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13 marzo 2024

 

Aristotele Fisica

 

191a, 25. Si mostri, invece, da parte nostra, che solo in questo modo si possono superare anche le aporie degli antichi. Infatti, quelli che primariamente filosofarono, indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire, verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza. Essi affermano che nessuno degli enti si genera o perisce, per il fatto che necessariamente ciò che diviene, si genera, secondo loro, dall’ente o dal non-ente, mentre è impossibile che si generi da ambe le cose. Infatti, secondo loro, l’essere non può divenire (perché esso è già), e dal non-essere nulla si potrebbe generare, perché è necessario che qualcosa faccia da sostrato. E, così, accentuandone le immediate conseguenze, affermano che il molteplice non esiste, ma che esiste sempre lo stesso ente. Tutta la Fisica di Aristotele verte su una questione che è fondamentale e che a tutt’oggi permane, e cioè la fisica come lo studio del movimento dei corpi: come si muovono? Per Aristotele il movimento non è misurabile, perché il movimento è fra l’uno e i molti, cioè, il movimento è la simultaneità dell’uno e dei molti. Per Aristotele questo è il movimento e, quindi, non è matematizzabile in nessun modo. 191b. …e, quindi, poiché ciò si dice in duplice senso, è chiaro che quello che proviene dall’ente e l’ente stesso agiscono o patiscono. Il medico, pertanto, costruisce pure una casa, ma non in quanto medico, bensì in quanto costruttore, e diventa pure bianco, ma non in quanto medico, bensì in quanto nero; invece, in quanto medico, egli medica o è incapace di medicare. E poiché noi diciamo, in modo molto appropriato, che il medico fa o patisce qualcosa, o che da medico diventa una tal cosa, qualora egli, in quanto medico, patisca o agisca ovvero diventi tali cose, è ovvio che l’espressione “essere generato dal non-ente” debba significare “essere generato in quanto non-ente”. Dice che c’è un non-essere, ma non in quanto tale. Ma gli antichi filosofi non seppero fare questa distinzione e caddero in errore, e per questa loro ignoranza avanzarono tanto nell’ignoranza stessa da credere che nessun’altra cosa si generi o sia, e da eliminare tutto il divenire. Cosa avevano fatto gli antichi filosofi, secondo Aristotele? Avevano tolti i molti dall’uno, mentre lui, facendo i suoi vari esempi, in qualche modo reintroduce i molti, cioè, si dice in tanti modi. È come se riprendesse, anche se non lo fa naturalmente, la questione delle categorie, come se questa questione fosse sempre presente. Anche noi affermiamo che in senso assoluto nulla diviene dal non-ente, ma che, comunque, c’è una generazione dal non-ente, ad esempio per accidente (dalla privazione, infatti, che di per sé è un non-essere, viene fuori un qualcosa di ciò che non esisteva; eppure questo suscita stupore, anzi, sembra impossibile che un qualcosa si generi in tal guisa, ossia dal non-essere);… Perché si pensa il non-essere come il non-essere assoluto. Parmenide diceva che non esiste il non-essere assoluto: una volta accostato l’essere al pensiero, il non-essere è il non-pensiero, ma il non-pensiero non esiste. …ma proprio allo stesso modo né si ha una generazione dall’ente né l’ente diviene, se non per accidente. Cosa vuol dire per accidente? Vuol dire che intervengono altre cose, interviene quella che lui chiamava omonimia, intervengono altri elementi, che sono sempre presenti. 192a, 25. Qui parla di materia. E, in un senso, essa si corrompe e si genera, in un altro no. Infatti, in relazione a ciò che è in essa, di per se stessa è corrotta (perché quello che in essa è corrotto è la privazione); ma in relazione alla potenza, essa né si genera, né si distrugge di per sé, bensì è necessariamente incorruttibile e ingenerata. Qui comincia a porre la questione della potenza e dell’atto. Se con materia intendiamo la potenza, non si distrugge, perché la potenza è sempre in potenza. Se, invero, fosse generata, occorrerebbe che le soggiacesse qualcosa, dalla cui immanenza essa risulterebbe; ma proprio questo soggiacere è la sua natura, e quindi essa è prima di essere generata (giacché io chiamo materia il primo comune sostrato di ciascuna cosa e ciò dalla cui immanenza non accidentale un qualcosa è generato); se, poi, essa si corrompe, giungerà alla fine a questo punto: che sarà in uno stato di distruzione prima di essere distrutta. Quando si consuma la potenza? Nell’atto. Quindi, questo vuol dire che, se si consumasse la potenza, questa è già scomparsa nell’atto. Più avanti dirà che propriamente non scompare, che permane sempre. Siamo al Libro secondo. 192b. degli enti alcuni sono per natura, altri per altre cause. Sono per natura gli animali e le loro parti e le piante e i corpi semplici, come terra, fuoco, aria e acqua (queste e le altre cose di tal genere noi diciamo che sono per natura), tutte cose che appaiono diverse da quelle che non esistono per natura. Infatti, tutte queste cose mostrano di avere in se stesse il principio del movimento e della quiete, alcune rispetto al luogo, altre rispetto all’accrescimento e alla diminuzione, altre rispetto all’alterazione. Invece il letto o il mantello o altra cosa di tal genere, in quanto hanno ciascuno un nome appropriato a una determinazione particolare dovuta all’arte, non hanno alcuna innata tendenza al cangiamento, ma l’hanno solo in quanto per accidente, tali cose sono o di pietra o di legno o una mescolanza di ciò;… È la differenza che fa tra la natura, la φύσις, qualcosa che sorge da sé, come un albero che cresce da sé, e, ad esempio, il tavolo, che invece necessita di qualcuno che lo costruisca. Similmente avviene per ciascuno degli altri oggetti prodotti artificialmente: nessuno di essi, infatti, ha in se stesso il principio della produzione, ma alcuni lo hanno in altre cose e dall’esterno, come la casa e ogni altro prodotto manuale; altri in se stessi, ma non per propria essenza, bensì in quanto accidentalmente potrebbero diventare causa a se stessi. 193a. Ridicolo, poi, sarebbe cercare di dimostrare che la natura è; è evidente, infatti, che di tali enti ve ne sono molti. E dimostrare le cose evidenti mediante le oscure è proprio di chi non sa distinguere ciò che è conoscibile e ciò che non lo è… Quindi, che la natura esista di per sé è dato per acquisito. Dice che voler dimostrare l’esistenza della natura è ridicolo. Cosa fa pensare una cosa del genere? A qualcosa che lui stesso ha già detto: da qualche parte occorre pur partire; quindi, diamo per acquisito che la natura esista. Perché? Perché sì. 193a, 30. In un senso, quindi, la natura viene così definita: cioè, come la materia che per prima fa da sostrato a ciascun oggetto, il quale abbia in se stesso il principio del movimento e del cangiamento; ma in un altro senso essa è definita come la specie che è conforme alla definizione. Dice che si chiama natura la forma. Quindi, la natura non è più soltanto quel sostrato che è la base di tutto ma è la forma. Introducendo la forma, incomincia a porre una distinzione importante, perché la natura non è ciò che è per virtù propria ma in virtù della forma che ha. Lo dirà più avanti: la natura è sempre in vista di qualche cosa, ma questo qualche cosa di cui è in vista è la sua forma. Come, infatti, si dice arte che è conforme all’arte e all’artistico, così anche si dice natura ciò che è conforme a natura e al naturale, e, come a proposito dell’esempio del letto, noi non potremmo dire né che il letto sia conforme all’arte, se esso è solo in potenza e non ha affatto la forma del letto, né che vi sia arte, allo steso modo dovremmo ragionare anche a proposito degli oggetti che risultano dalla natura: la carne, infatti, o l’osso in potenza non hanno affatto la propria natura né sono per natura prima di prendere la forma specifica, determinando la quale noi diciamo che cosa è carne e osso. La forma secondo la definizione, cioè, la definizione che io do di questa forma. Le categorie sono sempre presenti. In fondo, sta dicendo che anche la forma è il ciò che se ne dice. Sicché, in questo secondo senso, la natura delle cose che hanno in se stesse il movimento, si potrebbe identificare con la forma e con la specie, la quale ultima è separabile dalla prima solo per logica astrazione. Ma non è separabile dalla materia se non per via di definizione, cioè, per ciò che io ne dico; potremmo dire, sono due momenti dello stesso. (Invece il composto di materia e forma non è natura, ma è per natura); ad esempio, l’uomo). E la forma è più natura che la materia: ciascuna cosa, infatti, allora si dice che è, quando sia in atto, piuttosto che quando sia in potenza. Quindi, pone la natura come la forma. Più la forma che la materia, dice. Questo è interessante perché, mentre la natura è sempre stata posta come una sorta di sostrato universale, lui stesso lo dice all’inizio, porla invece come forma è dire che la natura è sempre in vista di qualcosa, che non esiste per sé ma esiste per altro. Ma sono tutte cose che per il momento sono appena abbozzate. Inoltre, la natura, intesa come generazione, è una via verso la natura vera e propria. Cioè, la natura procede verso se stessa. Difatti, mentre noi diciamo che la medicazione non è una via verso la medicina, ma verso la salute (è ovvio, invero, che la medicazione deriva dalla medicina e non va verso di essa), in modo diverso, invece, sono tra loro in relazione questi due aspetti della natura: infatti, ciò che nasce, in quanto nasce, va da qualcosa verso qualcosa. Qui parla della natura, certo, ma lui continua a dire come se tutto fosse un seguito delle Categorie perché, se parlasse della natura come di qualcosa che attiene al linguaggio, sarebbe assolutamente preciso. Dice: ciò che nasce, in quanto nasce, va da qualcosa verso qualcos’altro. Quando definisco qualche cosa, che cosa faccio? Compio un’operazione che Aristotele non fa, e cioè immagino che questa cosa tenda a se stessa, cioè, dica la cosa stessa; invece, ci sta dicendo che non è così, non dice la cosa stessa ma dice sempre un’altra cosa. Ma qual è, pertanto, la cosa che nasce? Non certo quella da cui essa nasce, bensì quella alla quale, nascendo, essa tende. Si conclude, perciò, che la forma è natura. La natura si genera. Sì, certo, ma potremmo coglierla come un’allegoria, come le cose in generale: si generano, si dicono, non per se stesse ma in vista di altro. Faccio un esempio: perché si parla? Non per dire come stanno le cose ma per esibirsi. Del come stanno le cose non lo saprò mai, in nessun modo e per nessun motivo, questo mi è precluso totalmente. Perché parlo? Per esibirmi, per ottenere il consenso, per essere importante e le cose sono il pretesto per mettere in atto una cosa del genere. 193b, 25. Dopo aver determinato in quanti sensi si dice natura, bisogna ora osservare in che cosa il matematico differisce dal fisico (anche i corpi fisici, infatti, hanno superficie, volume, lunghezza e punti, di cui si occupa il matematico); inoltre, si deve anche esaminare se l’astronomia sia una scienza diversa oppure una parte della fisica: se, infatti, è compito del fisico sapere che cosa sono il sole e la luna, è assurdo, poi, pensare che egli non sappia nulla dei loro attributi essenziali, specialmente perché evidentemente quelli che trattano della natura e della figura della luna e del sole, studiano anche, tra l’altro, se la terra e il mondo siano sferici o no. Di queste cose, tuttavia, si occupa anche il matematico, ma non in quanto ciascuna di esse in particolare sia il limite di un corpo fisico; né, però, egli studia gli attributi in quanto essi sono attributi di tali enti. Perciò anch’egli opera una separazione: per il pensiero, essi risultano separabili dal movimento, e non c’è nulla di male se questo avvenga, né cadono in errore quelli che operano tale separazione. Qui, secondo Aristotele, il calcolo ci consente di conoscere come stanno le cose. La mette lì così, senza poi riprendere la questione. 194a, 15. Ma, intanto, a proposito di quest’argomento, poiché le nature sono due (materia e forma), non si potrebbe facilmente stabilire su quale delle due il fisico debba condurre l’indagine. O non dovrebbe, piuttosto, condurla su ciò che risulta da entrambe? Ma allora è ovvio che, se deve indagare anche su ciascuna delle due. E, allora, la conoscenza di ciascuna di queste due è compito di una sola e medesima scienza o si deve far ricorso a un’altra scienza? Per chi si attiene, invero, agli antichi l’oggetto della fisica potrebbe risultare essere la materia (in piccola parte, Empedocle e Democrito si accostano alla forma e al concetto); d’altra parte, però, se l’arte imita la natura ed è compito della medesima scienza conoscere fino a un certo punto la forma e la materia (come, ad esempio, è compito del medico conoscere la salute e la bile e il muco nei quali la salute risiede, e similmente è compito del costruttore conoscere la forma della casa e la materia, ossia mattoni e legna, e lo stesso discorso vale anche per quelli che praticano le altre arti), certamente sarà compito anche della fisica conoscere entrambe le nature. Inoltre, è compito della medesima conoscere la causa finale e il fine e quante cose sono in virtù di questi. La natura è fine e causa finale… La natura non è l’inizio, è il fine, è ciò a cui le cose tendono. È un modo totalmente differente di porre la questione. …poiché anche le arti si costruiscono la materia, alcune in senso assoluto, altre solo per l’attuazione dell’opera, e noi ce ne serviamo come se tutto esistesse per nostro scopo. Questo è interessante. Dice che la natura e fine e ciò in vista di cui; sì, ma l’“in vista di cui” sono io, sono io il fine della natura. Che è quello che dirà Heidegger parlando dell’utilizzabile, dello strumento. E sono due le arti che comandano sulla materia e la conoscono: l’una è quella che ne fa uso pratico, l’altra fa parte delle attività costruttive ed è l’architettonica. Perciò anche l’arte ce ne fa uso pratico è, in un certo senso, architettonica; ma la differenza è nel fatto che l’architettonica ha competenza della forma, mentre l’altra, in quanto attività costruttiva, ha competenza della materia. Il nocchiero, ad esempio, conosce quale sia la forma del timone e la controlla; il costruttore, invece, sa da qual legno e da quali movimenti il timone potrà venir fuori. Aristotele è vissuto in un momento in cui i miti erano ancora presenti, per cui ecco le metafore, le allegorie, i modi coloriti di dire le cose; in effetti, ci sta dicendo che sono necessarie entrambi. Sta parlando di potenza e di atto quando parla di materia e di forma, che sarebbe poi il sinolo; lui stesso dice che materia e forma non sono separabili e, infatti, sinolo viene dal greco σύν e ὂλον, tutto insieme; per cui la nave, senza il nocchiero e il costruttore, non c’è, entrambi sono necessari, inseparabili, anche se ciascuno fa quello che deve fare. 194b, 25. Qui descrive le quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale. …in un senso si dice causa ciò da cui proviene l’oggetto e che è ad esso immanente, come il bronzo alla statua o l’argento alla coppa, o anche i vari generi del bronzo e dell’argento. Questa è la causa materiale. C’è poi la causa formale. In un altro senso sono causa la forma e il modello, vale a dire la definizione del concetto e i generi di essa (come del diapason il rapporto di due a uno e, insomma, il numero) e le parti inerenti alla definizione. La causa formale è la forma che io voglio dare a qualche cosa. Quindi, c’è la causa materiale, la materia di cui è fatta qualche cosa, e poi c’è la causa formale: quale forma voglio dare a questa cosa? Poi, c’è la causa efficiente, quella che fa: io che costruisco la statua. Inoltre, è causa ciò donde cui è il primo inizio del cangiamento o della quiete, come è causa chi dà un precetto o come il padre è causa del figlio o come in generale che fa è causa del fatto, chi muta del mutato. La causa efficiente è l’agente, è colui che fa, che ha una materia su cui lavorare e una forma da costruire. Causa finale. Inoltre, la causa è come fine ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la salute. Se ci si domanda, infatti: “Perché quel tale passeggia?” rispondiamo: “Per star bene”; e così dicendo noi crediamo di averne data la causa. Poi, però, parla della polivocità della causa. Se tante sono, in linea di massima, le cause, accade d’altra parte che, siccome si parla di cause in molti sensi, vi siano anche molte cause di un medesimo oggetto, non per accidente; così, ad esempio, la statuaria e il bronzo sono cause della statua non per qualche altra ragione, ma solo perché la statua è statua, quantunque il modo sia diverso, per il fatto che il bronzo è materia, la statuaria invece è principio di movimento. 195b, 5. Tutte le cause, sia quelle propriamente dette sia quelle accidentali, ora si dicono in potenza ora in atto. C’è, poi, tutto un capitolo, il quarto, sulla fortuna, dove distingue tra il caso e la fortuna, ma non dice molto che possa interessarci particolarmente. 197a, 33. Dunque, come dicevamo, la fortuna e il caso sono entrambe cause accidentali nelle cose che non possono prodursi né in senso assoluto né per lo più, ma che, comunque, possono prodursi in vista di un fine. Ci sarebbe da procedere in modo abbastanza veloce perché, poi, la parte interessante è quella riguardante l’infinito. 198a. abbiamo, dunque, determinato che cosa sia la fortuna e che cosa sia il caso e, anche, in che queste due cose differiscono tra loro. Circa, poi, la causa dei loro modi, bisogna tenere presente che tanto la fortuna quanto il caso rientrano nel novero delle cause onde è il principio del movimento; sempre, infatti, opera qualcuna o delle cause naturali o di quelle del pensiero; tuttavia, il numero di quelle cause resta indeterminato. Ma poiché il caso e la fortuna sono causa di accadimenti di cui potrebbero essere causa l’intelletto o la natura, ed operano quando questi stessi accadimenti si producono secondo una qualche causa accidentale, e poiché nulla è per accidente prima di essere per sé, è evidente che neppure la causa accidentale è prima della causa per sé. 198a, 20. Che, dunque, le cause siano tali e tante è ben chiaro; ma poiché le cause sono quattro, è compito del fisico conoscerle tutte e dare, nel settore della fisica, la risposta ad ogni perché, riportandolo ad esse tutte, cioè alla materia, alla forma, al motore, al fine. Tre di queste spesso si riducono a una sola: ché il concetto e il fine sono una sola cosa… Il “che cos’è” e l’“in vista di cui” sono tutt’uno. Che cos’è questa cosa? Ciò a cui serve, è il suo utilizzo. Qui c’è Heidegger naturalmente, che conosce molto bene Aristotele. La risposta a questa domanda “che cos’è?” non sta in chissà quale essenza o materia, ma in ciò a cui serve, al suo utilizzo: è l’utilizzo che dice che cos’è qualche cosa, come dire che il che cos’è, la cosa in sé, non è recuperabile in nessun modo. Quindi, alla domanda “che cos’è questa cosa?” io non posso rispondere che è precisamente quella cosa lì, perché non finirei mai di descriverla, ma posso però dire a che cosa serve: dicendo a che cosa serve, ho detto che cos’è. 198b. i principi del movimento naturale sono di due specie, e una di queste non rientra nell’ambito della fisica, perché non ha in sé il principio del movimento. Di tal genere è ciò che muove senza essere mosso, come l’assolutamente immobile, il primo di tutto, il concetto e la forma di tutto:… Qui c’è un0’anticipazione rispetto a ciò che dirà della δύναμις, dell’ἐνέργεια e della έντελέχειᾳ. È questo il motore immoto, perché non si muove. Questa dialettica, chiamiamola così hegelianamente, fra questi elementi non è in movimento ma ciò che muove; la relazione non è in movimento ma è la condizione del movimento. …esso è , infatti, fine e causa finale; quindi, poiché la natura tende a un fine, bisogna conoscere anche questo, e la risposta al perché bisogna darla in modo esauriente; si dovrà dire, ad esempio, che da questo necessariamente proviene quest’altro (e proviene fa questo o assolutamente o per lo più), e che c’era una condizione materiale da cui un qualcosa di particolare doveva scaturire (come la conclusione scaturisce dalle premesse) e che questo era il concetto, e per qual motivo è meglio così non in senso assoluto, ma in relazione alla sostanza di qualcosa di particolare. Questo accostamento che fa Aristotele tra la fisica e le categorie, in effetti, ci offre l’occasione per potere considerare che molte cose che dice della fisica, di fatto, attengono al linguaggio. Infatti, qui praticamente parla del sillogismo: da questo viene quest’altro in modo necessario, ecc. 198b, 15. Bisogna, ora, in primo luogo dire perché la natura è una delle cause finali;… Ci aveva appena detto che la natura opera in vista di un fine, e ci ha anche detto che il fine sono io. Non che tutta la natura sia in funzione di me, ma che il fine di tutto ciò che accade è in vista di me, nel senso che sono io che do a tutte queste cose un significato, per dirla in modo banale; sono io che le utilizzo, sono io che dico a che cosa serve questa determinata cosa, cioè, è un utilizzabile per me. Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del meglio, bensì come piove Zeus, non per far crescere il frumento, ma per necessità (difatti, ciò che ha evaporato deve raffreddarsi e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù; e che il frumento cresca quando questo avviene, è un fatto accidentale). /…/ E, pertanto, quegli esseri, in cui tutto si è prodotto accidentalmente, ma allo stesso modo che si fosse prodotto in vista di un fine, si sono conservati per il fatto che per caso sono risultati costituiti in modo opportuno; quanti altri, invece, non sono in tale situazione, si sono perduti o si van perdendo, come quei buoi dalla “faccia umana” di cui parla Empedocle. Il bue dal volto umano non serviva a niente ed è scomparso. 199a, 30. E poiché la natura è duplice, cioè come materia e forma, e poiché quest’ultima è il fine e tutto il resto è in virtù del fine, questa sarà anche la causa, anzi la causa finale. La causa finale, la causa in vista di cui. Come dire che tutto questo è per me; è per me in quanto sono io che lo penso, che ne parlo, io sono l’utilizzatore della natura, io utilizzo la natura come mi pare, più o meno; in questo senso è per me perché, se io non ci fossi, se non esistesse il linguaggio, non esisterebbe neanche la natura: ecco perché la natura è in vista di me, che la penso, che la dico. 199b, 30. Infatti, qui aggiunge È chiaro, dunque, che la natura è causa, anzi propriamente causa finale. Cioè, il fatto di essere in vista di me, che la penso, che la dico. 200a, 13. La necessità è, perciò, da porsi, ma non in quanto fine, giacché il necessario è nella materia, la causa finale nel concetto. Il necessario è la materia, il fine è l’essenza. Questi due elementi sono simultanei, si coappartengono. Inoltre, vi è una certa somiglianza tra il necessario nelle scienze e il necessario nelle cose naturali. Ad esempio: poiché l’angolo retto ha una data proprietà, è necessario che il triangolo abbia angoli uguali a due retti; ma ciò non vuol dire che l’angolo retto sia di conseguenza un triangolo, bensì che, se questa conseguenza non si verifica, non c’è neppure l’angolo retto. Nelle cose che sono prodotte in virtù di un fine, avviene il contrario: cioè, se il fine sarà o è, anche ciò che lo precede sarà o è; altrimenti, no, come – nel caso su esposto –, se non vi è la conclusione, non vi sarà il principio, e quindi neppure il fine e la causa finale. Anche quest’ultima, infatti, è il principio, non del fatto, ma del concetto (e in quel caso si tratta di concetto, giacché fatti non ve ne sono). Sta qui la questione: dice che in assenza di conclusione non ci sarà neppure il principio. Ci vorranno più di duemila anni prima che Peirce dica esattamente la stessa cosa: il segno è sempre segno di qualche altra cosa, ma è per questo motivo che non c’è il primo segno; il segno è sempre secondo segno rispetto a qualche cosa e ciò che lo precede esiste in quanto c’è il successivo, sennò non esisterebbe, però, si coappartengono. È una questione questa ripresa anche da Hegel, naturalmente. Siamo al Libro Terzo. 200b. poiché la natura è principio del movimento e del cangiamento e noi stiamo studiando metodicamente la natura, non ci deve rimaner nascosto che cosa sia il movimento. È inevitabile, infatti, che, se questo si ignora, si ignori anche la natura. Definito il movimento, bisogna, poi, cercare allo stesso modo di giungere a definire ciò che ne consegue. Orbene, sembra che il movimento faccia parte dei continui, e l’infinito si manifesta in primo luogo nel continuo. Perciò, anche a chi definisce il continuo, capita di servirsi spesso del concetto di infinito, perché è continuo ciò che è divisibile all’infinito. Inoltre, senza luogo e vuoto e tempo pare impossibile che vi sia movimento. È chiaro, dunque, che per questo motivo e per il fatto che queste cose sono comuni a tutti gli uomini e universali per tutti, bisogna por mano all’indagine su ciascuna di esse (perché lo studio delle singole proprietà è posteriore a quello delle cose comuni); e in primo luogo, come dicevamo, bisogna trattare del movimento. C’è qualcosa che è solo in atto, e qualcosa che è in potenza e in atto: e tale distinzione va applicata all’essenza determinata, alla quantità, alla qualità e, parimenti, alle altre categorie dell’essere. /…/ Non vi è, però, un movimento al di fuori delle cose; infatti, perché vi sia cangiamento, è indispensabile la cosa che cangia o per sostanza o per quantità o per qualità o per luogo, né, come noi abbiamo detto, si può trovare alcunché di comune alle cose soggette al cangiamento, senza che esso sia né essenza determinata né quantità né qualità né alcuna delle altre categorie; sicché non esisteranno né il movimento né il cangiamento di alcuna cosa al di fuori di quelle che abbiamo dette, perché non vi è nulla al di fuori di queste. Dice che al di fuori delle cose concrete non c’è movimento. Parlando delle cose concrete si riferisce alle categorie. È curioso. Infatti, dice che è indispensabile la cosa che cangia o per sostanza o per quantità o per qualità o per luogo, quindi, secondo le categorie: le cose concrete cambiano in relazione alle categorie. In effetti, aveva già detto che la sostanza, o l’essere, non è altro che ciò che se ne dice e, quindi, se cambio la qualità, la quantità, ecc., cambia anche la sostanza, l’essere della cosa. E, infatti, dirà più avanti che è la forma che decide della materia.