INDIETRO

 

 

14 maggio 2025

 

Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo

 

Stiamo proseguendo questa lettura, che si rivela di grande interesse. Il titolo di questo capitolo è Plotino e la dialettica uno-molti. Il problema posto da Plotino come si debba concepire la molteplicità al di fuori dell’Uno va tematizzato ora a partire dalla concezione dell’identità di essere e pensiero. Il problema è il seguente: come la molteplicità costituisce una unità? Con il procedere dell’Uno nell’essere è posta la prima alterità e, quindi, la molteplicità. La riflessione raccoglie la molteplicità e la delimita affinché essa non si disperda in ciò che è assolutamente indeterminato. L’πειρον. Di conseguenza, la prima molteplicità, più di tutti gli altri esseri che seguono nel dispiegamento dell’essere, è sempre strutturata come un intero esistente in sé dall’unità che è in essa prevale. Prevale sempre e comunque l’unità. Tutte queste pagine che stiamo leggendo vertono tutte al problema dell’unificazione. Ma che cos’è l’unificazione? È la concettualizzazione. Il concetto, come dice parola stessa, non è altro che il raccogliere insieme e mantenere gli elementi al fine della conoscenza. A questo punto possiamo porre il concetto come l’Uno. Adesso badate bene, perché stiamo per costruire una religione, sulla falsariga del cristianesimo, perché il cristianesimo, in effetti, è uno studio, almeno all’inizio, intorno al linguaggio. Qui dirà che le cose procedono dalla parola, non sono per conto loro; e, allora, c’è l’Uno, cioè il concetto. Senza concetto non si sa che cosa dire né perché; ma il concetto naturalmente produce il verbo, la parola, la parola che dice; dicendosi, la parola fa esistere le cose. Queste tre istanze, in effetti, vanno considerate non come sostanze separate ma come tre momenti dello stesso. Abbiamo, quindi, l’Uno, il Padre, il Figlio e lo Spirito, e cioè il Padre, da cui ogni cosa procede, il Figlio, che è il Verbo, e il dire del Padre che produce lo Spirito, la ψυχή, il pensiero: il dire del Padre produce le cose, tutto quanto. Questo modo di porre la questione non è lontanissimo dal modo in cui è stato posto dalla teologia. La teologia, naturalmente, considera l’Uno come Dio. Ma altra questione interessante: se noi prendessimo le parole di Averroè intorno alla doppia verità, e cioè che c’è una verità per il popolo e una verità per i dotti, per i sapienti. La verità per il popolo è fatta di miti, di immagini, di figure retoriche. Ora, Padre, Figlio e Spirito possiamo benissimo considerarli come figure retoriche, figure retoriche di qualche cosa di strutturale al linguaggio, e cioè il concetto, la parola e ciò che la parola costruisce. È esattamente ciò che dice anche Agostino. Quindi, ci troviamo di fronte a una situazione tale per cui tutto ciò che la dottrina ha costruito può essere posto in termini, anziché religiosi nell’accezione corrente del termine, in termini invece strutturali, e cioè l’Uno, il Padre, il Figlio e lo Spirito come il concetto, la parola che dice e ciò che la parola produce. È un altro modo di pensare il λέγειν τί κατά τίνός: il dire è il Padre, il τί è il Figlio, κατά τίνός è ciò che produce.

Intervento: …

Il Padre è ciò da cui ogni cosa procede, Dio è sempre stato pensato come colui che sa tutto, che cioè ha il concetto universale; è lui che possiede il sapere, cioè, è lui che conosce il concetto di tutto, che è in condizione di unificare tutto. Quindi, porre il concetto come Dio non è così lontano dal pensiero teologico. Quindi, ci troviamo di fronte a questa situazione, tale per cui il Padre, cioè il concetto funziona come Uno, il Padre, l’incominciamento di tutto, perché senza il concetto, senza questa unificazione, non c’è la possibilità di affermare nulla, perché non c’è nulla che abbia un significato. Questa cosa naturalmente si dice, non può non dirsi, dicendosi produce tutto quanto. E questa è la teologia di Agostino, ma non solo, è stata poi ripresa anche da altri. Quindi, Padre, Figlio, Spirito, come metafore del funzionamento del linguaggio. Se noi ponessimo la questione in questi termini, potremmo effettivamente costruire una religione che ha però la particolarità di non essere fondata sull’ineffabile. Non è fondata sull’ineffabile perché tutto necessariamente si dice. E non c’è neanche il paradosso, quello dell’Uno e Trino, perché qui la Trinità non sarebbe nient’altro che la simultaneità di questi tre momenti, ma che sono consustanziali e, quindi, non c’è nessun paradosso, non più di quanto non ci sia nell’uno e i molti. I molti sono necessariamente uno, perché sono “i” molti (ν πάντα εἰναι), e così l’uno è fatto di molti. Dunque, non c’è più il paradosso e non c’è più l’ineffabile, ma sarebbe una religione costruita unicamente sull’argomentazione. Potrebbe anche funzionare perché dopo tutto abbiamo ripreso i termini fondamentali della teologia, ma ricondotti alla questione centrale. Che fanno anche loro, badate bene, non è che non lo facciano, lo fanno, solo che, per qualche motivo loro, è come se fossero costretti a pensare che l’Uno, cioè il Padre, sia necessariamente un Dio. Ora, possiamo anche mantenere questa idea di Dio, θεόν, Dio come idea del concetto, perché senza il concetto non c’è nulla; in questo senso è Dio, perché da lì procede tutto, perché dal concetto procede tutto, necessariamente. Ecco, allora, la costruzione di una religione, dove ci sono tutti i termini del cristianesimo ma senza l’ineffabile, senza il paradosso della Trinità, che viene dissolto. Ma già loro l’hanno risolto il problema della Trinità, in fondo: sono tre momenti dello stesso. Lo stesso qui è il linguaggio, cioè, sono tre momenti nel linguaggio. Ora, si pone un altro problema, che riguarda proprio l’ineffabile. Siamo sicuri che non sia proprio per via dell’ineffabile che la religione ha avuto tutto il successo che ha avuto?

Intervento: …

Qui poniamo la questione della fantasia. Se tutto è dicibile, se non c’è più l’ineffabile, che succede? Succede, sempre fantasmaticamente, che non posso più pensare che ciò che non dico abbia un valore al di là delle parole, perché comunque ciò che non dico è fatto di parole anche quello. Ma, soprattutto, l’ineffabile ha la prerogativa di cancellare un problema enorme, che è una cosa banalissima, e cioè non esiste, non si dà in nessun modo un significato univoco. In fondo, è tutto qui: non c’è un significato univoco perché il significato è un rinvio, necessariamente, quindi, rinvia ad altro, ecc. Perché questa è una tragedia? Perché nessuno se ne può più appropriare e, soprattutto, toglie la possibilità di determinare univocamente qualche cosa, quindi di sapere con assoluta certezza che cosa si sta dicendo. Dunque, toglie la possibilità di dominare: se il significato non è univoco, allora la volontà di potenza si trova nella mala parata. Ecco, dunque, oltre a ciò che dicevamo prima, la necessità dell’ineffabile. L’ineffabile mantiene questa idea che ci sia un significato univoco, perché solo così si possono gestire e controllare le cose. Ma perché sia pensabile una cosa del genere, e cioè che esiste un significato univoco, questo significato deve essere posto fuori dalla parola, dal linguaggio. Se è nel linguaggio, essendo significato, è polivoco, direi per definizione. Quindi, l’ineffabile non è un problema che è sorto e al quale si è cercato di rimediare, una sorta di impiccio, di inciampo della teologia, ma è il supporto della teologia, ciò che la fa esistere in quanto tale. Ecco perché costruire una religione senza l’ineffabile è impensabile. Qui cita Plotino. Lo Spirito va quindi pensato come unità o identità nella differenza, è Uno-molti. Nello Spirito tutte le cose sono insieme e tuttavia distinte. Lo Spirito è insieme a tutti gli esseri e d’altra parte non insieme, perché ogni essere è una potenza particolare. L’Uno in sé garantisce l’unità dello Spirito, costituendolo come traccia di sé. L’etimologia della parola εναι indica questa realtà. Questo era Plotino. L’essere stesso è in sé molteplice. Il pensiero però costituisce l’unità che è resa possibile dall’Uno in sé. Questo uno in sé, in effetti, non è altro che il concetto. Il concetto è l’Uno, è ciò che unifica, e unificando consente di pensare, permette il pensiero, che è il molteplice. L’Uno privo di differenza… Sarebbe l’Uno-uno, non l’Uno-che-è. …non ha bisogno di sé medesimo, non cerca nulla, l’autosufficienza dell’Uno si fonda sulla sua stessa unità. Quindi, l’Uno sotto questo aspetto non pensa. Ecco, qui ci troviamo di fronte alla necessità, cui accennavo prima, di porre un significato univoco: l’Uno privo di differenza sarebbe il significato univoco, perché sono i molti che lo rendono polivoco e, quindi, non più identico a sé. A ragione, lo Spirito potrebbe dire di se stesso “Io sono essere”, poiché essere implica molteplicità, per quanto unificata in sé, una espressione come “io sono essere” è adeguata; nella forma della differenza di soggetto e predicato, essa esprime qualcosa che è intimamente differenziato. C’è sempre una differenza, perché si rendono conto che la differenza ovviamente non si può togliere, ma va gestita sotto l’Uno. Si attribuiscono all’Uno, al concetto, delle prerogative che il concetto non ha, perché il concetto è sì, certo, simultaneo - come dicono anche loro, è simultaneo al Figlio e allo Spirito, cioè al dire e alla produzione, nel senso greco, della ποιησις, del produrre cose. In Agostino - ma poi anche altri fino ad arrivare a Tommaso nel tredicesimo secolo, quindi, quasi mille anni dopo Agostino - c’è un’analisi molto precisa, molto accurata del funzionamento del linguaggio, che hanno dovuto compiere per porre rimedio al fatto che il significato non è univoco. Il significato non è univoco, c’è la molteplicità, ma se noi riusciamo a porre questo concetto - che è un po’ quello che ho fatto prima - come prioritario su tutto, cioè sia sulla parola sia sulla ποιησις, allora assimiliamo questi due altri elementi al concetto, che diventa appunto il Padre, sia del Figlio che dello Spirito. Ovviamente, tutta questa costruzione che ho fatto è fantastica, è frutto di fantasia, ed è falsa perché il significato non è univoco; e, quindi, parlare di concetto, come facevo prima e come fa Agostino, significa porre il concetto come un significato univoco, che è quello che è; il Figlio, la parola, è quella che è e così lo Spirito. Ma se il significato non è univoco, allora sono io che ho deciso - ecco che torna Aristotele - come utilizzare queste parole, a seconda di come mi servono. Se questo Uno privo di parti… Privo di parti significa già che ha un significato univoco. …dovesse esprimere se stesso, dovrebbe dire ciò che non è e in questo modo per essere Uno sarebbe in effetti molteplice. Inoltre, se dicesse “io sono questo”, esprimendo il predicato questo come una realtà diversa per sé, parlerebbe in modo errato; se invece esprimesse a proposito di sé una predicazione che gli spetta in modo accidentale, direbbe di sé ancora qualcosa di molteplice, o direbbe, “sono sono”, “io io”. Una eventuale autoespressione dell’Uno non potrebbe attuarsi nella forma proposizionale di soggetto e predicato, che è proprio delle realtà intrinsecamente differenti, ma solo come ripetizioni di ciò che l’Uno è, il soggetto si ripeterebbe nel predicato o si esprimerebbe completamente nel predicato, superando la differenza. Come dire che questi momenti sono consustanziali, hanno la stessa sostanza, non sono altro. Se il linguaggio rappresenta la realtà, cui si riferisce per come essa è in sé, il predicato “è” si rivela ingannevole anche in rapporto all’Uno in quanto άγαθόν, bene. L’Uno non può dire “io sono” e neppure “io sono il bene”, perché il predicato esprimerebbe una differenza al suo interno. Vedete come colgono tutte le possibili differenze all’interno dell’Uno, che invece non deve averne per nessuno motivo, deve essere univoco. La proposizione “io sono il bene” sarebbe il risultato di un pensiero di sé che pensa il bene, ossia di un pensiero che in un primo momento si contrappone teoricamente al bene in sé e che poi lo identifica come se medesimo. Di conseguenza, se l’Uno deve rimanere tale, il bene in sé, che ha la stessa dignità ontologica dell’Uno, va inteso come separato dal pensiero del bene. Poiché l’Uno è se stesso in modo indifferenziato, e quindi non pensa e non è, l’unico modo adatto a descrivere l’Uno è la dialettica negativa. Ciò che non è. Rimane il problema: se io posso dire di qualche cosa ciò che non è, è perché so che cos’è, altrimenti come faccio a dire ciò che non è quella cosa? Io posso dire che tu non sei una macchina da scrivere perché so che cos’è la macchina da scrivere, e quindi tu non sei una macchina da scrivere. Già il termine “è” sarebbe un’aggiunta e distruggerebbe l’essere Uno e l’essere buono e la loro assolutezza. D’altra parte, è anche vero che si può dire è del non-Uno, ossia dello Spirito, solo perché non-Uno viene conservato dall’Uno e grazie all’Uno struttura la sua unità mediante l’atto di pensiero. Cioè, posso pensare comunque, perché c’è l’Uno, e questo non possono eliminarlo in nessun modo, perché c’è il concetto. A causa del pensiero, la molteplicità dello Spirito è dappertutto Uno. Ciò che distingue l’assoluta unità dell’Uno è l’unità dell’essere che pensa se stesso. Ecco Dio. È soltanto la differenza, o alterità, come nuova qualità ontologica; l’unità originaria si è scissa, diventa oggetto di sé come essere ed insieme si raccolgono, mediante il pensiero, in un’unità che mantenesse la differenza e al contempo la supera. Che poi questo è Hegel. L’idea della teologia è che questo Uno, cioè il concetto, produca, nel senso della processione, sia il Verbo che lo Spirito. Ma, una volta che questi elementi sono apparsi… Intanto, sono apparsi perché l’Uno, il concetto, li ha generati. E qui c’è la differenza sostanziale tra ciò che dicevo prima e la teologia, e cioè l’Uno non ha bisogno di nulla, è irrelato, è il significato univoco. Cosa che è una contraddizione in termini perché il significato è un rinvio. Invece, il concetto, di cui parlavo prima, non esiste senza il Verbo e senza lo Spirito; soprattutto senza il Verbo, senza la parola, perché il concetto è parola. Per questo già Platone diceva λέγειν τί: non c’è il λέγειν senza il τί. Mentre, nella teologia cristiana e in Plotino, il λέγειν, cioè il concetto, diventando Uno irrelato, esiste senza gli altri, ha una sua esistenza propria, privata, personale.  

Intervento: …

È ciò che dicevamo prima dell’ineffabile, che è necessario. È l’ineffabile che alimenta la fede, la credenza, non l’argomentazione, quella non alimenta niente, è solo l’ineffabile, il mistero, quello che sento dentro.

Intervento: Si apre poi la via dell’interpretazione.

Ovviamente, soprattutto l’esegesi, perché l’interpretazione va fatta da persone che sono qualificate per interpretare, non uno qualunque. Anche la Bibbia era messa all’indice fino a qualche anno fa: non è che si può leggere così, per cui poi trai tutte le sue conseguenze. Porfirio concepisce Dio o l’Uno come pre-essente ed insieme anche come atto puro, che è l’essere stesso, secondo gli oracoli caldaici. Ecco da dove arriva tutto quanto: dalla religione caldaica. Lo stesso agire puro, cosicché è lo stesso essere prima dell’ente. Dio non è quindi un ente ma è l’essere in sé che esiste prima di ogni ente e insieme, in quanto essere assoluto, è la causa universale di tutti gli enti. Se l’idea è il fondamento o l’essere … concreto, l’essere dell’Uno divino è l’idea dell’ente. L’idea dell’ente che ha Dio è l’ente, e allora diventa l’ente. L’identità o l’eternità di Dio è in sé dinamica poiché Dio è parola e Spirito. Nella parola, come principio ossia grazie alla parola, Dio crea gli enti. Che non esistono prima della parola. Nella parola Dio trasforma ciò che egli stesso ha concepito già da sempre come idea nella realtà atemporale. Nell’attuarsi di questa parola, essa sorge dal nulla. Dal nulla, ecco come sorge dal nulla, perché è l’Uno, cioè il concetto, che naturalmente diventa parola e diventando parola le cose esistono, sono, dal nulla. Dire dal nulla significa un po’ tutto e niente, però… Infatti, dicono i teologi, che Dio, perché le cose continuino a esistere, deve pensarle continuamente. Lo spirito congiunge la parola con il Padre e crea così l’unità del pensiero e dell’amore. Dire che Dio è l’essere coglie tutta la Trinità come unità. Quindi, la Trinità ha la funzione di porre l’unità, di porre l’Uno. Anche se Agostino comprende il puro essere di Dio come unità trinitaria, la parola come sapientia o intelligentia è lo spirito, non tematizza, nella sua interpretazione di Esodo “Ego sum qui sum”, la riflessività dell’essere e il qui relazionale, come l’autentica relazionalità dell’essere in sé e per sé. Questo sarà il guadagno essenziale di Meister Eckhart. Ecco, quindi, la Trinità come unità. La Trinità come unità è una bella questione, perché riguarda ciò che dicevamo rispetto al tre: è la Trinità che mantiene l’unità, perché mantiene la possibilità di tenere separati l’uno e il due, per cui l’uno non è mai il due e il due non è mai l’uno, ma sono sempre sostanze separate, consustanziali ma separate: il Padre non è il Figlio, ecc., cioè, il significato, il Padre, non è mai polivoco, non si confonde mai con il Figlio, per niente al mondo. Potremmo dire così: nel pensiero teologico questi tre aspetti della Trinità mantengono la stessa sostanza perché sono tre momenti dello stesso. È questa l’idea della teologia: sono tre momenti dello stesso, cioè del concetto, che si articola in questi tre momenti. La questione della Trinità con il cristianesimo è stata fondamentale - poi la vedremo con il De Trinitate di Agostino – ma lì si costruisce quel discorso, quel racconto, che ipostatizza l’Uno attraverso il tre: l’Uno ha bisogno del tre per potere ipostatizzarsi. Cosa che in Plotino non era ancora ben chiara, perché in Plotino non c’è ancora l’idea che questo Uno, come Padre sia il concetto e che tutte le cose siano prodotte dall’anima, dallo spirito, dalla psiché. Per Plotino tutto procede dall’Uno semplicemente, è una conseguenza dell’Uno. I teologi hanno fatto questa analisi del linguaggio così accurata, per cui il Figlio è il verbo, è il verbo del Padre, il concetto, che si dice, il Padre non può non dirsi, perché è già in lui. Mostrandosi mostra le cose che da quel momento esistono in quanto tali. Loro hanno fatto questa straordinaria analisi del linguaggio, anche se entro certi limiti. Intendendo che si parte da qualche cosa, che loro hanno deciso di chiamare Dio, che viene posto e pensato come un concetto. Dal concetto procede il verbo necessariamente, che però non è un prodotto del concetto, è la stessa cosa, perché il concetto è il verbo. E, quindi, a questo punto le cose, dicendosi – è il κατά τίνός - producono le cose. A questo loro ci sono arrivati, perché è la parola - lo diceva prima - che fa esistere le cose, senza la parola non esisterebbe niente. Trascendere è muovere dall’essere temporale, sciogliersi dall’irretimento nel tempo, tornare nell’interiorità per conoscere nell’autocoscienza il fondamento del proprio sé e superare se stessi rivolgendosi a Lui. Trascendere non è nient’altro che l’autocoscienza di cui si parla oggi: guardarsi dentro. E ciò equivale, in fondo, a un salto in ciò che permane. La questione del salto: come si passa dall’idea che, se guardo dentro vedo Dio, alla certezza che ciò che vedo è vero? C’è un salto, un salto che viene recuperato dalla fede, ma è un salto, esattamente come il salto che c’è in qualunque implicazione: se A allora B, se lo sento dentro è perché c’è Dio. Eh no, direbbe Aristotele, non è così automatico questo passaggio, lo decidi tu. Nell’ottica della storia della salvezza, Cristo è il fondamento di questa speranza. In lui si compie la promessa iniziale di Dio espressa nel nomen misericordiae: noi speriamo in lui, nel Dio di Abramo, siamo servi, ma per noi il nostro Signore ha assunto la natura di servo. Per noi mortali lui immortale volle morire, per noi volle mostrare questo esempio di resurrezione. Speriamo quindi di giungere a questi anni stabili nei quali i giorni non passano con lo scorrere del sole ma ciò che è rimane così com’è, perché è in senso autentico. Siamo servi, ma per il nostro bene lui ha assunto la natura del servo. Per noi mortali, lui immortale volle morire per noi, volle mostrare questo esempio di resurrezione. È da lì che Hegel ha pensato l’anima bella, cioè, colui che si sacrifica per un bene superiore, per il paradiso futuro. Questa cosa era assente prima del cristianesimo: se qualcuno si faceva servo non è che guadagnasse un grande rilievo nella società. Lo diventerà prima con Plotino e poi con Cristo, perché lui si è fatto servo di tutti.