Cioè, ha messo la logica al posto di Dio. …la propria interpretazione equivale, nella sua intenzione, a una liberazione dell’Eriugena dal sospetto di eresia. Staudenmaier tenta questa liberazione soprattutto interpretando le affermazioni dell’Eriugena, che sarebbero valide soltanto per il creato, ma che sono tuttavia riferite a Dio con l’aiuto del concetto di “metafora divina”, che ne elimina la potenzialità eretica. Filone: se dice cose che vanno contro, io le interpreto e le trasformo in cose accoglibili. A pag. 214. Un passo dalle Lezioni di Stoccarda (Schelling) potrebbe addirittura sembrare la “traduzione” idealistica di uno dei principi dell’Eriugena: “Dio fa se stesso, e quanto è certo che Egli fa se stesso, altrettanto è certo che Egli non è già fin dall’inizio pronto e fatto, perché altrimenti non avrebbe bisogno di farsi”. Il Deus implicitus diventa deus explicitus… Dio implicito che già nelle cose diventa esplicito, cioè, che si manifesta. ...rappresentando su scritto nel creato e facendosi così se stesso, attraverso la mediazione del finito, nel processo della storia. Qui vedete come rientra il finito, perché Dio è infinito ma ha bisogno del finito per manifestarsi. Sono tutti problemi che erano molto più antichi di Eriugena, ma che sono comunque sempre presenti nel pensiero: il fatto che l’infinito abbia bisogno del finito per manifestarsi, cioè, si manifesta come è finito; come dire che Dio ha bisogno del creato per essere Dio: senza il mondo, senza il creato non c’è neanche Dio. A pag. 216. Il sistema dell’Eriugena è costruito secondo un disegno neoplatonico. Il movimento del tutto è conforme alla legge triadica μονή – πρόοδος - έπιστροφή L’unità, il cammino verso, il πρόοδος è un camminare, un andare verso qualche cosa e l’έπιστροφή, il ritorno, così per Hegel: in sé, per sé e ritorno. I singoli elementi di questa triade sono intesi come concrezioni dell’azione cosmologica di Dio e della storia della salvezza da lui istituita. La μονή (l’unità) è realizzata quale essere di Dio che concepisce se stesso già come relazione trinitaria… Cioè, Dio si concepisce - perché si fa da sé - già come relazione trinitaria. …la πρόοδος realizzata come rivolgersi della Parola verso il mondo al momento della creazione e nella incarnatio o inhumatio Verbi… È la parola, è questo verbo, il Figlio, che crea il mondo. …l’έπιστροφή si attua poi come redenzione. Per l’Eriugena la redenzione è il compito dell’inizio nella forma del ritorno (reditus, reversio) del mondo, alla sua situazione originaria, della restaurazione dell’integrità originaria. Redenzione è compimento, perfezione del mondo e dell’uomo… Vedete come qui c’è già tutto Hegel. …perché attraverso la redenzione Dio è “tutto in tutto”. Il modello filosofico di questo movimento teologico o storia della salvezza è nel ritorno del causato nella causa stessa… Del per sé nell’in sé, ovvero dei molti nell’uno; come nella sua origine, l’origine dei molti è l’uno. Capite immediatamente come affermare una cosa del genere significa porre i molti come qualche cosa che procede dall’uno, che non esistono di per sé ma sono qualche cosa che dall’uno si genera, e quindi questi molti possono essere gestiti, possono essere sistemati attraverso una successione; ma perché ci sia la successione occorre il tre. A pag. 218. Schelling dice genericamente: “La grande intenzione dell’universo e della sua storia non è altro che la riconciliazione completa e il ridissolversi nell’assolutezza”. Cioè, i molti si dissolvono nell’uno. Ciò significa in termini specificamente cristologici: l’azione di Cristo, il suo grande sacrificio, consiste nel fatto che egli annulla il suo stesso essere extradivino, “e fondano così la vera riconciliazione riconducendo tutto a Dio. Quindi, riconduce tutto a Dio, in ogni caso tutti i molti vanno ricondotti a Dio, all’assoluto, all’uno. È soltanto in quella volontà di annullamento del suo essere extradivino che Cristo si manifesta come Cristo mediante l’azione, che è l’azione della “riconciliazione eterna, cioè duratura”. In un contesto analogo dal punto di vista sistematico, Hegel intende il ritorno dell’ente “per sé” come l’atto della riconciliazione mediatrice: è proprio dell’essenza divina ricondurre alla sua verità l’estraneo, il particolare, ciò che si è staccato dall’idea. In questo Hegel è assolutamente religioso. Ci era sfuggito quando leggemmo la Fenomenologia dello spirito. Redenzione o riconciliazione è dunque, superamento dell’alienazione. L’alienazione è il farsi altro. Essa è compiuta attraverso la morte e la resurrezione di Cristo. Nella morte il divino raggiunge il punto supremo dell’“essere-fuori-di-sé, l’alienazione suprema. In essa è però già anche la svolta e l’inizio del ritorno. /…/ Il “negativo” dunque nella Passione sulla croce, il Golgotha dello spirito è il fondamento produttivo di una “conversione e trasformazione”. Dio ha assunto ciò che è a lui estraneo soltanto per ucciderlo. L’uno raccoglie i molti per ucciderli. La morte è sì il punto centrale della riconciliazione, ma è soltanto un momento di passaggio nell’estraniamento di Dio. Dal momento che il negativo deve necessariamente essere superato, la negazione del negativo, la morte di Dio è per così dire necessaria; dal rigore del Venerdì Santo speculativo può e deve resuscitare la totalità suprema in tutta la sua forza e dal suo fondamento più profondo, allo stesso tempo onnicomprensiva e nella più serena libertà della sua forma. Questo è ciò che deve accadere, deve, non può soltanto ma deve. A pag. 220. …sia il procedere da Dio che il ritornare in Dio non possono nemmeno considerarsi come due momenti distinti. Stando a questa posizione, Dio, in quanto creatore e in quanto incarnato, non sarebbe nemmeno uscito da sé stesso… Come fa a uscire da sé stesso? …e il ritorno sarebbe dunque senza risultato; i due movimenti sarebbero distinguibili soltanto per la coscienza, e con ciò distinti soltanto in senso soggettivo. Questa critica costituisce un pensiero più idealistico - il possesso puramente immanente nell’origine divina (“Assoluto”) quale totalità di Dio e mondo - di quanto non lo è, non lo permetta lo schema neoplatonico del sistema dell’Eriugena. L’Eriugena mantiene infatti la valenza ontologica di questo schema, il che significa che creazione e redenzione non possono essere ridotte a livello dochetico. Dochetico viene da docetismo, che era una delle tante eresie medievali che dicevano che Dio non poteva essere stato né torturato né ucciso, in quanto è un’entità divina e quindi quello che è stato torturato e ucciso non poteva essere lui, ma era un’apparenza, era un’immagine virtuale, un ologramma. Naturalmente, questa cosa è un’eresia tremendissima, perché Cristo a questo punto non si sarebbe affatto sacrificato. Oltre che per i problemi esposti, il punto di vista idealistico potrebbe risultare d’aiuto per il chiarimento del rapporto di reale e ideale (essere e pensiero) in Eriugena. /…/ …pensiero o ragione è sia fondamento che pone l’essere o la realtà nella sua totalità, che elemento portante del medesimo: “Intellectus enim omnium in Deo, essentia omnium est… nihil enim est aliud omnium essentia, nisi omnium in divina sapientia cognitio… Intellectus enim rerum veraciter ipsae res sunt… L’intelletto di tutte le cose è nell’essenza divina di tutte le cose... Infatti, l’essenza di tutte le cose non è altro che la conoscenza di tutte le cose nella sapienza divina... L’intelletto delle cose, in verità, è le cose stesse... La conoscenza di ciò che è, è ciò che è.…cognitio eorum, quae sunt, ea quae sunt est. Ciò che è, è ciò che è per via della conoscenza, in quanto le conosciamo le cose sono, le cose sono nella conoscenza. Questo passo è fondamentale perché a questo punto è il verbo, è la parola che fa esistere le cose. Poi, questa parola è la parola nell’intelletto divino, però hanno inteso che è la parola, che senza la parola non c’è niente. Il pensiero divino è identico all’ente, in quanto l’ente sono le sue proprie idee; nella conoscenza o per mezzo della conoscenza egli crea l’ente anche al di fuori della sua assolutezza, e proprio questo ente, in quanto è pensato da lui stesso, egli può conservarlo e ricondurlo a sé. Queste cose le possiamo vedere qui, nelle parole dell’Eriugena, anche se possediamo dell’Eriugena soltanto questo saggio, il Prologo di Giovanni. Dice Eriugena. Senti che paradosso divino, è ineffabile, che segreto inaccessibile, che profondità insondabile, che mistero incomprensibile. Attraverso il non fatto, tuttavia generato la totalità delle cose è stata fatta. Tuttavia, non generata è stata fatta, cioè, attraverso il non fatto, attraverso l’ineffabile. C’è questo ineffabile da cui tutto procede, cioè: dal nulla, tutto viene da nulla, è questo che ci sta dicendo, anche se tra i denti. Dice il profeta: hai fatto tutte le cose nella sapienza, e un altro luogo fa parlare il Padre in prima persona, il mio cuore ha proferito. E che cosa proferite il suo cuore? Lo chiarisce lui stesso. Voglio dire il verbo, che è buono. Pronuncio un verbo buono, genero un Figlio buono. Il cuore del Padre è la sua stessa sostanza da cui è stata generata la sostanza propria del Figlio. Le cose sono perché le dico, perché il verbo, cioè, il Figlio, è le cose stesse. Tre cose dobbiamo allora credere e comprendere con l’intelletto: il parlare del Padre, il verbo pronunciato, le cose che attraverso il verbo sono prodotte. Il Padre parla, il verbo è generato, tutte le cose sono prodotte. Questo è Eriugena, il Padre parla, il significante si dice, il verbo è generato, cioè, un significato è generato; le cose a questo punto esistono, sono fatte. E aggiunge: Senza di lui nulla è stato fatto, cioè nulla al di fuori di lui è stato fatto, poiché egli contiene al suo interno tutte le cose. Senza la sua parola non si genera niente, non c’è niente. Senza la parola non si genera nulla, non c’è nulla. E dice, infatti: Al di fuori di me voi non potete fare nulla. Il che significa voi che al di fuori di me non avete potuto per forza vostra essere fatti. Al di fuori di me che cosa potete fare? Cioè, voi siete fatti perché io ho parlato. Le cose - si può pensare anche si rivolga alle cose in generale - voi siete perché io vi ho dette, perché io ho parlato e parlando voi siete. Al di fuori di lui non resta assolutamente nulla che si possa pensare non sia fatto in lui, attraverso lui. Al di fuori della parola non c’è nulla di pensabile.