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13-3-2013

 

Possiamo considerare la questione antichissima delle parole, questione già nota dai tempi di Demostene e poi a salire fino a Perelman: perché le parole hanno potere? È una domanda alla quale non si è mai data una risposta, si considera semplicemente che ce l’abbiano e basta, ma le parole hanno potere quando sono vere, più propriamente quando si considera che le parole abbiano un referente al di fuori delle parole stesse, che è una bella questione. Come dire che se ciò che si dice fosse considerabile come un qualche cosa il cui senso, il cui significato sia all’interno del gioco in cui queste parole sono inserite, allora le suddette parole perderebbero il loro potere. Per esempio, una questione che si poneva Cesare: quando si dice che “non tutto si può dire” anche sostenendolo con delle argomentazioni, come abbiamo fatto, oppure come diceva Lacan che “la verità può dirsi solo a metà”, queste formulazioni hanno un effetto, l’hanno avuto e continuano ad averlo in molti casi perché si ritiene, più o meno consapevolmente, che queste locuzioni si riferiscono a qualche cosa che è fuori dalla locuzione stessa. Come afferma Jaques Lacan, “la verità può dirsi solo a metà”, allora questo ci induce a considerare che sappia che cos’è la verità e che magari sappia quale metà si dice e quale metà no, ma in ogni caso che sappia di che cosa è fatta questa verità. Per sapere che cos’è la verità è necessario che la verità non sia qualche cosa il cui significato proceda unicamente dal gioco linguistico in cui è inserito questo termine, ma abbia un riferimento a un quid che è fuori da questo gioco, così come quando si dice spesso che non tutto può dirsi. La questione è complessa perché questo “tutto” che non può dirsi, dovrei intanto sapere che cos’è per potere dire che non può dirsi, ma come faccio a sapere che cos’è? Se questo “tutto” è inserito all’interno di un gioco linguistico allora posso unicamente dire che cosa intendo con “tutto” in quel momento, però posso intendere molte cose con “tutto”, e posso farlo perché questo termine “tutto” ha varie accezioni, e se l’ho costruito e lo sto utilizzando all’interno di un gioco linguistico, il significato che io gli fornisco vale all’interno del gioco linguistico in cui è inserito, fuori da questo gioco può volere significare qualunque altra cosa e il suo contrario. Dicevo che sono questioni complesse, non tanto da esporre, quanto da intendere perché, e qui si torna alla questione precedente, in questo modo si toglie potere alle parole, quale potere? Il potere di persuadere, di convincere ovviamente, e cioè si toglie la possibilità di potere esercitare il potere attraverso le parole, perché in ogni caso è sempre attraverso le parole, i discorsi, che si esercita un potere, anche nelle situazioni limite dove apparentemente non ci sono parole, come nel caso in cui qualcuno punti una pistola alla tempia di qualcuno e gli ingiunga di fare qualcosa, anche in questo caso dove apparentemente sembra che il potere non sia della parola ma, in questo caso, di una pallottola calibro 9, anche in questo caso, se non ci fosse un discorso tale per cui io so una serie di cose, che cos’è una pistola, cosa può capitare, cosa è in gioco, cosa potrei perdere eccetera, se tutte queste cose cioè questi discorsi non esistessero nessuno avrebbe paura di alcunché, infatti se punto una pistola alla tempia di un gatto, il gatto non si spaventa, semmai l’annusa, in genere per sentire se è da mangiare oppure no. Quindi anche nel caso più estremo, comunque non siamo mai fuori dal linguaggio e, come accennavo sabato, siamo nel linguaggio nel caso in cui qualcosa significhi qualcosa, perché se non significa niente, tecnicamente non potremmo neppure saperlo se non significasse niente. Ma vi dicevo il potere delle parole è tale perché queste parole non è tanto che hanno un significato, un senso, ma perché si immaginano riferirsi a qualche cosa che parola non è, è l’unica condizione per cui le parole possano avere potere, perché se invece c’è la possibilità di considerare che le parole sono all’interno di un gioco linguistico e quindi il loro significato è determinato dalle regole di quel gioco, potremmo anche dire che le parole hanno un potere certo, hanno il potere di costruire altre sequenze, ma non avendo un potere al di fuori di sé l’unico potere che hanno è questo di costruire altre sequenze. Questa è una cosa importante che riguarda tutto il discorso occidentale e non soltanto, tutta la storia dell’umanità, ma anche tutto ciò che gli umani continuano a fare per lo più. È anche difficile immaginare una situazione tale per cui le parole non abbiano più il potere che si attribuisce loro, come se a questo punto non avesse più nessun senso parlare. Risulta impensabile parlare pensando che le parole abbiano non un potere sull’interlocutore, però se si considera che il potere delle parole non è altro che quello di costruire altre sequenze, le quali altre sequenze costruiranno altre sequenze ancora e così via all’infinito, allora la prospettiva è differente: a questo punto effettivamente gli umani vivrebbero unicamente per giocare, per compiere questo gioco, un gioco linguistico, cosa che così com’è strutturata la società da migliaia e migliaia e migliaia di anni risulta assolutamente impensabile…

Intervento: per giocare con i loro pensieri, la questione della comunicazione…

La comunicazione è un gioco linguistico, non c’è una cosa che sia fuori dal linguaggio, o più propriamente dal gioco linguistico in cui esiste, anche la comunicazione è un gioco, non c’è la comunicazione fuori dal linguaggio, intendo dire che è un concetto la “comunicazione”, cioè significa qualche cosa, ciò che significa questa “comunicazione” è l’uso che se ne fa all’interno di un certo gioco. Questa è una delle cose più difficili, cioè considerare un termine, un elemento linguistico come avente significato determinato da regole del gioco in cui è inserito e non un significato sub specie aeternitate, così come quando si dice appunto che non tutto può dirsi, cos’è questo “tutto”? Cosa sappiamo di questo “tutto”? Lo possiamo individuare, dire esattamente che cos’è?

Intervento: Dicevo che non è comunicabile ciò che io provo…

Alcuni arrivavano al di là di questo e affermano che ciò che lei stesso pensa e dice non è accessibile neppure a lei: nel momento in cui incomincia a riflettere su ciò che ha pensato già le cose sono cambiate e quindi lei stesso non saprà mai cosa ha pensato e che cosa ha detto…

Intervento: questa “non comunicazione” uno può spiegare le emozioni ma l’altro non potrà avere le stesse emozioni… per cui c’è questa incomunicabilità…

Intervento: una sorta di linguaggio privato…)

Ha fatto bene a porre la questione certo, in effetti è una delle tesi di Verdiglione, che ha anche una funzione, una funzione meno nobile di quella che lei ci ha sottoposta, e cioè il fatto che se non c’è possibilità di comunicazione, di comprensione, lei non potrà mai obiettare nulla a quello che dico, perché io posso sempre dire che lei non ha inteso, ma aldilà di queste amenità, la questione invece è più complessa, perché se io affermo che non c’è nessuna possibilità di comunicare devo andarci cauto con questa affermazione, perché se effettivamente fosse così, allora questa impossibilità di comunicare riguarderebbe non soltanto il passaggio di informazioni da me a un’altra persona, ma anche da me a me. Se questo fosse preso alla lettera porterebbe a una conclusione inesorabile, e cioè che se non posso comunicare fra me e me, nel senso che comunque dico sempre altro, tecnicamente non lo saprei mai, perché non posso valutare se quello che sto pensando adesso è differente o no da ciò che pensavo prima, perché non c’è più, quindi non lo posso affermare. Oltre al fatto che stabilire che ciò che io penso non può essere inteso da qualcun altro potrebbe anche essere preso come una dichiarazione di principio, come faccio a sapere esattamente che l’altro non comprende ciò che io dico? Ma le sue argomentazioni sono legittime certo, e cioè il fatto che io non so in che modo le mie parole saranno intese da chi mi ascolta, ci sono anche buone argomentazioni per sostenere questo, e cioè che le parole che io sto utilizzando procedono da una serie di considerazioni, di pensieri, di sensazioni, di tantissime cose che appartengono a me e che danno a tutte queste cose che dico un senso, chiaramente chi le riceve si troverà ad accogliere delle cose inserite all’interno di un sistema che è il suo, fatto di altre considerazioni, altri ricordi, immagini eccetera, e quindi come dicevo la sua tesi può essere sostenuta anche da buone argomentazioni. Rimane il fatto che tutte queste cose che ho enunciate, dovrei anche potere dire che sono necessariamente così, e cioè che necessariamente che ciò che io dico sarà inteso da lei, per esempio, in un altro modo, che è possibilissimo naturalmente. La questione però è da considerare più attentamente, perché un conto è dire che è possibile, altro è dire che è necessario…

Intervento: se io le chiedo di passarmi l’accendino e lei mi passa l’accendino io sono soddisfatto, nel senso che ci siamo capiti…

La questione è molto semplice in realtà, ma dicevamo prima che la comprensione di qualche cosa è all’interno di un gioco linguistico, quindi se noi stabiliamo che cosa intendiamo con “comprensione” allora possiamo incominciare a muoverci in modo più preciso, più rigoroso, se definiamo “comprensione” con la possibilità di sapere tutto ciò che lei sta pensando al momento in cui recepisce le mie parole con tutte le possibili varianti e variabili che intervengono allora certo sarà straordinariamente difficile che noi ci intendiamo, ma torno a ripetere, non impossibile. Se invece con “comprensione” intendiamo il fatto che io dico delle cose e lei esegue, allora ovviamente c’è comprensione. Eseguire è un metodo di verifica, questo lo diceva anche Wittgenstein, verificare che un comando è stato compreso è il fatto che l’altro lo esegua. Quando tu installi un programma sul computer e il computer ti dice a un certo punto che il programma di installazione è completato, vuole dire che ha compreso i dati che gli sono stati forniti dal dischetto di installazione, in questo caso la comprensione è perfetta? Dipende naturalmente da che cosa intendiamo con “comprensione”. Se con “comprensione” intendiamo il fatto che il computer riconosca questa informazione con tutto ciò che questo comporta e che le trascriva sull’hard disk, e che la esegua correttamente, cioè nel modo che è stato previsto che faccia, allora il computer ha compreso. Se invece con “comprensione” intendiamo il fatto che questo computer esegua tutte le operazioni che gli sono state richieste e non commetta nessun errore, allora il computer non ha compreso perché di errori ne commette una grande quantità, che naturalmente non inficiano il suo funzionamento, ma commette molti più errori di quanti immaginiate, e allora non “comprende”. Quindi o troviamo che cosa veramente, necessariamente, in assoluto significhi “comprendere”, e allora la comprensione è un quid, un entità che sta fuori del linguaggio e della quale dobbiamo reperire tutte le proprietà, tutto ciò che gli è assolutamente proprio, e anche qui si aprirebbe un’altra parentesi, e cioè se questo termine fosse fuori del linguaggio allora dovremmo potere sapere esattamente che cos’è la comprensione, il problema è che se è fuori dal linguaggio non abbiamo modo di saperlo: come lo sapremmo? Supponiamo per assurdo che questo termine sia fuori dal linguaggio, qui c’è il linguaggio e qui c’è la comprensione, facciamo questo gioco per assurdo, per sapere che cos’è devo prenderla ed inserirla nel linguaggio, se no non c’è nessuna comunicazione, devo ancora sapere che cos’è la comunicazione e non posso neanche metterla in atto quindi devo prendere questa cosa e metterla dentro il linguaggio. Ma una volta che è dentro al linguaggio si aggancia a infinite altre cose, si disperde in rivoli infiniti e a questo punto non è più quello che era prima, perché noi dovremmo sapere che una volta che l’abbiamo presa da lì fuori e messa dentro al linguaggio è rimasta esattamente quella che era prima, con tutte le proprietà che aveva prima. Ma almeno una proprietà non c’è più, perché la proprietà era di essere fuori dal linguaggio, adesso è dentro al linguaggio, quindi non è più la stessa cosa. Per questo occorre sempre chiedere a qualcuno quando parla di qualche cosa, quando questo qualche cosa ha qualche ambizione teorica, che cosa intende, proprio perché non c’è questa cosa, non c’è fuori in qualche stracielo, o iperuranio. Domandare che cosa intende significa appunto chiedere come la sta usando in questo momento rispetto al gioco che sta facendo, e quindi questo significato che la persona fornirà, sarà tale in base alle regole del gioco che sta facendo in quel momento. Ma posta la questione in questi termini torna la questione da cui siamo partiti, qual è il potere delle parole? Qual è il potere di un re di fiori? Che combinato insieme ad altri tre re fanno poker, per esempio, e cioè le parole possono combinare dei giochi, possono combinare delle storie, ma non hanno più nessun potere se non sono più agganciate a un quid, a un che, che sta fuori del linguaggio, ma possono e devono essere utilizzate unicamente per quello che sono, e cioè degli elementi che servono a costruire altri elementi. A questo punto qual è la portata di ciò che andiamo facendo? Consiste unicamente nella possibilità di consentire a un gioco linguistico di sapere che cosa sta facendo, in effetti non c’è molto altro sapere, cosa sta facendo e cioè le parole che sta utilizzando all’interno di quel gioco si riferiscono ad altre parole di quel gioco e alle regole del gioco, è tutto qui, non c’è altro. Ma tutto ciò è complicato, complesso, anche se apparentemente può sembrare semplice, però è questa la direzione in cui ormai ci siamo incamminati, e riguarda appunto il potere e ciò che abbiamo detto questa sera si situa all’interno di questo percorso, e cioè risponde alla domanda “perché le parole hanno il potere che hanno?”, cosa che tutti sanno da sempre e nessuno mai ha saputo perché. Abbiamo detto tante volte che questo potere procede dal fatto che il discorso è fatto in un certo modo, che deve concludere con un’affermazione vera, sì, ma non basta, questa affermazione vera deve essere pensata fuori dal linguaggio se no non ha nessun potere, cosa che potrebbe mettere ciascuno nella condizione non soltanto di non subire le chiacchiere altrui, ma in prima istanza e soprattutto di non subire le proprie. Non avere la necessità di credere a ciò che si dice e in prima istanza a ciò che la persona “si” dice…

Intervento: la cosa più difficile, lei diceva sabato scorso, è non avere più la volontà di imporre il proprio potere… non so se la persona crede le cose che crede proprio per poterle imporre all’altro, questo è legato al fatto, dalla necessità della persona di essere riconosciuta, di essere la più importante insomma di esistere in qualche modo, se effettivamente si gioca con la parola non c’è più la necessità di compiere queste operazioni per imporre in qualunque modo il proprio interesse, come dire, che giocando ciascuna parola è una parola e resta parola…

Abbiamo detto che ci saremmo occupati del potere e questo è un buon inizio, incominciare a intendere perché le parole hanno potere sugli umani anziché non averne nessuno; essere prese per quello che sono e cioè degli strumenti per giocare, a questo servono, a nient’altro che a questo, e in effetti quando non si gioca o si smette di giocare incominciano i problemi. È come nelle relazioni sentimentali, all’inizio perché va tutto bene, è tutto bello, piacevole? Perché si gioca, ma a un certo punto si smette di giocare, bisogna fare le cose serie e importanti, da quel momento è finita, se si smette di giocare non ci si diverte più, diventa una cosa pesante, diventa un compito, una missione, e allora ecco la sofferenza, il peso, il sacrificio.