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14-11-2012

 

C’è una certa sorpresa quando chi ascolta le cose che vado dicendo dice di non essere d’accordo, non sorpresa nel senso che non si verifichi mai, perché si verifica con assoluta regolarità, ma perché le cose che vado dicendo non dovrebbero condurre né a dissentire né a consentire. Ciò che vado dicendo illustra molto semplicemente il funzionamento di quella cosa che consente agli umani di parlare e, cosa tutt’altro che secondaria, di sapere che stanno parlando. Se io affermassi che la negazione non è un’affermazione, essere d’accordo su una cosa del genere è assolutamente irrilevante, essere in disaccordo comporta invece l’autocontraddizione immediata perché allora se non è d’accordo allora è d’accordo, visto che l’affermazione è, a questo punto, la negazione. La stessa cosa se io dicessi: se A allora B e se B allora C, allora se A allora C, anche questo non comporta la necessità di un accordo, anche in questo caso è assolutamente irrilevante, e se qualcuno fosse in disaccordo su una cosa del genere può avere l’occasione di accorgersi che per potere affermare di essere in disaccordo ha già utilizzato questo modello logico: cioè sta negando ciò che di fatto sta utilizzando. C’è un’espressione latina che indica questo “in actu signato, negato” potremmo tradurre “negare di fare ciò che si sta facendo”. Dunque essere d’accordo o non essere d’accordo con ciò che vado dicendo tecnicamente non avrebbe nessun senso, perché si tratta appunto dell’illustrazione di qualche cosa che sta funzionando. Il problema sorge talvolta nel momento in cui si pone a fianco a questo un’altra questione, e cioè non tanto la questione della parole in sé, ma da dove vengono le parole, perché ciò che stiamo facendo ultimamente ha posto una domanda ben precisa che non riguarda da dove viene il linguaggio ma da dove vengono le parole. Domandarsi da dove viene il linguaggio è irrilevante primo perché non ci sono più molti testimoni che possano dirci come è accaduto che a un certo punto si sia strutturata quella cosa che chiamiamo linguaggio, ma poi, anche se potessimo venirne a sapere qualcosa non cambierebbe niente, perché ciò che a noi interessa è come sta funzionando il linguaggio adesso, non come si è costruito nel corso dei millenni, non è così interessante. Importa invece, ed è quello che abbiamo fatto, intendere da dove vengono le parole, come si strutturano, come funzionano e, a questo riguardo, si potrebbe anche dire che è un po’ come domandarsi com’è che si impara a parlare. Da dove vengono le parole? Un’altra formulazione potrebbe essere proprio questa “come si impara a parlare?”, come accade che a un certo punto una persona si trovi a parlare, cosa che prima non faceva. Qui c’è un altro aspetto della questione che mi costringe in un certo senso a dirvi che cos’è “la parola originaria”. Questa locuzione che è stata inventata da Verdiglione, verso la fine degli anni settanta, primi anni ottanta, e pone delle questioni teoriche di un certo interesse sul modo in cui lui “ha risolto” un problema teorico. La questione della parola originaria procede dagli studi che Verdiglione ha fatto intorno alla semiotica in prima istanza, di cui parlava negli anni settanta e cioè da Jakobson in particolare. Jakobson ha incominciato a porre il segno linguistico sui due assi cartesiani, ascisse e ordinate, dicendo che sull’asse dell’ascisse si pone l’asse sintagmatico, sull’asse delle ordinate l’asse paradigmatico. Verdiglione che cosa ha aggiunto, tenendo conto della lettura di Freud? Qui ovviamente c’è la condensazione, sull’asse paradigmatico, dall’altra parte c’è lo spostamento, sull’asse sintagmatico, sarebbero anche, per Frege, la “denotazione” e la “connotazione” per esempio dire che “il latte è bianco” è qualche cosa che è proprio del latte, non può non essere bianco, e quindi indica una proprietà necessaria di quel termine e cioè la sua denotazione; la connotazione invece dice tutto ciò che può accadere a questa cosa, il latte può essere bollito, può essere scremato, può essere macchiato, tutte queste cose non appartengono propriamente al latte e quindi comporta un’aggiunta, quindi uno spostamento quindi l’ascissa. Denotazione è tutto ciò che è proprio a una certa cosa. Verdiglione tenendo conto della teoria di Freud ovviamente, ha intesi questi due assi come la rimozione e la resistenza, la rimozione condensa, cioè la denotazione, la resistenza dissemina, sposta. Da qui potete anche intendere la sua affermazione cioè “un significante rimosso funziona come nome adiacente a un altro significante”. Il significante viene rimosso, cioè subisce una condensazione che poi diventerà un equivoco, ma questo equivoco lascia un resto, un resto che è un significante, e quindi uno spostamento, questo spostamento impedisce che questa condensazione sia totale, e definitiva. A questo punto si pone una questione che a Verdiglione è parsa molto interessante: questi due assi costituiscono l’apertura, questo è il modo in cui funziona la parola, il segno linguistico. I due assi come l’apertura, quindi nella parola c’è un’apertura che è determinata dall’intervento simultaneo di rimozione e resistenza, di condensazione e spostamento. A questo poi Verdiglione ha aggiunto un altro elemento, tratto da Galilei, e cioè la questione dell’infinito attuale. L’infinito potenziale è la successione, per esempio, dei numeri naturali: 1,2,3, 4, 5 … infinito, è potenziale perché se sono arrivato a 5 il 7 e l’8 ancora non ci sono, ma in potenza sì, e quindi avvengono lungo la linea che è quella delle ascisse. Questo è l’infinito potenziale. Poi c’è l’infinito attuale. L’infinto attuale è quello che si situa, non come successione numerica, ma all’interno di uno spazio fra due numeri, per esempio fra il 7 e l’8, in questo spazio quanti numeri ci sono? Infiniti ovviamente, però questo infinito è attuale, è in atto, è già qui, è già presente, non devo aspettare che si verifichi. Verdiglione ha utilizzato questa nozione di infinito attuale per indicare il modo in cui accade questa apertura tra i due assi, cioè si produce un infinito ma è attuale, è qui, adesso, cioè è qui adesso mentre parlo. Questa apertura riguarda l’infinito attuale e lì, riprendendo la teoria di Freud, cioè il fatto che parlando ci sono connessioni, mentre dico qualche cosa questo qualcosa è connesso con altre cose: un singolo elemento, un singolo significante diventa equivoco in quanto apre simultaneamente ad altre cose, per via della rimozione diventa un nome, questo nome non è nome di qualche cosa, come fosse Pierino, ma è un nome che diventa equivoco perché questo significante, questo termine che utilizzo, non viene esaurito da un significato, non ha un significato che l’esaurisce, questo significato rinvia a un altro significato e questo a un altro significato ancora, e questo già lo diceva De Saussure, e quindi cosa accade? Che l’infinito attuale è ciò che appare nell’apertura della parola. Ma non era ancora soddisfatto, occorreva giungere a Georg Cantor e al transfinito. א0 (alef con zero), è il numero più piccolo del transfinito, cosa rappresenta? Rappresenta la cardinalità di tutti i numeri naturali, quanti sono? Sono infiniti ovviamente, ma noi prendiamo tutto questo pacchetto di numeri infiniti e lo chiamiamo “א0” - א è la prima lettera dell’alfabeto ebraico - ora questo pacchetto, ora uso questi termini, rappresenta una sorta di elemento che a sua volta può costituire all’interno di un’altra serie di transfiniti una serie infinita, una serie infinita di infiniti, per esempio l’insieme dei numeri naturali rispetto ai numeri reali, il primo è א0, il secondo è 2א0, cioè 2 elevato alla cardinalità di tutti i numeri naturali, cos’è la cardinalità? La cardinalità rappresenta il numero delle cifre contenute in un numero, per esempio 1 ha cardinalità 1, 2 cardinalità 1, ma 22 ha cardinalità 2 perché sono 2 elementi, 1000 ha cardinalità 4 perché sono 4 elementi, eccetera. Dunque א0 rappresenta la cardinalità di tutti i numeri naturali, ovviamente essendo una serie infinita non ha limiti. Verdiglione ha ripreso il termine “transfinito” per indicare che l’apertura della parola non è riducibile a nulla, e tutto questo è attuale, attuale non nel senso che riguarda oggi, ma riguarda l’atto, attuale in quanto concerne l’atto. L’atto è l’agire della parola, è la parola che si sta dicendo. Ora arriviamo all’originario, perché è questa la cosa che a noi interessava. L’originario sorge dal fatto che si pose una domanda “da dove vengono le parole?” quale fosse l’origine delle parole. È un problema complicato, come sapete è una questione antica, potremmo dire che incomincia con Platone, poi passa per Agostino fino ad arrivare a Heidegger: da dove arrivano le parole? Come accade che una persona impari a parlare? Domanda alla quale nessuno ha saputo dare nessuna risposta che avesse un senso, De Saussure sì prova a dare qua e là qualche indicazione, ma scivola nella psicologia, in cose strane che hanno nessun senso, dunque qual è l’origine delle parole? La posizione di Verdiglione a questo riguardo è che la parola non ha origine, nel senso che l’origine della parola non è situabile da qualche parte, è in atto, questa origine non è situabile da qualche parte, non ha luogo perché non c’è un luogo dove sia possibile situarla. Questa originarietà non è neanche l’originalità, non è originale nel senso di un tipo originale, strano, è originaria nel senso che ciascuna volta in cui la parola accade lì si origina o, più propriamente, dicendosi la parola origina se stessa, dà origine a se stessa, in questa apertura. L’apertura è la parola stessa, la rimozione e la resistenza intervenendo simultaneamente definiscono la parola e ne definiscono l’originarietà, danno origine a qualunque cosa in definitiva. Dunque la parola originaria è quella parola che dicendosi apre all’infinito attuale, dicendosi dà origine a sé, dà origine a tutto, dà origine a quell’infinito che produce altre parole, a ciascuna parola. Non una parola in particolare, perché se no sarebbe la parola che è l’origine di tutte le parole, questo non c’è nella teoria di Verdiglione. Il problema naturalmente riguarda proprio questo, perché tutto questo non dice da dove vengono le parole di fatto. Rimane un problema, come lo ha affrontato? Nello stesso modo in cui la chiesa ha risolto alcuni problemi che non riusciva ad argomentare, introducendo, e prendendoli a prestito dalla religione, termini come “fede”, “provvidenza”, “miracolo” eccetera, cioè tutti quei termini che la chiesa stessa ha dovuto utilizzare al posto di un’argomentazione che non c’era. Dire che la parola è originaria tecnicamente non significa niente, perché non rende conto del fatto che questa parola a un certo punto c’è, ma il modo in cui Verdiglione risolve la cosa è proprio questo: la parola accade, avviene, ma come avviene? Perché? Questo non si sa, c’è la parola ed è l’avvio di ogni cosa, e va bene, è ovvio che la parola avvia una quantità sterminata di cose, ma che cosa produca la parola, questo non ha potuto pensarlo. Di fronte all’impossibilità di dare un’origine, un avvio della parola, l’ha risolta così: la parola accade. Questo è il miracolo, letteralmente, per Verdiglione, quindi originaria in questo senso, originaria ciascuna volta in cui si produce, in quanto dà origine a se stessa e a tutto quanto. Questo è ciò che significa il termine, la locuzione “parola originaria” nella teoria di Verdiglione. Tutto questo che vi ho detto della parola originaria mostra intanto una difficoltà che Verdiglione ha incontrata nel dare una risposta a una domanda che interveniva, e cioè da dove vengono le parole, come si impara a parlare. È una domanda alla quale nessuno ha saputo dare una risposta che abbia un senso, ed è per questo motivo che abbiamo introdotto la questione del linguaggio come una sequenza di dati e di istruzioni per processarli, cioè una struttura che mettendosi in atto costruisce le parole, quindi proposizioni eccetera. Questo mi è parso il modo più semplice per rispondere a questa domanda, più semplice e anche più efficace, come si impara a parlare? Si trasmettono dei dati, si trasmettono da un umano all’altro come si trasmettono da una macchina a un’altra macchina, o da un umano a una macchina, da una macchina a un umano non ancora, ma è solo questione di tempo, e le macchine informeranno gli umani. Questo è in effetti il problema principale nella teoria di Verdiglione: il due è originario. Il due che arriva dai due assi, l’apertura. E il tre è il terzo elemento che impedisce che la condensazione e lo spostamento si incollino l’uno sull’altro rendendo l’atto di parola chiuso in se stesso, totalmente significato, quindi il due originario, nel senso che questo due origina tutto, si origina con la parola.

Intervento: mi sono perso all’inizio la questione del nome …

Partiamo dal significante rimosso, e cioè un significante che si condensa, letteralmente è una condensazione, cosa ne è di questo significante che si condensa in un qualche cosa? Diventa un nome, se io dico orologio, quello che sto dicendo, per dirla con De Saussure, è un significante, il nome sarebbe il concetto di orologio che dovrebbe dare un significato appunto a questo significante “orologio”, perché se questo significante “orologio” non avesse un significato che è il concetto questo significante sarebbe niente, c’è quindi il significante, la parola che lo dice, il significato, il concetto di orologio, e poi l’orologio, ché anche lui ha la sua parte. Allora dunque la condensazione, quando io dico il significante “orologio” questo significante non ha un significato, ma una costellazione di significati, ecco perché condensa una serie di cose, che è un po’ quello che diceva Freud: quando dico qualche cosa, questo qualche cosa non è soltanto quello “ho sognato una donna ma non era mia madre”, sì, nega il significante “madre”, ma in questo significante “madre” c’è una storia, quindi nel significato, cioè nel concetto di orologio c’è una costellazione, una condensazione di elementi, ecco perché un significante rimosso funziona come un nome, è una condensazione di elementi, e questa condensazione è equivoca, e qui equivoca non è da prendere letteralmente perché Verdiglione usa molto l’etimologia ma solo quando gli fa comodo, in molti casi non la usa affatto, come nel caso di equivoco, e allora deve precisare “equivoco non nel senso che una voce è uguale a quell’altra, ma nel senso che il nome orologio, il concetto di orologio non è univoco. Un nome come equivoco vuole dire che questo nome, cioè il concetto orologio, non l’orologio in quanto tale ma il concetto, il significato con De Saussure, racchiude una quantità, una costellazione di elementi. Torniamo a Freud, la rimozione: un elemento viene rimosso cioè viene tolto dalla combinatoria però, dice Freud, non è che lo tolgo e non c’è più, quella sarebbe la Verwerfung, l’espunzione letteralmente, mentre la rimozione comporta un ritorno del rimosso, cioè non tiene, un elemento che è rimosso non è che non c’è più anzi, come dice Freud, una volta che è rimosso, proprio perché è rimosso incomincia ad agire attraverso le sue connessioni. C’è la rimozione, ma c’è una connessione, qui sull’asse delle ascisse, che impedisce che la rimozione riesca. Che cos’è che insiste? Un altro significante, cioè ciò che interviene come ritorno del rimosso è un altro significante, connesso ovviamente con ciò che è stato rimosso, ecco perché “un significante rimosso funziona come nome adiacente a un altro significante” …

Intervento: e il “nome del nome”?

Anche questa è una locuzione che viene da Verdiglione. La rimozione ha sempre un resto che è il ritorno del rimosso, quella cosa che Freud chiama il “sintomo” per dirla tutta, il sintomo si manifesta in quanto ritorno del rimosso, testimone del fatto che qualcosa è stato rimosso ma questa rimozione non tiene, questo dice Freud, ora immaginare il “nome del nome” significa che questo nome cessa di essere equivoco, diventa univoco, diventa il significato del significato, e cioè il nome del nome comporterebbe l’eliminazione della rimozione perché è la rimozione del significante che rende il nome equivoco, e cioè il nome diventa una costellazione di elementi, questa costellazione non è più una costellazione di elementi ma diventa un significato, questo è il nome del nome. Questo per Verdiglione non esiste, è il tentativo del discorso universale di padroneggiare la parola stabilendo che la parola ha un significato, quello che chi ha potere stabilisce, questo è il nome del nome. Però tutto questo ci dice una cosa importante per quanto riguarda un modo di procedere teorico, e cioè di fronte all’impossibilità di dare un’origine, di dire perché accadono le parole, utilizza un metodo che teoricamente è scorretto e cioè fa ricorso alla magia. È questo che porta alla locuzione “parola originaria”, che talvolta viene ripetuta come se fosse un mantra, che è una parolina magica che i buddisti recitano con il fine di distruggere il linguaggio. Ma questa locuzione non è supportata da nessuna argomentazione, il fatto che sia “originaria” non ha un’argomentazione a fianco che dica cosa vuole dire una cosa del genere, perché rinvia immediatamente alla magia, cioè accade. La questione è che non si sa in nessun modo rendere conto del dove arrivino le parole, che cosa le costruisca. È, come dicevo, un modo di procedere teorico piuttosto scorretto, anche se straordinariamente diffuso e praticato. Rimane il fatto da cui sono partito, e cioè che ciò che andiamo dicendo non andrebbe né approvato né disapprovato, è semplicemente il funzionamento di un qualche cosa che consente agli umani di parlare, tenendo conto di un funzionamento, se dico che l’affermazione non è la negazione non posso né acconsentire né dissentire, cosa sto facendo? Niente, se acconsento faccio una cosa assolutamente irrilevante, se dissento vuole dire che allora acconsento, inesorabilmente. Considerate la sequenza “se A allora B e se B allora C, allora se A allora C”, posso di fronte a questa sequenza acconsentire o dissentire? No, perché se dissento, per esempio, nel costruire un’argomentazione che mi conduca a dire che non sono d’accordo su questo, ho già utilizzato questo, citavo una frase latina: “in actu signato negato”, negare che sia in atto ciò che è in atto.

Intervento: come negare una tautologia …

Qualcosa del genere. Peano l’ha fatto, ha cercato di negare che A sia uguale ad A: perché le due A siano uguali occorre che abbiano tutte le stesse proprietà, ma una è a destra e l’altra è a sinistra, quindi c’è già una proprietà che non hanno in comune, quindi sono differenti …

Intervento: diceva che non esiste il linguaggio, si è fatta una critica al termine struttura, sistema …

Quando parlo di sistema uso questo significante nell’accezione che usava De Saussure, vale a dire una rete di elementi ciascuno dei quali è in relazione con ciascun altro, se poi aggiungiamo a questa definizione il fatto che se modifichiamo un elemento di questa rete allora si modificano tutti gli altri, cioè si riassetta l’intero insieme, allora è la definizione di struttura, che è quella data da Benveniste, utilizzata praticamente da tutto lo strutturalismo.

Intervento: la questione dell’oggetto …

La nozione di oggetto è una delle nozioni cardini di tutto il pensiero filosofico e scientifico occidentale. Freud come sapete, essendo tedesco, aveva due modi per indicare la parola oggetto, Gegenstand che viene dal sassone e Object che invece viene dal latino, da objectum, ciò che è gettato contro, mentre Gegenstand indica ciò che sta, che è lì. Freud della questione dell’oggetto ne parla soprattutto nel saggio “Al di là del principio di piacere”, è il gioco del “Fort/da”: il bambino che gioca il gioco del rocchetto, e cioè l’oggetto, che sarebbe la madre, ciò che desidera, supponendo che sia effettivamente così, quando la madre non c’è, per economizzare la mancanza di questo oggetto si inventa un giochino, e cioè butta un rocchetto che è legato a un filo e poi lo riporta a sé, cercando così di gestire lui la mancanza dell’oggetto. Da qui Abraham ha incominciato a parlare di “oggetto parziale”, e cioè l’oggetto non è mai tutto perché questo oggetto, e qui naturalmente c’è tutta la teoria di Freud, questo oggetto, proprio come la parola, coinvolge altre cose. Per Verdiglione l’oggetto di cui parlano la filosofia o la scienza in realtà non c’è, in quanto non è delimitabile, non è definibile, cioè in poche parole non si può dire che cosa sia. È un modo per dire che non si riesce a stabilire quale sia l’Essere dell’ente. Verdiglione incomincia a porre la questione dell’oggetto come oggetto vuoto, appunto il sembiante di cui parla Dante, l’oggetto come punto, stigma, punto, che dimensioni ha il punto nella geometria? Non ha dimensioni, non ha luogo, non è spazializzabile, certo si usa quando si scrive, ma il punto in quanto tale non è spazializzabile, non è localizzabile, è una pura astrazione. Ecco, per Verdiglione l’oggetto è una cosa del genere, ed è vuoto, vuoto di che cosa? Vuoto di significato, cioè non c’è un significato che lo riempia, che possa dire che cos’è la cosa, che cos’è l’ente, allora l’oggetto diventa letteralmente un sembiante, questo oggetto che la scienza cerca per poterlo padroneggiare, per poterne fare varie cose, l’ente, per poterlo manipolare, per poterne avere il controllo, per poterne avere il dominio, questo oggetto è vuoto, non ha significato è, letteralmente, come dice Dante, un mirabile sembiante. Tuttavia il fatto che questo oggetto rimanga vuoto consente di parlare perché funziona da punto di provocazione, letteralmente, provoca la voce, provoca il dire, perché è vuoto, quindi essendo non riempibile continua a provocare, insiste, non può togliersi. In questo senso è qualche cosa che non è afferrabile. Questa nozione è venuta in parte dallo studio che fece negli anni 70 intorno alla nozione di fonema di Trubeckoj: il fonema “p”, qual è il suono di una p. Il fonema, l’unità minima di suono, posso individuarla, bloccarla, fissarla? Come? Ogni volta che la dico per esempio non è mai la stessa cosa, questa “p” in quanto tale, questo fonema, dov’è? Come lo manipoliamo? Come lo isoliamo per poterlo usare? Non è isolabile, ecco, è un sembiante, cioè rimane un punto vuoto, non localizzabile, quindi non manipolabile letteralmente, non utilizzabile anche se poi viene utilizzato. Dire che non è utilizzabile tuttavia comporta tutta una serie di problemi di cui abbiamo detto forse in altre occasioni …

Intervento: questo per quanto riguarda il “sembiante” ma per quanto riguarda il “nome del padre” in Lacan?

Lacan scrive “les non dupes errent”, in Scilicet, che è stato tradotto da Verdiglione come “ i non zimbelli errano”. Chi sono i “non zimbelli”? Ciascuno è zimbello del linguaggio per Lacan, in questo c’è una risonanza con Heidegger, quindi i “non zimbelli” sono coloro che non si lasciano prendere dal linguaggio, che non seguono il linguaggio, che non si accorgono di essere parlanti, e allora errano. Il nome del padre viene dalla teoria di Freud ovviamente, in particolare in Totem e Tabù, nell’Uomo Mosè eccetera. Verdiglione chiama il teatrino edipico quello formato da papà, mamma e bambino, ma il padre non è il papà, come era per Freud sicuramente, specialmente all’inizio, cioè la figura del padre, ma ciò che accade al padre è di rappresentare la legge, quello che vieta “il possesso delle donne”. Il padre impedisce ai figli di avere il possesso delle donne perché il possesso ce l’ha soltanto lui e allora funziona come legge. Ciò che rimane del “padre” quando è spogliato da tutte le connessioni più o meno sociologiche, psicologistiche o fisiologiche, è il nome che funziona, “padre” come nome non più come persona ma come nome, cioè quell’elemento che consente la “legge”, come dice Freud, che tutti quanti una volta che il padre è morto devono seguire la sua legge, cioè fa da elemento di coesione, di condensazione. Quindi parlare del nome del padre significa dire che il “padre” nel discorso della persona interviene come quel nome che non ha un significato, ma apre ad altre questioni, se la questione viene elaborata ovviamente. Questa stasera vi ho raccontato parte della teoria di Verdiglione partendo dal suo impiccio riguardo alla parola originaria, si è inventata questa storia perché non sapeva come cavarsela di fronte alla domanda “da dove vengono le parole?” “come si impara a parlare?”, e quindi, avviene così come il deus ex machina nell’antico teatro, quando il drammaturgo non sapeva più come risolvere un problema che lui stesso aveva creato, ecco il deus ex machina e risolveva tutta la questione …

Intervento: ieri si parlava del “nome del padre” o del padre in quanto tale?

Se ci atteniamo a Lacan è sempre il “nome del padre” che funziona. Mentre nella nevrosi viene rimosso, nella psicosi viene forcluso, o espunto, e ritorna dal reale, e cioè qualche cosa che viene espunto dal mio discorso comunque insiste, non è cancellato totalmente, anziché tornare come sintomo ritorna dal reale. Faceva un esempio: “quella macchina mi guarda” e cioè qualcosa che è connesso con lo sguardo, anziché venire rimosso cioè tornare come sintomo, come per esempio nel discorso ossessivo che ha dei problemi con lo sguardo, si suppone sempre sotto lo sguardo di tutti, nella psicosi invece no, se questo elemento viene forcluso cioè espunto, nella traduzione italiana della Boringhieri è “precluso”, in tedesco è Verwerfung, allora ritorna dal reale, ritorna in questa maniera, e cioè non è più che tutti quanti mi guardano e quindi sono sempre sotto gli occhi di tutti ma “qualche cosa mi guarda” appunto “la macchina mi sta guardando e quindi ce l’ha con me” eccetera.