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13 giugno 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Stiamo avvicinando un momento importante dove sono in gioco cose notevolissime rispetto al nostro progetto. Heidegger dice che la noia è un lasciare vuoti e un lasciare in sospeso. Ora, se ci pensate bene, vi rendete conto che l’essere lasciati vuoti e l’essere lasciati in sospeso non è altro che il funzionamento del linguaggio, né più né meno. Già la semiotica ce lo diceva: l’essere lasciati vuoti, cioè, la totalità non è raggiungibile, il tutto non è raggiungibile, perché ciascuna volta mi occupo soltanto di qualcosa di particolare, di un ente; il lasciare in sospeso: la ricerca del tutto mi lascia in sospeso ed è gettata in avanti rispetto al passo successivo. Quindi, riprendendo una cosa già detta, la metafisica come il concetto universale totalizzante: il concetto è quella cosa che dovrebbe puntare al tutto, ma il tutto non ce l’ho, ho qualcosa che allude al tutto. Quando concettualizzo qualche cosa, trasformo degli elementi in un concetto, fatto appunto di tanti elementi che cerco di cogliere come un tutto, ma il cogliere un concetto mi porta a un’astrazione, mi porta a un’universalizzazione, questo universale non è propriamente un qualche cosa, non lo posso maneggiare, manipolare, ecc., è un qualche cosa che costruisco e, costruendolo come tale, non ne ho il controllo totale, perché, per esempio, posso sempre concettualizzare in un altro modo, cioè, non ho mai il tutto, non abbraccio mai il tutto. Questo è il concetto, cioè il qualche cosa che parlando viene fissato per potere procedere, per potere essere un utilizzabile, anche se questo utilizzabile è limitato perché vorrebbe essere un tutto che non è mai un tutto. Da qui uno dei tre concetti, il mondo, cioè la totalità degli enti; la finitezza, perché incontro il mondo in modo finito, il mio colpo d’occhio non coglie tutto, la totalità degli enti, presenti, passati e futuri; da qui la solitudine. Ecco quindi i tre concetti metafisici fondamentali di Heidegger: mondo, finitezza e solitudine. Mondo: la totalità degli enti; finitezza: questa totalità non riesco mai a coglierla, non riesco mai ad appropriarmene. Voglio appropriarmene perché sono animato dalla volontà di potenza, perché altrimenti non me ne importerebbe nulla. La volontà di potenza è il motore; voglio appropriarmi del tutto: e perché dovrei? La domanda è legittima ma voglio farlo perché sono animato dalla volontà di potenza, cioè, dalla necessità che ha il linguaggio di fermare un qualche cosa per potere andare avanti; lo coglie, certo, ma non in quanto tale, lo coglie come costruzione che gli serve per proseguire. Da qui la finitezza, perché io posso utilizzare soltanto un utilizzabile, non tutti gli utilizzabili, presenti, passati e futuri. Infine, la solitudine: mi trovo a essere solo, come dice Heidegger, abbandonato dagli enti, cioè, gli enti non sono a mia disposizione. Da qui la solitudine. Tutto questo porta a una considerazione, e cioè che la metafisica a questo punto non è nient’altro che la necessità di concettualizzare, di ridurre a unità una serie di particolari per poterli maneggiare. Se mi rivolgo a un ente, a un utilizzabile qualunque, per poterlo utilizzare devo sapere che cos’è, non tanto per chissà quale curiosità ma semplicemente per sapere come utilizzarlo - questo posacenere non lo uso per andare da qui a Venezia, lo uso per un altro scopo – devo sapere, quindi, che cos’è, devo concettualizzare questo aggeggio per poterlo utilizzare. Quindi, per potere utilizzare un elemento, soprattutto un elemento linguistico, deve essere concettualizzato, deve essere universalizzato, dev’essere, quindi, metafisico, totalizzante. Se volete una definizione: la metafisica è la concettualizzazione totalizzante. Ma questa concettualizzazione totalizzante, la metafisica, ha un uso: utilizzando degli utilizzabili posso fare un passo ulteriore, posso proseguire nel progetto, mettere in atto un progetto, qualunque esso sia. Quindi, la questione essenziale intorno alla metafisica – badate bene, che le cose che sto dicendo le sto dicendo io, non le dice Heidegger – è qualcosa di fondamentale, che riguarda il funzionamento stesso del linguaggio. Quando lui parla di mondo, finitezza, solitudine, sta dicendo che cosa accade quando parlo. Accade che il mondo, la totalità degli enti, degli utilizzabili, di tutti questi ne posso utilizzare solo qualcuno; da qui la finitezza con cui ho a che fare; e da qui la solitudine, perché dagli enti che non posso utilizzare sono abbandonato. È, quindi, un altro modo per pensare la questione della metafisica come questione del linguaggio, anche muovendo dai termini che utilizza Heidegger, mondo, finitezza e solitudine. Siamo a pag. 139. In qualche modo il tempo esitante le nega la possibilità di offrirci qualcosa. Si riferisce alla stazione. La stazione si nega perché il tempo nega ad essa qualcosa. Esso la esclude, ma tuttavia non la può eliminare, cosicché ora proprio in questo non-offrire-ancora-nulla, in questo negarsi, nel farci aspettare, essa diviene, proprio a causa di ciò più invadente, più noiosa. Di quali cose è mai capace il tempo! Esercita il suo potere sulle stazioni e fa sì che queste annoino. D’altra parte viene in luce come il tempo per sé, il mero scorrere, non sia noioso; il venir-annoiati è piuttosto questo essenziale essere-tenuti-in-sospeso nel venir-lasciati-vuoti, è dunque il fatto che determinate cose possono essere di vota in volta codeterminate da un tempo determinato, per ciò che esse ci offrono o meno e nel modo in cui ce lo offrono, che possono avere di volta in volta il loro tempo determinato. Le cose possono lasciare-vuoti soltanto unitamente al tenere-in-sospeso, che proviene dal tempo. Per qualche verso, tutto questo si lega a ciò che dicevo prima. Dice Le cose possono lasciare-vuoti soltanto unitamente al tenere-in-sospeso, cioè, il mondo, la totalità, lascia vuoti perché ci si rende conto della finitezza, ma questa finitezza, questo essere lasciati vuoti, procede perché si è lasciati in sospeso in attesa che qualcosa colmi, che arrivi finalmente il significato ultimo delle cose. Non è il tempo in quanto tale che ci lascia in sospeso… lo diceva bene da qualche parte Heidegger: il tempo è sempre tempo per…, anche il tempo è un utilizzabile, il tempo è sempre per qualche cosa, per fare qualche cosa, per concludere, per giungere alla conclusione dove finalmente ho il possesso, il controllo della cosa. A pag. 141, Capitolo Terzo, La seconda forma di noia: l’annoiarsi di qualcosa e lo scacciatempo ad essa relativo. § 24. L’annoiarsi di qualcosa e il tipo di scacciatempo ad esso correlato. Sottoparagrafo a) L’esigenza di cogliere la noia in modo più originario per comprendere il rapporto di reciproca connessione tra l’essere-tenuti-in-sospeso e l’essere-lasciati-vuoti. Cogliere, quindi, qualcosa di essenziale nella noia. Perché ad Heidegger interessa così tanto la noia? Perché la noia coglie questo vuoto, questo essere tenuti in sospeso in attesa di qualche cosa, la condizione principale per intendere in modo più appropriato la questione della metafisica. Non ha torto, in effetti: la noia intesa in senso strutturale, e cioè come l’impossibilità di trovarsi nel pieno e di non essere in sospeso; essere nel pieno, cioè nella totalità del mondo, sottomano, controllata, e quindi non essere più in sospeso perché ormai ho raggiunto quello che volevo, raggiunto qualcosa che è immobile, eterno. Qui ci sarebbe da aprire una parentesi intorno a Severino ma la faremo in un altro momento. Stiamo considerando la noia, e precisamente quella determinata forma di noia che definiamo terminologicamente come venir-annoiati da qualcosa. Questo qualcosa è indeterminato, non c’è nulla di particolare, di determinato, che sta annoiando. Abbiamo tentato di porre in evidenza in essa due momenti strutturali, e di interpretarli più da vicino; in primo luogo l’essere-tenuti-in-sospeso dal corso esitante del tempo, e poi, unitamente, il venir-lasciati-vuoti dalle cose e dai singoli enti che ci circondano nella situazione noiosa più sopra considerata. Venir-lasciati-vuoti dalle cose e dai singoli enti, che abbandonano. Ci siamo domandati in che cosa consista questo lasciar-vuoti, e abbiamo visto che, perché l’ente ci possa lasciar vuoti in questo modo caratteristico, nel senso dell’annoiarci, deve sussistere. Lasciar-vuoti non significa essere assente di qualcosa, bensì è un modo determinato del sussistere conformemente al quale le cose ci negano qualcosa, non in senso generale, universale e indeterminato, bensì qualcosa che noi spontaneamente ci attendiamo in tali circostanze all’interno di una situazione determinata. Questi enti ci abbandonano intanto perché ci sono e poi ci abbandonano perché non si mostrano a nostra disposizione. Cosa ci fa immediatamente pensare questa cosa? Che non sono sotto il nostro controllo. Qualunque ente che non sia sotto il mio controllo mi abbandona, perché non è mio, non lo posseggo. Da ciò prende le mosse la caratterizzazione di ciò-che-lascia-vuoti, caratterizzazione secondo la quale quest’ultimo si trova in una qualche connessione con il primo momento, con ciò-che-tiene-in-sospeso. Infatti questa stazione noiosa, nei cui dintorni ci annoiamo aspettando il treno, non ci annoia in quanto stazione, sic et simpliciter, bensì in quanto si trova in circostanze determinate dal fatto che il momento dell’arrivo del treno non si è ancora verificato. Questo ente, cioè, non mi si offre nel modo in cui io voglio che si offra. E perché voglio che si offra in un certo modo? Perché devo prendere il treno? Sì, anche, ma se non si offre nel modo in cui voglio che si offra, io non lo controllo. Andiamo a pag. 145. Fa l’esempio di un secondo tipo di noia e descrive una situazione. Siamo invitati da qualche parte per la sera. Non siamo obbligati ad andarvi. Ma siamo stati tesi e impegnati tutto il giorno, e per la serata abbiamo del tempo libero. Così ci andiamo. C’è la solita cena con la solita conversazione a tavola, tutto è non soltanto molto buono, ma anche di buon gusto. Poi, come si dice, si sta insieme in allegria, si ascolta magari della musica, si chiacchiera, l’atmosfera è vivace e divertente. È già ora di andare via. Le signore, non solo al momento dei saluti, ma anche a piano terra e per strada, quando ci si ritrova per proprio conto, assicurano che tutto è stato veramente molto piacevole, oppure che è stato terribilmente incantevole. In effetti è così. In questa serata non si trova proprio nulla che possa essere stato noioso, né la conversazione né la gente né i locali. Si ritorna dunque a casa pienamente soddisfatti. Si dà ancora una rapida occhiata al proprio lavoro, interrotto la sera, si fa un calcolo approssimativo e una rapida previsione per il giorno successivo, - ed ecco qui: questa sera mi sono proprio annoiato di questo invito. Ma come? Con tutta la buona volontà non riusciamo a trovare nulla che ci abbia annoiato. Eppure mi sono annoiato. Ma di che cosa? Io mi sono annoiato; per caso, in qualche modo, ho annoiato me stesso? Sono stato io la causa della mia noia? Ci ricordiamo però in modo inequivocabile che non solo non c’era nulla di noioso, ma che io non mi sono neppure per un attimo occupato di me stesso, in una qualche estemporanea riflessione fra me e me, di cui ci sia stato un presupposto. Al contrario ero completamente presente nella conversazione e in tutto il resto. Ma non diciamo neanche: mi sono annoiato di me, bensì della serata a cui sono stato invitato. Vedete, qui c’è già una traccia per dirci qual è la questione. Heidegger dice che è stato preso dagli enti e che non c’è mai stato un momento in cui sia stato preso da se stesso, preso dai suoi pensieri, dalle sue questioni. Diciamola così, tirandola un po’: non c’è mai stato un momento in cui l‘esserci sia rivenuto a se stesso, ma è sempre stato preso da questi altri enti che lo circondano. E qui, in questa annotazione, c’è già tutta la questione: la noia interviene là dove io sono preso dagli enti, dalla chiacchiera, e non mi rivolgo all’esserci, al progetto in modo autentico. O forse tutto questo dire a posteriori che mi sono veramente annoiato, è soltanto un inganno, che deriva da una tardiva irritazione dovuta al fatto che ho sacrificato e perduto questa serata? No, è chiarissimo: ci siamo annoiati, anche se tutto è stato così piacevole. O forse è proprio di questa piacevolezza della serata che ci siamo annoiati? Detto questo, facciamo un piccolo salto e andiamo a pag. 151. Sottoparagrafo a) del § 25. Delineazione generale delle due forme di noia nelle loro differenze reciproche dal punto di vista di ciò che è noioso: il noioso determinato e quello indeterminato. Il primo caso è quello del treno; il secondo è indeterminato perché non c’è un motivo preciso. L’apparente mancanza dell’essere-tenuti-in-sospeso e dell’essere-lasciati-vuoti nella seconda forma di noia. Notate che dice apparente mancanza. Dunque, leggiamo. Nel primo caso di noia ciò che è noioso è chiaramente questo e quello, questa stazione, la strada, la regione. Non si può mettere in dubbio che in quella forma di noia ciò che è noioso sia questo, anche se continuiamo a non capire bene come ciò sia possibile. Annoiati da…: dimenticati e tenuti in sospeso da… Nel secondo caso non troviamo nulla di noioso: Cosa significa ciò? Non diciamo di venir annoiati da questo o da quello; al contrario, troviamo addirittura che intorno a noi non c’è proprio nulla di noioso. Più precisamente, non siamo in grado di dire che cosa ci annoi. Dunque, non è che nel secondo caso non ci sia affatto nulla che ci annoia; ciò che annoia ha piuttosto questo carattere del “non so cosa”. in questa forma di noia lo abbiamo dinanzi a noi in modo inequivocabile, senza bisogno di riflettere e cercare esplicitamente: ciò che ci annoia è questo “non so cosa”. poiché di ciò siamo sicuri, con la medesima sicurezza possiamo rispondere ad una eventuale domanda su che cosa ci annoi: non questa stanza, non queste persone, non tutto questo. Ma in quella situazione non ci viene posta tale domanda, né da altri né da noi stessi, bensì nella situazione suddetta ci annoiamo. Ci lasciamo trascinare in questa singolare indolenza nei confronti di questo “non so cosa”. Andiamo a pag. 155. Ciò che annoia non è né questo né quello, bensì un “non so cosa”. Ma potrebbe essere questo indeterminato qualcosa di sconosciuto ciò che dovrebbe lasciarci vuoti. Così, proprio in riferimento ad esso, avremmo un essere-lasciati-vuoti in questa forma di noia. Riflettiamo: siamo forse abbandonati dall’ente in questa situazione? Propriamente no. Perché ciò si verificasse e fosse possibile, noi dovremmo darci da fare e cercare di venire colmati dalle cose nel senso che abbiamo indicato. Ma qui manca per l’appunto quella inquietudine del cercare-con-lo-sguardo… Non cerchiamo, al contrario siamo presenti presso tutto ciò che si svolge, e ne partecipiamo al fluire. Questo è un comportamento peculiare e forse caratteristico dell’intera situazione questo esser presenti che partecipa al fluire, un lasciarsi catturare da ciò che sta succedendo. Come stanno le cose rispetto a questa indolenza? In questo lasciarsi andare alla chiacchiera, agli enti? In che rapporto sta con l’essere-lasciati-vuoti nel primo caso? Possiamo dire che, nei confronti dell’esser-lasciati-vuoti, l’indolenza del prender-parte è un esser-colmati, perché consiste in un lasciarsi catturare? Si chiede: perché questa indolenza consiste nel lasciarsi catturare dalle cose? Dopo tutto, se sono catturato dalle cose, non dovrei annoiarmi. Tutta l’industria che esiste perché le persone non si annoino ha proprio questa funzione: catturare le persone per non farle annoiare, per focalizzare la loro attenzione su una qualunque cosa. Oppure dobbiamo dire che questa indolenza è un essere-lasciati-vuoti che diviene più profondo? In che senso? Nel senso che, come già la denominazione dovrebbe indicare, in questa indolenza ci abbandoniamo all’esser-presenti nella serata. Indolenza significa letteralmente non dolore, cosa che qui non c’entra nulla. Indolenza qui è l’abbandono, il non avere voglia di fare cose e il farsi prendere dalla chiacchiera, il farsi travolgere dalle cose che circondano. L’essere-lasciati-vuoti non si ha ora solamente nella mancanza di pienezza e a causa di essa… Vedete che anche qui l’essere lasciati vuoti lo mette in connessione con la mancanza di pienezza, del mondo, della totalità delle cose. …nel negarsi di questo o di quell’ente, bensì sorge dal profondo, perché il suo proprio presupposto, la ricerca di un esser-colmati dall’ente, viene prioritariamente impedita da tale indolenza. Non può neppure iniziare. Anche in questo caso ciò che annoia ha il carattere del lasciare-vuoti, ma tale da sferrare il suo attacco più in profondità: è un impedire quella ricerca, è l’estendersi della indolenza. Di conseguenza, anche se in modo vago e indeterminato, l’esser-colmati nell’esser-presenti si manifesta come illusione (una particolare insoddisfazione!) – come uno scacciatempo che, più che scacciare la noia, la testimonia e la fa esser-ci. Ci sta dicendo che in questo esser lasciati vuoti dagli enti… Esser lasciati vuoti, perché? Perché questi enti non hanno una loro utilità nel progetto, è un lasciarsi andare agli enti così come ci si lascia andare alla chiacchiera. È in questo senso che l’ente mi lascia vuoto: perché non ha un suo utilizzo nel mio progetto. Andiamo a pag. 158. Qui si riferisce all’esempio della serata. Qui invece siamo presi non da questo o da quello, ma da tutto, e dunque siamo colmati. Siamo presi, si chiacchiera, si beve, ecc. Lo siamo davvero? Cosa significa ciò? Significa che il nostro intero fare e lasciar-fare sarebbe colmato da questa serata. Ma è evidente che le cose non stanno in questo modo. Ragionevolmente non si può pretendere neppure dalla più brillante delle manifestazioni, di essere in grado di colmare la decisione dell’intero nostro esser-ci in modo tale da poter regolare la nostra esistenza sulla base di una simile occasione. Cioè, non c’è un evento tale da essere fondamentale per la nostra esistenza. Non è neppure pensabile che cose del genere ci colmino e ci determinino al punto che il nostro essere o non essere dipenda da esse. La serata non corrisponde a quanto noi, pur senza saperlo chiaramente, cerchiamo autenticamente per il nostro proprio sé. Più precisamente in una serata non cerchiamo proprio niente. È questo il punto, in questa frase: non cerchiamo proprio niente; cioè, non siamo in causa, non siamo chiamati nel progetto, non c’è nulla che ci prenda profondamente, che ci coinvolga autenticamente. Non cerchiamo niente, ed è proprio qui il problema: ci siamo andati appunto per passare la serata. La serata stessa qui funziona da scacciatempo, un po’ come il contare gli alberi alla stazione; funziona da scacciatempo ma non lo scaccia per niente, anzi, alla fine annoia a morte. Non possiamo, né vogliamo propriamente esser colmati, ma neppure essere lasciati vuoti. In questa serata non si sa cosa si vuole. Così prendiamo parte, partecipiamo al fluire, magari sotto forma di un riposante rilassamento. Ma l’elemento decisivo nel nostro comportamento è proprio questo non-cercare-nient’altro nella serata. Come diceva prima, non cerchiamo niente, siamo lì. Con questo non-cercare-nient’altro, è impedito qualcosa. Ecco, qui arriva alla questione. In questo con-fluire con ciò che sta succedendo, abbiamo legittimamente, non ingiustamente o a nostro danno, lasciato in un certo senso alle spalle il nostro sé autentico. In questo non cercare altro, che per noi è ovvio, noi stessi in un certo senso ci scivoliamo via. Ci dimentichiamo di noi; Heidegger direbbe che ci dimentichiamo dell’esser-ci, così come accade quando si è presi nella chiacchiera. In ciò è insita una peculiare indolenza, in un duplice senso: in primo luogo nel senso dell’abbandonarsi a quanto sta succedendo; in secondo luogo nel senso del lasciarsi alle spalle, vale a dire, lasciare alle spalle il proprio sé autentico. Il proprio sé autentico non è altro che l’esser-ci che riviene a se stesso, cioè che incontra se stesso in quanto progetto e, in quanto progetto, sempre spostato – per questo diceva in Essere e tempo che incontra il nulla, il fondamento dell’esser-ci è il nulla. … Anche qui, in questa forma di noia, troviamo dunque un esser-lasciati-vuoti, una forma dello stesso essenzialmente più profonda rispetto alla forma precedente. Quella della stazione. Là l’esser-lasciati-vuoti consisteva semplicemente nel non verificarsi della pienezza. La pienezza in questo caso è l’arrivo del treno. Consisteva nel fatto che determinate cose, nelle quali cercavamo un passatempo e una occupazione, si negavano. Qui invece non rimane semplicemente non-colmato un vuoto, bensì un vuoto si forma per la prima volta. Questo vuoto è l’essere-lasciato–alle-spalle del nostro sé autentico. Questo vuoto che si forma è questo “non so cosa” – ciò che, in misura maggiore oppure minore, ci tormenta. Qui incomincia a prendere forma tutta la questione di cui parla Heidegger e che lo interessa particolarmente, e cioè che cosa accade nella noia, in questo essere lasciati vuoti: ci si dimentica di ciò che autenticamente siamo ciò che autenticamente ci interessa, in altre parole, si abbandona il progetto, quel progetto che fa dell’esser-ci quello che è. Andiamo a pag. 162. Parla del tempo. Non si mostra come tempo che scorre o che preme, eppure si mostra: in che modo dunque? In un modo tale che sembra non esserci. Si mostra e non scorre: sta fermo. Quando uno è preso da queste cose, serata, sigaro, brandy, ecc., il tempo sta fermo; in questa indolenza, in questo fluire, il tempo è come se si fermasse. Ma ciò non significa proprio per niente che sia scomparso: anzi, questo star-fermo del tempo è il tenere-in-sospeso più originario, e cioè l’opprimere. Questo tempo che sembra non scorrere, stare fermo, ci opprime. Perché? Lui non lo dice propriamente, ma opprime perché non viene utilizzato, cioè non è un utilizzabile – anche in questo caso il tempo è un ente – non è un ente che mi si offra in quanto utilizzabile e, quindi, mi abbandona, mi lascia vuoto. A pag. 165. Riprende il secondo esempio. Ma cosa significa che in questa situazione siamo interamente presenti? Ciò vuol dire: non ci rivolgiamo a ciò che, a come e a dove siamo stati, l’abbiamo dimenticato. Interamente-presenti, non abbiamo tempo neppure per quello che magari ci siamo prefissi per il giorno dopo o per un altro momento, per ciò a cui siamo decisi o indecisi, per ciò per cui ci adoperiamo, per ciò che ci aspetta, per ciò dinanzi a cui scantoniamo. Interamente-presenti per quello che accade, siamo recisi dal nostro esser-stati e dal nostro avvenire. È come se fossimo in una bolla senza tempo, in cui tutto è in sospeso, il nostro progetto, la nostra vita; tutto sospeso in una bolla dove non succede nulla se non cose che ci prendono ma neanche poi tanto. Questo essere-amputati del proprio esser-stati e del proprio avvenire non significa una effettiva rimozione ed espulsione dei medesimi, bensì un peculiare dissolvimento dell’avvenire e dell’esser-stati nel mero presente, una modificazione di esser-stato e avvenire. È come se in questa bolla evaporassero. Esser-stati e avvenire non vanno perduti, non è che non ci siano affatto, ma si modificano nella maniera particolare del concatenarsi nel mero presente, cioè nel mero prender-arte presentificante. Proprio per questo il tempo durante il quale siamo in tal modo “presenti” giunge a fermarsi – non un tempo qualsiasi, bensì il tempo che-dura durante il presente della serata. Il durare dell’“ora” è adesso sbarrato contro il passato. Perché in questa bolla non c’è né passato né futuro, c’è soltanto un presente che fluisce ma quasi immobile, pur fluendo è fermo. L’“ora” non si può più mostrare come il “prima”; con l’esser-stati che è stato dimenticato, è chiuso il possibile orizzonte per ogni “prima”. L’“ora” può rimanere soltanto “ora”. Come se fosse un’“ora”, un “adesso” astorico, dove io non ci sono più, perché io sono storico. Se io tolgo la storicità a questo “ora” anch’io scompaio. Da qui il problema della noia. Ma l’“ora” non può neppure mostrarsi come il “poi”, come ciò che deve ancora venire. Non può venire nulla, perché l’orizzonte dell’avvenire è dissolto. Sbarramento del passato ed esser-vincolato dell’avvenire non eliminano l’“ora”, ma gli tolgono la possibilità di passare dal non-ancora al non-più, lo scorrere. Sbarrato e slegato da entrambi i lati, esso si blocca nel suo star-fermo che permane e, nel suo bloccarsi, si dilata. Senza la possibilità del passaggio gli rimane soltanto il mantenersi – esso deve restare fermo. Non c’è più storia, non c’è più progetto, non c’è più niente. In questa bolla in cui ci si trova, dove non c’è né passato né futuro, c’è sempre un presente ma che è dilatato, è come un “ora” che è diventato tutta la serata. Andiamo a pag. 168. Ma con questo abbiamo espresso la comprensione decisiva, che fino a ora abbiamo cercato: la comprensione dell’unità dei due momenti strutturali dell’essere-lasciati-vuoti e dell’essere-tenuti-in-sospeso. Che sono le due facce della stessa cosa. Quell’accenno che ho fatto all’inizio mostra, di fatto, che sono la stessa cosa, come il significante e il significato, il concetto e ciò che il concetto rappresenta, il segno e ciò di cui il segno è segno, cioè un altro segno: sono un’unità, non esistono separatamente, non c’è un segno che sia separato dagli altri segni, non sarebbe un segno. Queste non sono due cose giustapposte casualmente l’una all’altra, bensì l’esser-lasciati-andare in questo peculiare confluire è un presentificare quanto vi accade. Interamente-presenti, noi facciamo fermare il tempo. Il tempo che si è venuto a fermare, forma un vuoto che si apre proprio sullo sfondo di tutto ciò che accade. È come un vuoto che pervade tutto, è un vuoto perché non siamo più interessati agi enti, noi ci lasciamo prendere da questo fluire delle cose ma non c’è nessun utilizzabile, non c’è nessun progetto. Ecco perché gli enti ci hanno abbandonato e ci hanno lasciato il vuoto. Ma questo vuoto che si forma, è al tempo stesso, ciò che ci deferisce… Qui usa il termine deferire proprio in senso giuridico, cioè l’esserne chiamati in causa, risponderne, essere citati, devi rispondere di ciò che fai o hai fatto. …che ci vincola a sé, che ci tiene in sospeso in questo modo, come il nostro proprio sé dimenticato da noi stessi, dal quale scivoliamo via. È come se questo vuoto ci accusasse, come se dicesse: guarda che stai perdendo tempo, non stai facendo niente, tutto ciò che t’interessa, tutto ciò che sei, è sospeso e, quindi, in questo momento sei niente. L’unità strutturale dei due momenti si fonda nel presentificante far-fermare il tempo che ci siamo presi. L’essenza unitaria della noia nel senso della struttura unitaria dei due momenti dobbiamo dunque cercarla nel tempo. Solo, non nel tempo in senso generale e universale, come lo conosciamo, bensì nel modo e nella maniera in cui noi ci rapportiamo al tempo conosciuto, in cui esso sta nel nostro esser-ci, in cui questo stesso esser-ci è temporale. Il tempo di cui noi siamo fatti, il nostro passato e il nostro futuro, cioè, il progetto che propriamente siamo. È questo il tempo che viene sospeso; quindi, viene sospeso l’esser-ci e, di conseguenza, io. La noia scaturisce dalla temporalità dell’esser-ci. Questa noia scaturisce dal fatto che l’esser-ci è tempo. Ma qui sta parlando della noia strutturale. È in questa noia che è possibile accorgersi, diciamola così, della struttura del linguaggio. È la noia, cioè questo essere lasciati vuoti e questo essere lasciati in sospeso. Essere lasciati vuoti, cioè, la totalità non la colgo se non nel particolare; l’essere lasciati in sospeso, perché progetto che io ho costruito è tale in vista di un’altra cosa, in relazione con un’altra cosa, rinvia a un’altra cosa. Anticipando, possiamo dunque dire che la noia sorge da un modo e da una maniera ben determinati di come la nostra propria temporalità si temporalizza. Questo coincide con la tesi che abbiamo espresso in precedenza, cioè che la noia è possibile unicamente perché ogni cosa, e in modo più sostanziale ogni esser-ci in quanto tale ha il suo tempo.