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14 aprile 2021

 

I concetti fondamentali della filosofia antica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 237. Il tema della ricerca e del conoscere sono dunque “le cause prime dell’ente in quanto ente”, le cause prime dell’essere, ciò a partire da cui l’essere in quanto tale va determinato. Sta qui il nodo del problema, il duplice concetto di una scienza dell’essere intesa come spiegazione ontica e interpretazione ontologica. Bisogna spiegare l’ente per arrivare all’essere, per capire che cos’è l’essere. Questo perché è sempre dall’ente che partiamo, non possiamo partire dall’essere. Le cause dell’ente: il tema è l’essere dell’ente. Le cause dell’essere: l’ente è la causa dell’essere. Queste sono le domande che si ponevano gli antichi. Il problema può essere discusso in termini positivi soltanto se conosciamo a sufficienza entrambi i concetti della scienza prima. La scienza prima è la metafisica. In primo luogo: scienza prima come scienza dell’essere tendente all’interpretazione ontologica. Perché è questo l’obiettivo: giungere all’essere. L’ente ci serve come trampolino per intendere l’essere, la causa e il principio dell’ente, delle cose che sono e anche di quelle che non sono. A pag. 240. Il termine “essente” significa dunque di volta in volta in relazione al termine “essere”, μία άρχή – πρόϛ ταύτην, “in relazione all’essere”,… Heidegger intende così l’essente: come ciò che è in relazione all’essere. …cioè partendo sempre da esso e a esso ritornando. L’ente è essente in sensi diversi e tale diversità emerge dalle diverse relazioni fra l’ente e ciò che propriamente “è” e che è chiamato “essente”. Lui utilizza una delle differenze tra “ente” ed “essente”: l’ente è qualunque cosa, l’essente è ciò che c’è. La relazione πρόϛ νρόϛ = primo, ν = uno, quindi, principio primo) è un modo del καθν (secondo l‘ente, la modalità dell’ente), unità dell’analogia, “ciò da cui i restanti modi dell’essere dipendono e attraverso cui gli altri sono chiamati essenti”. Qui il problema è questa relazione πρόϛ ν, cioè dell’uno in quanto principio. Dice che l’uno in quanto principio è un modo, appartiene alla modalità: secondo le modalità aristoteliche può essere necessario, possibile o contingente. Se questo qualcosa è l’ούσία (sostanza), allora è da essa che derivano le άρχαι (principi). Ebbene, si tratta di volta in volta di una determinata ούσία, oppure dell’ούσία in generale? Non perdere mai di vista la modalità più precisa dell’accesso primario. Modalità di ciò che ci è dato lì davanti… Questo è l’accesso primario: ciò che ci è davanti. …e che ci si pro-pone. Qui si ha una nuova scienza dell’essere in quanto ontologia, illustrata in Met. K3. Nuovo concetto di filosofia: ontologia, ricerca tematica dell’essere stesso, indicandolo, non solo cercandolo tastoni. … “Ον ν (essere in quanto essere), l’essere stesso è già accennato. Una volta che mi pongo la domanda dell’essere, sto già dicendo che l’essere è qualche cosa. Esso è in una molteplicità di modi di essere. Unità πρόϛ ν, analogia. Qui sorge il problema dell’analogia, che però lui non articola. Il significato analogo di essere = domanda sull’essere in generale. Questa è l’analogia: il significato di essere in quanto domanda sull’essere, il significato dell’essere è la domanda sull’essere, è il domandare sull’essere. Se domando sull’essere vuol dire che c’è già l’essere, vuol dire che è già posto a tema. Ma dove si attua detta analogia? Dov’è la possibilità di una relazione fra ente ed ente, nonché di una diversità di simili relazioni? È il problema dell’analogia: che cos’è che consente una relazione tra un elemento ed un altro, cioè tra gli elementi che io pongo in una analogia tra loro? Λόγοϛν (linguaggio – essere), qualcosa in quanto qualcosa, insieme, l’uno con l’altro. Questo era un problema per gli antichi: qualcosa si presenta sempre in relazione con qualche cos’altro, è sempre un con-qualche-cosa. Il λόγοϛ è il filo conduttore, cioè lo ν λεγόμενον (essere che lega, che mette insieme), il possibile modo di essere dell’asseribile. Κατηγορεν, κατηγορία. Essere: la sua interpretazione e la fissazione dei suoi modi. Categoria, λόγοϛ = asserzione, analogia. “Ον ν: come esso, nel λόγοϛ, si mostra e si fa incontro, nei modi dell’”in quanto che cosa”. Avevano avvertito che già nel λόγοϛ si mostra sempre “in quanto qualcosa”, cioè, “in quanto qualche cos’altro”. Questa ricerca, che è interessante e mano a mano lo diventerà sempre di più, è per intendere – perché è questa la questione da cui siamo partiti – i concetti fondamentali del pensare, a questo punto, come i concetti della volontà di potenza, semplicemente. Vale a dire, sono concetti sorti dalla volontà di potenza, è la volontà di potenza che ha dettato i concetti fondamentali della filosofia: l’essere, l’ente, la sostanza, la verità, ecc. È la volontà di potenza che li ha indicati come ciò che deve essere inteso, determinato, per potersi esercitare. Questo è il lavoro che stiamo incominciando – naturalmente con alcune incertezze che se non scusabili sono comunque comprensibili – incominciando un lavoro che nessuno ha mai fatto prima. A pag. 247. Riepilogando: categorie 1) Modi della con-presenza lì davanti con qualcosa di lì presente in se stesso. Vedete come già incominciavano ad avvertire che ciò che lì è davanti a me stesso è con-presente con altre cose, non c’è solo questo. È un modo per incominciare a capire, a porsi delle domande. 2) In esse è determinato il modo di essere del possibile “essente-con”. 3) Questo modo di essere è sempre, tra l’altro, già compreso in ogni concreta indicazione dell’ente in quanto questo e quest’altro. “Qualcosa in quanto questo” articola l’essere-con,… Quando dico che questo è in quanto è questo, già sto ponendo un qualche cos’altro, dicendo che questo è questo, è già con qualcos’altro. …e ciò significa che il modo di essere espresso nella categoria è il possibile contenuto di un punto di vista. Cioè: ci sono altre cose. Tale punto di vista è costitutivo per la possibilità dell’asserzione. In quanto “rosso”, in quanto là in vista del ποιόν (produzione, creazione), πού. 4) Il punto di vista costituisce quindi il filo conduttore per la comprensione dell’essere di ciò che è attribuito all’ente, che sta nel predicato, e precisamente κινόν (insieme). Le categorie sono dunque i predicati più generali. Appunto come dicevamo la volta scorsa, κατηγορεν sono ciò che i medioevali chiamavano prædicamenta, ciò che si predica di qualche cosa. Resta decisivo il senso ontologico… Quale senso diamo all’essere. …modi della con-presenza lì davanti, a) differenti fra loro, non riconducibili, b) non sussumibili sotto un genere superiore, ma nemmeno mescolati in una molteplicità confusa, giacché, al contrario, sono categorie in virtù del loro riferimento all’ούσία, il quale 1) è essenziale a tutte; 2) è diverso in ciascuna. Qui è interessante la nozione di ούσία, perché quasi allude all’ούσία come ciò che permane. Che cos’è ciò che permane? È l’atto, il fatto che sto parlando: questo è ciò che permane, questa è la sostanza. L’essere come presenza lì davanti in generale è polisemico: 1) lì presente in se stesso; 2) lì con-presente, “insieme-con” nei diversi modi. Qui c’è un richiamo a pag. 290. Le categorie non sono “concetti reali”, bensì un reticolo in cui tutti i concetti reali vanno riportati. L’idea di intendere l’ούσία, la prima categoria di Aristotele, come reale è falsa. È falsa perché non è un concetto reale, è un reticolo linguistico. Fa venire in mente la definizione che dava Hjelmslev di oggetto: intersezione di un fascio di relazioni. Non vi vengono descritte le cose nella loro reale fattezza, né si tratta di concetti di genere già di per sé saldamente determinati, bensì della condizione della possibilità di generi in generale. Cioè: la condizione della loro pensabilità. No, sono piuttosto struttura della realtà in generale! Qual è il significato dei predicati più generali? Κατηγορίαι τού ντοϛ (le categorie degli enti) non riferite primariamente all’asserzione e agli elementi dell’asserzione, bensì all’ν. Certamente, ma come? Modi dell’essere in generale. Infatti, l’ente è scoperto nel λόγοϛ. In quanto tali, esse sono i fondamenti per i possibili riferimenti, che a loro volta sono i fili conduttori per la comprensione concreta del possibile “in quanto che cosa”. Prima vi dicevo che sono le condizioni della pensabilità, cioè le condizioni dei possibili riferimenti, delle relazioni. L’ente è accessibile nel λόγοϛ, e per questo i caratteri dell’essere sono κατηγορίαι. Prende forma qui una determinata concezione del problema dell’essere in generale, cosa che noi non comprendiamo più quando facciamo uso di categorie. A pag. 251. Ον κατά συμβεβηκόϛ – “accidentalità”, “contingenza”. È una delle modalità di Aristotele. Κατά συμβεβηκόϛ εναι (l‘essere secondo contingenza, l’essere contingente), “ciò che capita talvolta, a caso, non come τέλοϛ (fine). Non come fine, cioè, non finalizzato. Non è “niente”, ma nemmeno essere autentico, e tuttavia è indubbiamente importante per la comprensione del concetto aristotelico, e greco, dell’essere in generale. Se non è finalizzato, se non c’è un τέλοϛ, se non va verso un qualcosa, non è niente. In base all’essere non autentico si chiarifica che cosa si concepisce in quanto essere autentico, come lo si intende. Nel suo senso più ampio, έπίσταμαι significa “intendere”, “essere” che se ne intende “riferito a”, avere pratica orientata dell’ente: ad esempio, la costruzione di una casa. L’essere è anche questo, un orientamento. Per Heidegger l’esserci è l’essere nel progetto, un progetto-gettato. A pag. 254. Dovete cogliere tutti questi aspetti come problemi da affrontare. Intendere, percorrere percependo, non semplicemente dare un’occhiata, bensì penetrare osservando, διανοεσθαι. La congiunzione e la disgiunzione si compiono nella διάνοια (ragionamento). Qualcosa in quanto qualcosa… Vedete che c’è già congiunzione e disgiunzione, perché il qualcosa è quello che è, ma in quanto qualcosa, cioè, in quanto disunito da sé. E qui c’è tutto Hegel, che verrà dopo. …come struttura “non nelle cose” stesse, bensì struttura del comprendere e dello scoprire, dell’essere scoperto e dell’essere coperto, costituita mediante il rapporto e nel rapporto con l’ente scoperto stesso. Qualcosa in quanto qualcosa è già presente allora, non è nelle cose stesse, non sono loro in quanto qualcosa, ma nella struttura del nostro comprendere. Poi, su questo si è basato Kant, ecc., però era già tutto lì. La scopertura non appartiene all’ente in sé, che può essere senza la scopertura e la copertura. Se ci sono la scopertura e la copertura, ci sono solo nella misura in cui c’è διάνοια. Nella misura in cui c’è comprensione. La scopertura non è possibile non soltanto senza l’essere dell’indicante (parlante), ma nemmeno senza l’essere dell’ente da indicare. Perché il parlante, dicendo, dice qualcosa. A pag. 261. Ciò che si muove… Sta parlando del movimento. Questione di cui Aristotele parla nella Fisica e anche nella Metafisica. Questione fondamentale perché il movimento è il movimento dialettico: da dove mi viene l’idea che qualcosa si muova, se non dal fatto che sto parlando, perché è parlando che c’è movimento e, quindi, posso pensare il movimento? Ciò che si muove è ciò che non si limita a far notare la sua presenza per così dire in sé, come fa ciò che è lì presente nella sua quiete, bensì la impone con insistenza, facendosi largo espressamente nella sua presenza: la presenza invadente di ciò che è mosso. Il fenomeno del passaggio reca in sé questa fluttuazione di “presenza e assenza”… La κίνεσιϛ è άτελήϛ. Il movimento non ha fine, non è finalizzato, non ha uno scopo, un obiettivo da raggiungere. Essa è bensì utilizzabilità, però quella della disponibilità. Utilizzabilità di ciò che è finito: ργον. Εργον è l’energia, l’atto. E qui è l’utilizzabilità, la questione dell’utilizzabile, che compare. Qui potremmo fare noi una nota e dire che in fondo tutta la ricerca, dai presocratici alla metafisica, è una ricerca di qualche cosa per vedere se è utilizzabile o un qualche cosa da rendere utilizzabile, per poterlo utilizzare per la volontà di potenza. A pag. 262. Ontologicamente fondamentale: δυνάμει νένεργέια ν (potenza e atto): disponibilità – utilizzabilità. Nel contempo gradi dell’essere. Movimento – attività. Gradi dell’essere: ένεργέια e ούσία. È curioso come certi termini greci richiamino lo stesso significato. È come se stessero cercando di determinare qualche cosa, come se stessero cercando il vero, l’autentico utilizzabile. Ancora non è deciso che cosa lo sia davvero. Per esempio, ένεργέια e ούσία, certo, l’uno è l’atto e l’altro è la sostanza, ma la sostanza, diceva prima, non c’è fuori dell’atto, è movimento stesso. La sostanza non è che il permanere di questo movimento, potremmo dire, della dialettica. L’ένεργέια come interpretazione radicale dell’ούσία. L’atto come il significato della sostanza. Δυνάμιϛ e ένεργέια sono nello stesso tempo possibilità fondamentali dell’ούσία. Lì presente – a portata di mano. Cioè, utilizzabile. Δυνάμει νένεργέια ν, possibilità e realtà. Possibilità che può essere fraintesa come mera possibilità, possibilità pura, ovvero concepita in termini negativi: “niente impedisce che la tal cosa possa essere”. Viceversa, la “possibilità” è da intendersi nel modus della presenza, dell’attitudine, della disponibilità a, dell’essere disponibile per, e tuttavia in riferimento all’a che, un non-ancora, στέρησιϛστέρησιϛ è la privazione, cioè, manca qualcosa, potrebbe essere ma ancora non è, ma sarà. …eppure non “niente”, non “non essere”, bensì “essere lì presente”. Come dire: è un utilizzabile che ancora non è utilizzato: questo è il concetto di δυνάμιϛ e ένεργέια, di essere in potenza e di essere in atto. La potenza, ci sta dicendo, non è una pura e astratta possibilità; no, è possibile, quindi, è già presente. Cosa vuole dire “già presente”? Che la potenza e l’atto sono due momenti dello stesso, che non può darsi l’uno senza l’altro. Realtà (Wirklichkeit), “essere lì presente” in quanto “essere in opera”. La realtà è un modus dell’essere, con il cui aiuto il movimento diventa ontologicamente concepibile. Viceversa, a esso stesso, in quanto carattere ontologico, appartengono la ζωή, l’opera, l’operare, il fare. Ζωή è anche vita; quindi, la vita è questo: operare, fare. Il “possibile” non è un non reale nel senso di ciò che in assoluto non è lì presente, bensì è non-reale in quanto non-operante. La realtà di ciò che è in quiete si comprende in base al movimento. Altrimenti non diviene affatto chiara. Vedete anche che tutte le cose che ci diceva Hegel, rispetto all’in sé, al per sé, a questo movimento dialettico, erano già qui. Questi due momenti che si riferiscono a Aristotele, potenza e atto. La potenza è già presente, non è qualcosa che bisogna aspettare che si manifesti; è già presente nell’atto. Potenza e atto sono due momenti dello stesso, esattamente come l’in sé e il per sé per Hegel. Non solo, ma questi due momenti hanno la loro integrazione (Aufhebung) nell’entelechia, cioè nell’integrazione di potenza e atto. A pag. 265. Εντελέχεια: 1) non solo presente in generale, 2) non solo mobile, άτελήϛ, άόριστον (indefinito), 3) bensì essente da sé… Questa è l’entelechia, che non è altro che l’atto puro di cui parla Gentile. …essente da sé, secondo la propria essenza, solo nell’operare. Ένεργέια τελεια, finita, eppure senza la cessazione della presenza invadente; πέραϛ (limite), eppure senza alcuna cessazione, giacché, al contrario, proprio in essa v’è essere. Ho visto e così vedo. Sono diventato felice e lo sono tuttora. L’ho vissuto e vivo ora così. Come dire che l’entelechia è l‘integrazione di potenza e di atto. Questo significa che la potenza e l’atto non esistono separatamente, se c’è uno c’è anche l’altro. Questo lo riprenderà anche Hegel, proprio in questi termini: qualcosa è in potenza, ma solo se c’è un atto che lo rende in potenza, sennò è niente; e la stessa cosa per l’atto. A pag. 267. Parla del tempo. In base al tempo: a) il tempo è eterno? L’essenza del tempo è l’ora. L’ora è “ora non più” e “ora non ancora”. Questo per mostrare meglio la questione della potenza e dell’atto: qualcosa che c’è, ma nel momento in cui c’è non c’è più, dilegua. Così come affermando qualcosa, mentre affermo, la cosa dilegua. A pag. 269. Il πρώτον κινούν… Il movimento principale. Sarebbe quello che Aristotele chiamava il primo motore. …non è esso stesso κίνεσιϛ (movimento)… Il primo motore non è movimento. …non è άτελήϛ (senza fine, senza scopo). Dunque è pura ένεργέια. È pura energia, è pura integrazione. Dunque, il primo motore, il motore immoto, è il linguaggio inteso come ciò che non ha una causa, non ha un fine. Qual è il fine del linguaggio? Perché c’è il linguaggio? Dov’è il fine? Il linguaggio crea il fine, ma non ha un fine, perché è la condizione per pensare qualunque fine. Nel contempo, il suo comportamento è tale da avere in se stesso un τέλοϛ in ciò che già esso e, quindi, non nell’ργον. Il fine è se stesso, il linguaggio non ha un fine fuori di sé, è lui stesso il fine. Non vi sono né un ργον né un τέλοϛ esterni, e non è nemmeno un oggetto matematico, bensì soltanto esso stesso: νόησιϛ νοήσεωϛ (la conoscenza fine a se stessa). Lo θείον (dio) va dunque inteso come fondamento ontico di ogni movimento, mai come fondamento originario di ogni essere nel senso di un’άρκή o addirittura di una creazione, bensì in quanto ultimo τέλοϛ del movimento eterno dell’essere. L’ultimo τέλοϛ, l’ultimo fine del movimento dell’essere è di essere se stesso; lì c’è la sua verità, per dirla alla Gentile: di essere se stesso e nient’altro che se stesso. A pag. 275. Qui affronta la questione della ψυχή. Ψυχή στι γάρ οον άρχή τν ζων, “essa è qualcosa come il fondamento dell’essere dell’ente che vive” (Aristotele, De anima). Questa è la psiché: il fondamento dell’essere in quanto vivente. L’essere in quanto vivente sarebbe l’esserci di Heidegger. Non forza isolata; non riconducibile ai principi della natura materiale, priva di vita; non somma e risultato di processi corporei, ma nemmeno qualcosa di separabile a sé stante. Nondimeno, fu proprio Aristotele a introdurre la dottrina della sostanza psichica, che in seguito è stata spesso osteggiata, da ultimo in modo dettagliato nella Critica della ragion pura di Kant, nel capitolo sui “Paralogismi della ragione pura”. Ma se tutto ciò fosse soltanto il frutto di un profondo fraintendimento del senso e della tendenza della dottrina aristotelica dell’anima? Come dire che occorre intenderla in un altro modo. In essa, infatti, si tratta così poco di una sostanza psichica – intesa nel senso di un soffio del corpo… ψυχή letteralmente è il soffio, il respiro, ma anche i fantasmi. Infatti, gli ψυχόι erano i morti. …che dimora da qualche parte al suo interno, svanendo in cielo al momento della morte – che si può dire sia stato proprio Aristotele a porre per la prima volta il problema dell’anima sul giusto terreno. …l’anima non è un ente (lo psichico) accanto al corporeo (il fisico), bensì è il modo di essere di un ente corporeo determinato, e precisamente nel senso che quest’ultimo, in virtù di tale essere, si distingue come vivente da ciò che è privo di vita. Il privo di vita è ciò che si pone oltre l’antitesi fra vita e morte, poiché la morte non è il privo di vita, bensì il non-vivente, ovvero una determinazione del vivente, così come la quiete è una determinazione del movimento. L’approccio positivo delle analisi di Aristotele mostra come egli, con la dottrina della ψυχή, miri a un’ontologia della vita. Ho letto questo perché qui pone la ψυχή come il primo tentativo di accennare alla differenza fondamentale tra Io e non-Io, tra Io in quanto esserci e il non-Io, che sarebbe fuori di me, che sarebbe tutto ciò che non sono io. A questo punto la ψυχή potrebbe anche intendersi come ciò che fa di me un parlante. Cos’è che fa di me un parlante? L’essere nel linguaggio, è il sapere di essere nel linguaggio. Come vi dicevo prima, sono tutte questioni che sono accennate e che dovranno poi articolarsi, perché sono le domande che gli antichi si facevano per potere utilizzare questi concetti. Ma utilizzarli per cosa? Per la volontà di potenza, cioè, per il superpotenziamento. Questa questione è importante perché ci consente di vedere queste cose in modo differente da come sono sempre state viste dalla filosofia, e cioè quei concetti come i fondamenti del pensiero, ecc. Non si tratta di questo ma di vedere questi concetti come degli utilizzabili, che sono stai posti lì per essere utilizzati e non per essere contemplati. A pag. 276. …la ψυχή è l’essere del vivente: rapportarsi a; dipendere da; essere scoperto. Questi sono tutti termini che appartengono a ψυχή. Essa non è lì con-presente, accanto, ma appartiene piuttosto alla vita stessa come ciò da cui, contro cui e in cui si vive. Il νούϛ è τά πάντα (il pensiero è tutto). Qui c’è Gentile. A questo punto possiamo porre la ψυχή come il pensiero in quanto tutto. È sicuramente un modo differente di porre la ψυχή da come è stata posta comunemente: psiche, da cui psicologia, psicoanalisi, ecc. Anche il termine ψυχή serviva agli antichi, era un utilizzabile, un utilizzabile per poter far lavorare i concetti al fine di dominarli. Era questo l’obiettivo finale, occorre averlo sempre presente: dominare il concetto e, quindi, dare a questo concetto una sorta di stabilità. Da qui la domanda intorno all’essere: tutti gli enti sono quelli che sono, ma tutti hanno un essere, a tutti appartiene l’essere, quindi, c’è qualcosa di stabile, e se c’è qualcosa di stabile li possiamo controllare, li possiamo dominare. Il problema è che questo essere non è così facilmente dominabile. Infatti, prima ne parlava come di una polisemia, cioè di un qualcosa che ha molti significati, molti rimandi, molti rinvii. Per cui è accaduto fin dagli inizi che più si cercava di dominare il concetto più questo concetto dileguava. Di questo si sono accorti gli antichi, del problema che è il linguaggio, problema nel senso che è da pensare, perché è l’indominabile, l’ingestibile, perché è il linguaggio stesso che produce questi concetti di indominabilità e di ingestibilità. Abbiamo detto varie volte, la volontà di potenza è il linguaggio stesso, il suo funzionamento è volontà di potenza. A pag. 278. L’anima è la presenza di questo poter-essere nel suo essere. La presenza di questo poter essere nel suo essere è l’entelechia, ma anche l’ούσία, è la sostanza, è il permanere dell’atto in quanto dialettico. “Prima” significa: ciò che rende possibile, cioè organizza, questo poter-essere. È in questo senso che l’anima è prima. …realtà, indipendenza: modo di essere che determina qualcosa di lì presente. Questo è sempre importante per i Greci: il modo di essere che determina qualcosa che è lì presente, perché io voglio dominare quel qualcosa che è lì presente, ché sennò non me ne importerebbe niente, né dell’essere né dell’ente, né della verità, né di nulla di tutto ciò. C’è una nota nell’Appendice, a pag. 416, punto 86. Dopo il declino della filosofia greca, questo alto livello di indagine non fu più uguagliato. Nell’età moderna Kant è tornato ad essere il primo greco, sia pure soltanto per breve tempo. Dalla nostra disanima è risultato che la domanda fondamentale sull’essere si è gradualmente emancipata da stadi preliminari primitivi. La prima comprensione della questione dell’essere si ha in Parmenide e in Eraclito; poi tale questione è posta metodicamente da Socrate e da Platone, per essere infine elaborata in modo complessivo da Aristotele. L’ontologia greca è un’ontologia del mondo… Questo significa che l’ontologia non è tanto il sapere dell’essere ma è per dominare il mondo. L’essere è interpretato come presenza e stabilità. È questo quello che volevano, che l’essere fosse presente e stabile, perché solo così lo si può controllare. Esso è concepito in base al presente, in modo ingenuo in riferimento al tempo in cui però il presente è soltanto un modo. Ma come mai il presente gode di questo privilegio? Il passato e il futuro non hanno il medesimo diritto? L’essere non deve forse essere concepito in base alla totalità della temporalità? Si tratta di un problema fondamentale sollevato dalla domanda sull’essere. Possiamo dire di avere compreso i Greci solo se torniamo a porre questa domanda, intesa nel senso dell’energico confronto nella controdomanda rivolta ai Greci stessi. Perché parlare solo del presente? Perché è l’unico che consente di potere realmente dominare qualcosa. Il passato non lo controllo più, il futuro non lo controllo ancora, ma il presente sì. Era semplice la risposta. Bisogna solo tenere conto che tutta questa ricerca millenaria non è altro che uno straordinario tentativo, così come lo è stata la metafisica, di controllare l’essere. Abbiamo finito il testo, ci sarebbe ancora l’Appendice, ma non dice più di quanto abbiamo già detto. Quello che è importante intendere è che dobbiamo trovare i modi in cui la volontà di potenza – quando parliamo di volontà di potenza parliamo di linguaggio, del suo funzionamento – ha determinato le prime domande del pensare. È la volontà di potenza ad averle stabilite. Infatti, come dicevo prima, perché l’essere, ecc.? Perché è ciò che deve essere dominato. Gli antichi hanno pensato che l’essere è ciò che è presente in tutti gli enti; quindi, se conosco l’essere conosco la causa e il principio di tutti gli enti, li domino. Solo che la metafisica è fallita, fallisce perché non tiene conto di questa divisione che si instaura parlando. La metafisica tenta disperatamente di ricucire questa divisione in modo da bloccare l’essere, ma non posso pensare l’essere se non come ente, e non posso pensare l’ente se non ci fosse l’essere che lo fa essere un ente. È questo il problema degli antichi. Come risolvere questa storia? Perché se è posta così, allora non c’è controllo, non controllo l’essere, che è ciò che fa dell’ente ente, e non lo controllo perché quando parlo dell’essere parlo dell’ente e, quindi, parlo già di un’altra cosa. Così come avviene sempre: quando parlo di un quid parlo già di un altro quid. Il passo che a questo punto dovremmo fare. Leggeremo L’essenza della verità, dove Heidegger riprende tantissime cose, però riarticolate, ripensate comunque, per cui c’è sempre qualcosa che si aggiunge, qualche cosa da pensare ancora. L’essenza della verità o l’essere, in fondo, sono lo stesso. Era importante quello che dicevamo rispetto a Platone, e cioè l’idea del bene. Il bene è il fine, il τέλοϛ a cui gli umani tendono. Ma cosa è bene per loro? Il bene è il compimento, il raggiungimento della verità, cioè la conclusione, perché la conclusione è il compimento della volontà di potenza, solo che questa conclusione è una conclusione “in quanto” rinvia a un’altra domanda. Ecco che, quindi, il bene è sempre da cercare, non è mai trovato, perché se lo trovo non è più bene. Mano a mano che procedo nella lettura soprattutto degli antichi, Parmenide, Eraclito, Anassagora, Empedocle, ritrovo le stesse questioni che la filosofia ha poste per duemilacinquecento anni, senza mai uscirne, aggiungendo qua e là vari orpelli, ma la questione rimane quella di Parmenide: l’essere è, il non-essere non è. Sembra una stupidaggine, ma non è così, perché su questo si è costruito il pensiero. Parmenide dice nel suo poema che questa è la via che devi percorrere – l’essere è, il non-essere non è – quella dell’essere; la via del non-essere ti sconsiglio di percorrerla, perché è la via del falso, del vacuo. Perché dice una cosa del genere? A che scopo? Perché è così importante attenersi all’essere? Perché nella sua idea l’essere era l‘unica cosa stabile, certa, fissa. Poi, come abbiamo visto, nascono i problemi nel momento in cui voglio determinare l’essere, perché a forza di determinarlo devo togliere tutte quelle cose che appunto sono determinabili, e ogni cosa che è determinabile è un ente e non l’essere; alla fine si svuota di tutto e non rimane nulla, per cui, ecco, l’essere è nulla. Ma anche dire che l’essere è nulla lo rende qualcosa. Quindi, è in effetti l’innominabile, l’indicibile, l’impensabile, ma se lo sto pensando ovviamente è pensabile. Questo avrebbe forse potuto fare intendere che le due cose, l’ente e l’essere, sono due momenti dello stesso. Ci è voluto Hegel, che tuttavia non ha posto la questione in questi termini, anche se ci è andato molto vicino. Non posso togliere un elemento all’altro, perché scompare anche quell’altro: se tolgo l’ente scompare anche l’essere. Non prendo in considerazione l’essere? E, allora, di che cosa parlo? Di niente, perché tolgo il concreto, tolgo ciò che rende l’ente quello che è. Cosa rende l’ente quello che è? Lo ha detto anche de Saussure: una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. È questa relazione differenziale con il tutto, cioè, con tutti gli altri significanti, cioè, con il linguaggio.

Intervento: Seguendo Parmenide, si potrebbe dire che la volontà di potenza si esercita nel momento in cui si esclude qualcosa, nel momento in cui si sceglie di escludere qualcosa.

Esatto. È su questo che si impianta la religione. Hegel diceva in modo esplicito che la religione separa, tiene separate le due cose: qui ci sono io e dio è altrove; oppure, io sono dio, lui è me, si fa confusione e non si sa più chi è buono e chi è cattivo, per ridurla in termini banali, non so più chi è il nemico, non so più chi devo combattere. E io sono soltanto se combatto qualcuno, cioè se identifico ciò che non sono io. Io mi riconosco perché la divisa degli altri è diversa, per cui so chi sono i nemici, e quindi io sono il buono.

Intervento: …

Sì. C’è voluto Hegel per intendere che l’uno e i molti sono le due facce della stessa cosa: l’uno non c’è se non ci sono i molti, e viceversa. Essendo molti li raggruppo in un concetto, che è uno. La volontà di potenza rende la necessità del nemico: devo espungerlo da me, separarlo, in modo da poterlo individuare, determinare. Un po’ come fa la scienza: per la scienza gli enti sono i nemici: li individua, li isola e poi li manipola, cioè li piega alla propria volontà, quantomeno cerca di farlo. La necessità del nemico è fondamentale. È la questione, posta da Hegel, della dialettica, cioè della presenza simultanea degli opposti, e cioè che l’essere non c’è senza il non-essere, che il buono non c’è senza il cattivo. Il buono, per essere tale, ha bisogno del cattivo, per la sua stessa esistenza, sennò non esiste.