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15 aprile 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Siamo alla Sezione Terza, pag. 365, La misura.

Nella misura, per dirla con una espressione astratta, sono unite la qualità e la quantità. L’essere come tale è eguaglianza immediata della determinatezza con se stessa. Questa immediatezza della determinatezza si è tolta. La quantità è l’essere che è tornato in sé in modo da esser semplice eguaglianza con sé come indifferenza a fronte della determinazione. Ma questa indifferenza non è che l’esteriorità di aver la determinatezza non in se stesso, ma in altro. Il terzo è ora l’esteriorità che si riferisce a se stessa. Come riferimento a sé esso è in pari tempo esteriorità tolta, ed ha costì appunto la differenza da sé, la quale come esteriorità è il momento quantitativo, come ripresa in sé è il qualitativo. Hegel si sta ponendo una questione che riguarda, sì, la misura come rapporto tra qualità e quantità ma che, in effetti, si configura come un problema, di cui parlerà tra poco: la quantità varia, ma varia anche la qualità al variare della quantità oppure no? A pag. 369. La determinatezza o differenza è come indifferente; perciò è una differenza che non è una differenza; è tolta. Questa determinatezza viene tolta. Questa quantitatività, come ritorno in sé (in cui è come il qualitativo), costituisce l’essere in sé e per sé, che è l’essenza. Qui ha introdotto la questione dell’essenza, e cioè il ritorno del per sé sull’in sé volge questo in sé come essenza, che è dunque la simultaneità della quantità e della qualità. Questo problema della variazione della qualità a partire dalla variazione della quantità è un problema che Hegel incontra e che esemplifica in questo modo. A pag. 374. Che poi un mutamento, il quale appare come semplicemente quantitativo, si risolva anche in un mutamento qualitativo, a questa connessione attesero già gli antichi, i quali raffigurarono in esempi popolari le collisioni che sorgono per l’ignoranza di essa. Sotto i nomi del Calvo, del Mucchio son noti alcuni elenchi qui appartenenti, cioè, secondo la spiegazione di Aristotele, alcune guise, per cui si è costretti a dire il contrario di quello che si era affermato prima. Si domandava: Collo strappare un capello da una testa, oppure un crine dalla coda di un cavallo, si rende forse quella testa calva, oppure quella coda pelata? – o anche: Cessa forse un mucchio di essere un mucchio, se se ne leva un granello? – Che ciò non avvenga si può agevolmente concedere, perché cotesta sottrazione non porta se non una sola differenza, e precisamente una differenza quantitativa che è appunto del tutto insignificante. Così si toglie un solo capello o crine, un solo granello, ripetendo la cosa in modo che ogni volta, secondo ch’era stato concesso, se ne levi soltanto uno. Ma alla fine vien fuori il mutamento qualitativo, che cioè la testa è calva, la coda pelata, e il mucchio è sparito. C’è da considerare questo, e cioè che, in effetti, non si tratta affatto di un problema filosofico, neanche di un problema logico, men che mai di un problema metafisico, ma si tratta di un problema semantico. Se io intendo con calvo la totale assenza dalla testa di capelli, allora, finché rimarrà anche un solo capello sulla testa, quella testa non sarà calva; quando l’ultimo capello verrà tolto allora sarà calva. Lo stesso può dirsi del mucchio di granelli di sabbia: posso toglierne uno a uno, rimarrà sempre un mucchio finché non ne rimangono due e allora, togliendone uno, il muccio scompare, perché rimane un solo granello e un solo granello non è un mucchio, perché il mucchio, per definizione, è una pluralità e, quindi, se è un solo granello non è più un mucchio. In questo modo si può risolvere il problema, ed è, come dicevo, un problema semantico. Qui la questione ci rinvia a ciò che diceva Wittgenstein, quando affermava che non esistono problemi filosofici ma solo problemi linguistici. In questo caso sarebbe più appropriato dire problemi semantici, nel senso che dipende dalla definizione che io adotto per un certo termine ciò che ne seguirà. Non è differente da ciò che diceva anche Peirce ricordando che quando si vuole disquisire in termini teorici su qualche cosa, la prima operazione da fare è intendersi sui termini; se non ci si intende sui termini, si continuerà a procedere senza comprendere l’uno ciò che dirà l’altro. Quindi, dicevo, si tratta di un falso problema. A pag. 383. Riguardo alle determinazioni assolute della misura si può ben ricordare che la matematica della natura, se vuol essere degna del nome di scienza, dev’essere essenzialmente la scienza delle misure; scienza per la quale si è fatto moto dal lato empirico, ma dal lato propriamente scientifico, cioè filosofico, si è fatto ancora poco. Dai principi matematici della filosofia della natura, - come Newton chiamò la sua opera, - dovrebbero, quando avessero da adempiere al loro compito in un senso più profondo che della filosofia e della scienza non possedessero Newton e tutta la schiera baconiana, contenere ben altre cose, affin di portar luce in queste regioni ancora oscure, ma però degne della più alta considerazione. È un gran merito quello d’imparare a conoscere i numeri empirici della natura, p. es. le distanze dei pianeti tra loro; ma un merito infinitamente più grande è di far sparire i quanti empirici, elevandoli in una forma generale di determinazioni quantitative, cosicché diventino momenti di una legge o misura, - meriti immortali, che si acquistarono p. es. Galilei riguardo alla caduta, e Keplero riguardo al moto dei corpi celesti. Costoro provarono le leggi da loro trovate col mostrar che ad esse corrisponde la cerchia delle singolarità della percezione. Si deve però esigere una dimostrazione ancora più alta di queste leggi, nient’altro, cioè, se non che le loro determinazioni quantitative si conoscano dalle qualità o concetti determinati che vengon messi in relazione (come tempo e spazio). Di questa sorta di dimostrazione non si trova ancora alcuna traccia in quei principi matematici della filosofia della natura, come nemmeno nei lavori posteriori della medesima specie. Si notò di sopra, a proposito di quell’apparenza di dimostrazioni matematiche di rapporti naturali la quale si fonda sull’abuso dell’infinitamente piccolo, che il tentativo di condurre tali dimostrazioni in maniera propriamente matematica, cioè senza trarle né dall’empiria né dal concetto, è un’impresa assurda. Queste dimostrazioni presuppongono i loro teoremi, cioè appunto quelle leggi, dall’esperienza; ciò che fanno, consiste nel portarle ad espressioni astratte e a formule comode. Questa, e lo avevamo già visto, è la critica che Hegel rivolge alla scienza. Non è molto diversa da quella di Heidegger, quando dice che la scienza non pensa, cioè non pensa queste cose come concetti ma soltanto come operazioni da compiere, da svolgere, e quindi non interroga il problema, non si fa carico del problema, ma semplicemente trova delle scorciatoie per potere operare con questi elementi. A pag. 410. …la misura esclusiva, esterna a se stessa nel suo esser per sé, si respinge da se stessa, si pone sia come un altro rapporto soltanto quantitativo, sia anche come un tale altro rapporto che è in pari tempo un’altra misura;… È sempre il problema dell’intendere come il modificarsi della quantità possa, e in quali termini e in quali modi, modificare la qualità. …è determinata come unità in se stessa specificante, che produce in sé dei rapporti di misura. Questi rapporti son diversi dalla dianzi accennata specie delle affinità, dove un per sé stante si riferisce a dei per sé stanti d’altra qualità e ad una serie di tali per sé stanti; hanno luogo in un unico e medesimo substrato dentro i medesimi momenti della neutralità… … Si ha un rapporto di misura, una realtà per sé stante, che differisce qualitativamente dalle altre. Cotesto esser per sé, essendo in pari tempo essenzialmente un rapporto di quanti, è aperto alla esteriorità e al mutamento quantitativo; ha un’ampiezza dentro la quale resta indifferente contro questo mutamento e non cambia la sua qualità. Ma si presenta in questo mutamento del quantitativo un punto dove la qualità si muta, il quanto si mostra come specificante, cosicché il mutato rapporto quantitativo si è risoluto in una misura, e quindi in una nuova qualità, in un nuovo qualcosa. Il rapporto, che è subentrato in luogo del primo, è determinato da questo in parte secondo la medesimezza qualitativa dei momenti che stanno nel rapporto di affinità, in parte secondo la continuità quantitativa. Cioè: aumenta la quantità e varia la qualità; oppure, l’idea che possa rimanere identica la qualità variando la quantità. Ma in quanto la differenza cade in questo quantitativo, il nuovo qualcosa si riferisce indifferentemente al precedente; la differenza dei due qualcosa è la estrinseca differenza del quanto. Il qualcosa non è dunque sorto dal qualcosa precedente, ma immediatamente da se stesso, vale a dire dall’unità specificativa interna, non ancora entrata nell’esistere. – la nuova qualità o il nuovo qualcosa è soggetto allo stesso processo di mutamento, e così via all’infinito. Qui c’è una considerazione da fare, che ci riporta a una questione che già Severino aveva inteso, perché qui Hegel ci sta dicendo che non c’è divenire. Infatti, ci dice Il qualcosa non è dunque sorto dal qualcosa precedente, ma immediatamente da se stesso, quindi, non sorge dal precedente ma sorge da se stesso. Questo è da considerare attentamente perché in questo passo Hegel sembra negare il divenire, e cioè ci sta dicendo che non c’è propriamente il passaggio da un elemento a un altro: l’altro non sorge come emanazione dal precedente, ma ciascuno sorge da sé. La questione è molto interessante perché ci riporta alla questione del limite, alla teoria dei limiti a cui accennava nelle pagine precedenti. Quando io scrivo 2, e aggiungo una serie di decimali, quanti ne voglio, questo 2 non sarà mai il 3, è qualche cosa che deve essere il 3 ma, dovendolo essere, non lo è; c’è un salto – tra poco ne parlerà – tra un elemento e un altro, non c’è continuità. Questo salto è tale per cui non si passa dal 2 al 3 progressivamente, se non attraverso delle finzioni, così come accade nella teoria dei limiti. Se io scrivo  non faccio altro che prendere questa x come 1, cioè come ciò che il limite dovrebbe essere, ma che non è: deve essere, quindi, non è. Come dire che faccio del nulla, cioè di ciò che non è, un essere; il limite fa questo: trasforma in un essere il nulla. A pag. 411. In quanto lo svolgersi di una qualità è nella ininterrotta continuità della quantità, i rapporti approssimantesi ad un punto qualificante, considerati quantitativamente, differiscono solo per il più ed il meno. Da questo lato il mutamento avviene a poco a poco. Ma l’avvenire a poco a poco riguarda semplicemente il lato estrinseco del mutamento stesso, non il suo qualitativo;… Riguarda solo la quantità, non la qualità. …il rapporto quantitativo precedente, che è infinitamente vicino al susseguente, è pur tuttavia un altro esserci qualitativo. Cioè: il 2 non sarà mai il 3, non arriverà mai a essere il 3. Dal lato qualitativo, perciò, il procedere puramente quantitativo dell’a poco a poco, che non è in se stesso un limite, resta assolutamente interrotto; in quanto la nuova qualità che si affaccia, considerata sotto il suo rispetto puramente quantitativo, è, a fronte di quella che sparisce, una qualità diversa indeterminatamente, una qualità indifferente, il passaggio è un salto; le due qualità son poste come completamente estrinseche l’una all’altra. – Volentieri si cerca di rendersi comprensibile un mutamento per mezzo della gradualità del passaggio; ma la gradualità è invece appunto il mutamento semplicemente indifferente, l’opposto del qualitativo. Il mutamento, cioè, qualcosa che viene tolto e rimane solo il qualitativo. Nella gradualità è anzi tolto il nesso delle due realtà, - sia che vengano prese come stati, sia che vengano prese come cose sussistenti per sé; si pone che nessuna di esse sia il limite dell’altra, ma l’una sia anzi completamente estrinseca all’altra; ora con ciò viene appunto rimosso quello che occorre per poter comprendere, se pur si richiede a ciò così poco. Dunque questo salto. Salto per la quantità aumenta, ma aumentando la quantità, che succede? Succede che, certo, cambia la qualità, vale a dire che mutando il per sé questo per sé, tornando sull’in sé, costruisce, determina un in sé che non è più quello di prima, cioè, è un altro esserci, è un’altra cosa. Quindi, non c’è il passaggio graduale; ciascuna volta che si aumenta il quanto, questo produce un mutamento qualitativo tale per cui, tornando nell’in sé, questo nuovo in sé non è più quello di prima, è cambiato, è un altro quale. Ora, qual è la questione che pone Severino rispetto al divenire? Sappiamo che per Severino il divenire è la follia, cioè il pensare che qualcosa venga dal nulla e ritorni nel nulla. Per illustrare questo Severino, come abbiamo visto in passato, utilizza un racconto, una metafora, quella della legna che diventa cenere: si prende della legna e la si brucia, e si vede che man a mano la legna arde, diventa rossa, poi diventa grigia, e poi diventa cenere. Quindi, vediamo, almeno apparentemente, che la legna diventa cenere, però non cogliamo ciascuno di questi istanti; in ciascuno di questi punti qualche cosa è se stesso, non muta; interviene un altro punto a fianco, ma quel punto è quello che è, non muta. L’argomentazione che utilizza Severino per affermare che non esiste il divenire è che appunto la legna a un certo momento è diventata cenere, cioè, la legna non è più legna o, per dirla in termini più formali, a non è a, oppure, a è differente da a. Questo, come è noto, contravviene al principio di non contraddizione, e questo per Severino costituisce la follia. Ma si sarebbe potuto, come abbiamo fatto poc’anzi, utilizzare la questione del limite, e cioè il 2 virgola tutto quello che vogliamo (2, …) che non diventa mai 3. Il passaggio al 3 è un salto, un salto qualitativo che non è giustificato dalla quantità, perché noi possiamo aggiungere al 2 tanti decimali quanti ne vogliamo, ma questi non porteranno mai al 3: c’è un salto. Questo ci mostra, seguendo l’argomentazione di Severino, l’impossibilità che uno dei punti, che esistono tra la legna iniziale e la cenere finale, divenga quello successivo, cioè si trasformi nel successivo: non si trasforma, ciascun elemento rimane quello che è, così come il 2 non si trasformerà mai nel 3. A pag. 411, Nota. Il sistema naturale dei numeri mostra già una tal linea nodale di momenti qualitativi, che si manifestano nel progresso semplicemente estrinseco. Il progresso estrinseco, cioè, la successione dei numeri naturali. Esso è da una parte un andare innanzi o indietro puramente quantitativo, un continuo aggiungere o levare, per modo che ciascun numero sta verso il numero precedente e verso il seguente nello stesso rapporto aritmetico in cui stanno questi verso quell’altro numero che a sua volta li precede e li segue e così via. Ma i numeri che così sorgono hanno anche un rapporto specifico verso altri numeri precedenti o seguenti, consistente o nell’essere un multiplo di uno di essi sotto forma di numero intiero, oppure una potenza e radice. È chiaro che c’è un rapporto tra i numeri, ma non un passare dell’uno all’altro, questo non c’è. Questo Hegel lo aveva già notato in modo molto preciso quando parlava dei limiti, di un limite che non raggiunge mai ciò che deve essere, cioè l’essere non sarà mai il nulla. Nella teoria dei limiti, quella che si pratica nella matematica, invece si pone l’essere uguale al nulla, e questa per Severino è esattamente la follia, cioè il dire che l’essere non è l’essere. A pag. 413. Nella natura non vi è salto, si dice; e l’immaginazione ordinaria, ogni volta che debba intendere un nascere o un perire, crede, come si è accennato, di averlo inteso col rappresentarselo quale un sorgere o dileguarsi graduale. Invece di ciò si è mostrato che i mutamenti dell’essere, in generale, non sono soltanto il passare di una grandezza, in un’altra grandezza, ma sono un passaggio dal qualitativo al quantitativo e viceversa, un divenire altro che è un interrompersi dell’A poco a poco e un che di qualitativamente altro rispetto all’esistenza precedente. … La gradualità del nascere si basa sull’immaginarsi che ciò che nasce esista già sensibilmente o, in generale, realmente, e che solo a cagione della sua piccolezza non sia ancora percepibile; parimenti nella gradualità del perire si suppone che il non essere o l’altro che subentra in luogo di ciò che perisce esista pur esso, ma soltanto non sia ancora osservabile; - e propriamente s’intende costì l’esistere non già nel senso che l’altro sia contenuto in sé in quell’altro che si ha dinanzi, ma nel senso che esista addirittura come realtà, soltanto non essendo osservabile. Quindi, l’esistere non nel senso che l’altro sia contenuto in sé in quell’altro che si ha dinanzi, e cioè, come dicevamo già tempo fa, che sia già tutto qui, adesso, cioè, il linguaggio è già tutto presente, tutto qui. Con ciò si toglie via in generale il nascere e il perire; ossia l’in sé, l’interno, in cui qualcosa è prima del suo esistere, vien cambiato in una piccolezza d’esistere esteriore… Dice che non c’è un qualche cosa prima dell’esistere che costituirebbe il passaggio graduale dalla non esistenza all’esistenza. Si immagina che sia qualcosa di talmente piccolo che sfugge. È la questione del limite, di cui parlavamo prima. Al tentativo di rendere comprensibile un nascere o un perire per mezzo della gradualità del mutamento si accompagna la stucchevolezza propria della tautologia. Cotesto tentativo possiede già bell’e pronto in precedenza ciò che nasce o perisce, e riduce il mutamento al semplice cangiamento di una differenza estrinseca, col che, nel fatto, non è altro che una tautologia. Come dire che questa cosa c’è, bisogna soltanto coglierla, ma non muta perché è già lì presente nella cosa, non tanto perché presente nel tutto ma perché c’era prima, ed è ciò che ha consentito il passaggio graduale dal non essere all’essere. Nel linguaggio, inteso come l’intero, come il tutto, non c’è un passaggio progressivo dal non essere all’essere, perché l’essere è qui, il linguaggio è qui, non c’è un qualche che sia prima del linguaggio. È, in effetti, questa la questione, e cioè immaginare che esista un qualche cosa prima del linguaggio, che poi consente il passaggio al linguaggio; ma sappiamo che, per consentire questo passaggio, occorre già il linguaggio; quindi, il linguaggio deve essere già lì, presente. A pag. 417. Il mutamento non è che il cambiamento di uno stato, e quello che passa è posto come tale che nel suo passare resta lo stesso. Il mutamento è che il cambiamento di uno stato. È esattamente ciò che dice Severino, e cioè una serie di punti che si susseguono e che ciascuno dei quali è un elemento che è essente per se stesso. Ciascuno di questi elementi è il tutto, è l’intero. Quindi, non manca di qualche cosa che dovrebbe aggiungersi o dovrebbe togliersi, perché è già l’intero, è già tutto presente. Questo ci dice già da subito che in Hegel non c’è il divenire così come è inteso per lo più, e cioè come un uscire di qualche cosa dal nulla per tornare nel nulla. il divenire in Hegel è quel movimento per cui dall’in sé si passa al per sé, dal per sé torna all’in sé, ma nel momento in cui torna all’in sé questo in sé è un’altra cosa. Vedete che, quindi, non ha nulla a che fare con l’uscita dal nulla per tornare nel nulla, ma con il movimento dialettico, che non è altro che il movimento stesso del linguaggio: il dire, dicendosi, dice qualche cosa che è altro da ciò che vuole dire, ma questo altro che si trova a dire, tornando su ciò che si dice, fa diventare ciò che si dice altro rispetto a ciò che volevo dire. È un movimento ininterrotto dove c’è sempre e comunque, certamente, uno spostamento, ma soprattutto un riflettere di ciò che si dice su di sé. È quella cosa che poi Hegel chiamava autocoscienza, e cioè un riflettere tale per cui so che sto dicendo, quindi so che mi sto trovando in una struttura, in un intero che è il linguaggio, e che questo linguaggio mi porta ad affermare cose che mentre si affermano dileguano; dileguano nel loro contrario, nella loro negazione, e questa negazione, come dice Hegel, viene tolta, non può rimanere. Come dice Severino, il non essere deve essere presente, ma in quanto tolto, non posso mantenerlo a fianco dell’essere perché in questo caso l’essere sarebbe anche non essere. Dunque, man mano che affermo, ciò che affermo dilegua, e dilegua in quanto il mio affermare si mostra un’altra cosa, qualitativamente differente da ciò che volevo affermare, cioè è un’altra cosa, letteralmente. Non è che qualche cosa nasce dal nulla e torna nel nulla, direi a questo punto che Hegel negherebbe una cosa del genere, anzi, l’ha fatto in modo esplicito: le cose non nascono né periscono, ma sono sempre presenti. È come dire che ciascuna cosa è già qui; tutto ciò che è stato detto, pensato negli ultimi millenni era già presente, e tutto ciò che avverrà fra migliaia e migliaia di anni è già qui, adesso che ne parliamo, e non può essere altrimenti, ché in caso contrario dovremmo pensare che c’è qualcosa fuori dal linguaggio, cioè qualcosa che deve ancora divenire. Ma non è certo questo che intende Hegel, da quanto dice. In altri termini ancora, Hegel sembra suggerire che siamo sempre nell’atto, e l’atto non è nient’altro che questo porre e dileguare continuo; un porre e un dileguare che è il funzionamento stesso del linguaggio. Qui viene da considerare, ed è per questo che ho citato Severino, il modo in cui Severino articola la sua negazione del divenire ponendo questa negazione come la negazione del principio di non contraddizione. Severino conosceva perfettamente Hegel, ma non è chiaro perché qui non abbia seguito la sua lezione, che appare più pulita, più limpida, e cioè non si tratta di porre il principio di non contraddizione come ciò che governa il tutto. Hegel ovviamente non nega il principio di non contraddizione, non lo nega da nessuna parte, ma lo pone altrimenti, e cioè lo pone come quell’elemento che deve essere tolto e quindi integrato nell’in sé, per dirla con i suoi termini. Come dire che la contraddizione, ciò che contraddice, è il per sé in quanto essere per altro, ma questo essere per altro viene tolto e integrato nell’in sé. In fondo, è ciò che diceva anche Severino, senza però seguire la questione in modo così articolato. Severino dice che, sì, il non essere deve essere tolto… ma è questa la questione del principio di non contraddizione: non è che non c’è, c’è ovviamente, ed è la negazione di ciò che si pone, è il dileguare di ciò che affermo, ma il dileguare di ciò che affermo non è lo scomparire nel nulla, è la condizione per potere affermare quello che sto affermando.