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13-1-2016

 

Prima di riprendere la lettura di questo libro di Derrida volevo accennarvi a un problema connesso con la teorizzazione di Derrida, la sua teorizzazione intorno alla traccia, cioè all’archi-scrittura, alla differenza, differenza incolmabile, quella differenza che fa in modo che ciascuno parlando non riesca mai, questo è quello che sostiene Derrida, a dire quello che voleva dire. La “scrittura” così come la intende Derrida cioè come archi traccia è la condizione della parola, questo in Derrida è esplicito, questa barra, questo non dicibile, è la condizione del segno e quindi del dire. Posta la questione in questi termini comporta il porre la scrittura come un qualche cosa che non ha o non procede dal segno perché la scrittura è la condizione del segno, quindi non può procedere dal segno, come se questa scrittura, questa archi traccia, questa differenza avesse in sé la propria causa e la propria origine, in quanto appunto non dipende da altro, se dipendesse da altro allora Derrida non potrebbe dire che è originaria, non potrebbe parlare di archi traccia, “archi” viene da ρχή, origine, quindi la traccia non dipende da altro all’infuori di sé, dunque ha in sé, appunto, la propria origine e la propria causa, ρχή e aἰtίa dicevano gli antichi. Ma pensare a qualcosa che abbia in sé la propria origine e la propria causa è porre questo qualche cosa propriamente come un ente metafisico e cioè porlo come ciò che è quello che è per virtù propria e non in virtù di altro, cioè non dipende da altro, non ha in altro la propria condizione. Fatto singolare perché sarebbe come se per uscire dalla metafisica, in modo più o meno definitivo Derrida, avesse utilizzato un elemento metafisico. In ciò che lui dice appare che questa traccia sia un ente metafisico nonostante lui dica che questa traccia non è un oggetto, non è un ente ma è una funzione, dice lui, l’ha detto esplicitamente, ma la funzione è pur sempre qualcosa, e qualcosa è un ente, la funzione è un ente comunque la si voglia intendere, è un qualche cosa che metafisicamente è in ogni caso quello che è, e cioè non dipende da altro, è l’ente metafisico, non dipende da altro nel senso che questo ente trae la sua enticità, come dicono i filosofi, dall’essere, da ciò che fa sì che l’ente sia quello che è. Stabilito che c’è un essere e quindi una garanzia  che l’ente sia quello che è, allora è possibile per esempio l’esperienza. Questa operazione di Derrida la si ritrova anche in altre teorizzazioni, mi riferisco alla teoria di Verdiglione per esempio. Nella teoria di Verdiglione non c’è la “traccia”, non c’è la “scrittura” nell’accezione in cui ne parla Derrida ovviamente ma c’è un altro elemento posto come qualcosa che accade, interviene, e non dipende da altro, è la parola. Sto dicendo che tutta la teorizzazione di Verdiglione si può porre come una metafisica della parola, così come l’elaborazione di Derrida può essere posta come una metafisica della scrittura, della differenza. Perché se io pongo la differenza come qualcosa che non dipende da altro se non da sé, la pongo come un ente metafisico. Il lavoro che abbiamo fatto e stiamo continuando a fare conduce in un’altra direzione e cioè ci dice che qualunque cosa, se è qualche cosa, è quello che è perché connesso ad altri elementi cioè la sua esistenza dipende da altri elementi, cosa che per altro lo stesso De Saussure aveva posta in modo molto preciso. Derrida, volendo stabilire il primato della scrittura si trova a un certo punto a estrarre, estrapolare la scrittura dal linguaggio, e allora appare la differenza come un qualche cosa fuori dal linguaggio; perché se ne è la condizione? Per Derrida questa traccia, questa differenza, è ciò che rende il segno tale, è la condizione del segno e il segno è la condizione del dire, cioè dell’articolarsi del linguaggio. Per questo dicevo che pone la differenza come un ente metafisico e quindi come qualcosa fuori dal linguaggio, perché lo pone come la condizione del linguaggio, come ciò che non dipende da altro se non da se stesso. Tutto questo ha delle implicazioni ovviamente, perché se per decostruire la metafisica, perché è poi di questo che si tratta, utilizzo la metafisica, capite che c’è qualche problema, di fatto a quel punto non decostruisco niente. Perché Derrida è interessato alla scrittura? Perché è sempre stata scartata dalla metafisica che ha sempre immaginato e voluto che la parola viva, la parola parlata fosse l’unico modo per cogliere ciò che è immediatamente presente, perché nella parola parlata mentre parlo io mi sento dire, c’è un autocoscienza di ciò che sto dicendo e questa coscienza è immediata, non è mediata da niente, almeno apparentemente, poi non è così, però la parola parlata ha questa virtù che non ha la parola scritta, la parola scritta è invece un ostacolo. La metafisica vuole che la parola sia l’unico modo, questo un po’ husserlianamente, per una percezione immediata, assoluta e diretta della cosa. Si tratta sempre di riuscire a stabilire che cosa sono le cose, per poterlo fare occorre che la mia percezione non mi inganni, sia semplice e immediata. L’operazione fenomenologica di riduzione trascendentale di Husserl va in questa direzione. La parola scritta ha sempre costituito un ostacolo perché nella parola scritta ci sono cose che non ci sono nella parola parlata, l’interpunzione, gli spazi eccetera, cosa che si potrebbe dire anche all’inverso, nella parola scritta non ci sono cose che ci sono nella parola parlata per esempio l’intonazione, la prosodia etc., Derrida chiama “logocentrismo” l’idea che la parola parlata sia il fondamento di tutto, perché è quella cosa che consentendo l’auto coscienza dà una percezione immediata di ciò che sta accadendo, ma la questione centrale è che questa scrittura, ciò che la rende tale, sono le interpunzioni, sono gli spazi, sono quelle cose che di fatto non hanno voce ma che sono quelle che consentono al testo di essere letto, cioè di essere un testo, quindi sono quelle cose senza voce che non si dicono che in un certo qual modo costruiscono il testo, fanno del testo quello che è. Non è molto lontano, infatti lui lo riprende, da Freud, come dire che l’inconscio, cioè ciò che non ha accesso alla coscienza, ciò che non ha accesso alla parola direttamente è ciò che pilota la parola, è questo che dice. Questa cosa che non ha accesso al dire lo porta poi lungo le sue varie considerazioni a porla come la condizione di tutto e allora lì diventa un problema perché, come dicevo prima, questo elemento non essendo più dipendente da altro, non procedendo da altro non può che procedere da se stesso e cioè essere causa sui, diventa cioè un ente metafisico. Quando non è, nell’accezione tradizionale, non è metafisico? Quando non è “causa sui”, cioè quando la propria esistenza è dipendente e relativa ad altro. In Derrida la questione a volte è ambigua perché lui stesso parla della differenza anche come differimento, cioè come uno spostamento da una cosa all’altra, quando dice che per esempio un qualche cosa appare soltanto nel suo ri-apparire, cioè nel suo ri-presentarsi, cioè appare nella rappresentazione, è la rappresentazione che fa essere ciò che appare, non è ciò che appare che poi viene rappresentato, è questo il capovolgimento che Derrida opera: la cosa che appare, appare in seconda battuta dopo essere riapparsa, cioè dopo avere subito questo differimento, un differimento che è lo stesso differimento di cui parla De Saussure, un differimento tale per cui ciascun segno non può che rinviare a un altro segno. Un significante è quello che è in quanto connesso con un significato, il significato è quello che è in quanto è detto da un significante, c’è sempre in tutte queste articolazioni sempre un differire, uno spostarsi da una cosa all’altra continuamente, per cui la cosa non è mai quella che è pur essendo quella che è, proprio a partire dal fatto che non è quella che è. Faccio un esempio e mi servo qui di Greimas, il Greimas della Semantica strutturale. Greimas pone nella costruzione della semiosi, cioè di ciò che produce il senso, pone un primo elemento che lui chiama il “nucleo semico”, che sarebbe per Derrida grosso modo la definizione di un dizionario di una parola, quello è il nucleo semico cioè l’elemento che è indispensabile perché una certa parola sia una parola, e cioè questa parola abbia dei riferimenti, delle determinazioni che costituiscono l’essenza di quella parola, il suo Essere direbbe Heidegger, ora questo nucleo semico costituisce il primo elemento su cui costruire attraverso altri elementi, cioè i semi contestuali il semema, quindi il discorso, la parola, il racconto eccetera. Questo nucleo semico dipende da altro, non è causa sui, ma dipende dalle determinazioni che rendono il nucleo semico quello che è, cioè una parola o più parole provviste di significato, e ciascuna di queste parole di cui è composto il nucleo semico può essere a sua volta scomposto in altri nuclei semici volendo, ciascuno dei quali sarà sempre comunque dipendente dalle determinazioni di cui è fatto che lo fanno esistere. Nel caso di Derrida la “differenza” non è così, la differenza non è più dipendente da nessuna determinazione che la faccia esistere, e questo la pone appunto come un ente metafisico. E in effetti il solo pensare che possa darsi un qualche cosa che non sia dipendente dal gioco linguistico in cui è inserito, pone questo qualche cosa come fuori del linguaggio. Che cosa sarebbe accaduto, facciamo questa ipotesi, se avesse posto la differenza non come qualche cosa che non dipende da altro, ma come un qualche cosa che procede dal linguaggio? Tutta la sua elucubrazione intorno alla priorità della scrittura verrebbe vanificata, la scrittura non sarebbe più prioritaria rispetto alla parola, non sarebbe originaria. È il concetto stesso di “originario” che pone dei problemi, originario nell’accezione di Derrida ma anche di Verdiglione è ciò che precede necessariamente qualche cosa ma precede non cronologicamente, nel senso che viene prima, precede logicamente, come dire che la pensabilità di qualche cosa dipende dalla presenza necessaria di un altro elemento, in questo senso originario. Un elemento originario è tale perché non dipende da altro, perché altrimenti non sarebbe più originario perché sarebbe il prodotto cioè l’effetto di qualche altra cosa che quindi sarebbe più originaria, se l’originario ha la sua “causa” tra virgolette in qualche cos’altro, questo qualche cos’altro è più originario dell’originario. È il concetto stesso di originario posto in questa accezione che offre dei problemi, perché nel linguaggio è molto difficile stabilire un qualche cosa di originario, che cioè sia la condizione per altro ma essendo lui stesso incondizionato. Poniamola in modo ancora diverso. De Saussure dice che nel linguaggio non vi sono se non differenze, ma se la differenza non dipende da altro, e se dipendesse da altro non sarebbe originaria, allora non procede neppure dal linguaggio. Non essendo nel linguaggio non costruisce il segno per esempio, non costruendo il segno non costruisce la parola, non costruendo la parola non consente agli umani di parlare. Quindi se la differenza fosse effettivamente come dice Derrida “causa sui” non esisterebbe il linguaggio, ma siccome il linguaggio esiste allora, allora la differenza è strutturata anch’essa all’interno di un sistema di relazioni, cioè non esiste fuori da un sistema di relazioni, non esiste senza il segno, il quale non esiste senza la differenza, ma questa è un’altra questione che è diversa da quella che pone Derrida, perché dicendo che non esiste il segno senza la differenza e non esiste la differenza senza il segno, non sto dicendo che la differenza è originaria, sto soltanto dicendo che c’è una relazione tra queste due cose tale per cui l’una non si dà senza l’altra, che è esattamente quello che dicevamo tempo fa rispetto a Heidegger e a Nietzsche. Nietzsche affermava che la verità è un’illusione, ma senza la verità cioè senza un qualche cosa di stabilito non possiamo andare avanti, quindi lo stabiliamo, quindi per stabilire qualche cosa occorre che qualche cosa sia quello che è ma per essere quello che è non può che essere differente da sé, ma per essere differente da sé occorre che sia quello che è. Quindi porre la differenza come condizione, sì certo del segno, ma allo stesso tempo il segno come la condizione della differenza cambia tutto, a questo punto non è originario né l’uno né l’altro ma esistono in questo movimento. Immaginare l’elemento “originario” comporta il rischio di piombare nella metafisica più paralizzante, Prendiamo il linguaggio per esempio, abbiamo detto che il linguaggio è la condizione, ma il linguaggio è una serie di istruzioni, di comandi, di informazioni è tutte queste cose che lavorano insieme per costituire la possibilità di elementi linguistici, e nessuno di questi è originario, nessuno di questi può vantare la propria esistenza al di fuori del sistema in cui è inserito, al di fuori delle relazioni che lo rendono quello che è. Questo ha indotto taluni a pensare alla relazione come l’originario perché a questo punto diventa la relazione originaria ma non è così. Greimas nelle prime pagine della Semantica strutturale dice che quando ci sono due elementi questi due elementi in relazione, cioè a è in relazione con b, allora la relazione non è né a né b ma è un terzo elemento, appunto aRb (a e b in relazione tra loro) ma questa relazione in Greimas non è originaria, semplicemente è un qualche cosa che è prodotto dal fatto che due elementi coesistono e allora sono in relazione, ma senza questi elementi non c’è nessuna relazione, quindi la relazione non è originaria neanche lei. Per questo vi dicevo che tutta la teorizzazione di Verdiglione è una metafisica della parola, cioè muove dall’idea che la parola appaia, intervenga, succeda, si produca, si manifesti da sé senza essere prodotta da altro. Pensando che invece la parola è prodotta da altro allora accade che non più tutto quanto procede dalla parola, perché la parola stessa procede necessariamente da altro.

Ma torniamo al testo di Derrida, il quale ci dice così nella pagina 74: L’idea di impronta psichica (vi ricordate è il significante l’impronta psichica) comunica dunque essenzialmente con l’idea di articolazione (cioè sta dicendo che se si parla di significante si parla di articolazione, il significante è all’interno di un’articolazione perché se c’è una differenza c’è relazione, c’è articolazione) senza la differenza fra il sensibile apparente e il suo apparire vissuto (l’impronta psichica) la sintesi temporalizzatrice che permette alle differenze di apparire in una catena di significazioni non potrebbe compiere la sua opera (dunque dice che senza una differenza tra il “sensibile apparente” il suono e l’immagine acustica cioè l’impronta psichica, questa sintesi, che consente la costruzione poi del segno perché il significante diventa appunto significante, dice che questa sintesi non potrebbe apparire, quindi è necessaria la differenza tra il suono e l’impronta che questo suono lascia, non devono essere la stessa cosa: se si incolla il significante al significato si blocca l’articolazione, cioè non c’è più articolazione, non c’è più differenza e non c’è più la possibilità di spostamento cioè di differimento da un elemento all’altro, l’elemento sarebbe metafisicamente quello che è e basta e questo urta contro tutto ciò che verifichiamo rispetto alla lingua, al parlato che è continuamente in un’articolazione, in un differire continuo da un elemento a un altro) che l’impronta sia irriducibile vuol dire anche che la parola è originariamente passiva, ma in un senso della passività che ogni metafora intramondana potrebbe solo tradire, questa passività è anche il rapporto a un passato, a un “qui da sempre” che nessuna riattivazione dell’origine potrebbe pienamente padroneggiare e risvegliare alla presenza (se l’impronta si subisce, anziché essere qualcosa che agisce allora “questa passività è anche il rapporto a un passato, a un “qui da sempre” che nessuna riattivazione dell’origine potrebbe pienamente padroneggiare e risvegliare alla presenza” sta dicendo che se fosse così cioè che se l’impronta fosse subita allora essendo quello che è necessariamente impedirebbe la sua riattivazione perché la sua riattivazione comporta una temporalizzazione, un differimento fra la il presentare e il ri-presentare, ma dice “nessuna riattivazione dell’originario potrebbe pienamente padroneggiare e risvegliare alla presenza”, non ci sarebbe più nessuna riattivazione di qualche cosa, se questa impronta fosse soltanto subita non potrebbe riattivarsi nel ricordo per esempio) questa impossibilità di rianimare assolutamente l’evidenza di una presenza originaria ci rimanda dunque ad un passato assoluto, (qui aggiunge che “c’è un’impossibilità di rianimare”, adesso facciamo un passo ulteriore “di rianimare ciò che è stato in quanto tale”, se non c’è la possibilità di rianimare qualche cosa in quanto tale, perché sappiamo che se lo rianimiamo, lo rianimiamo attraverso la sua ripresentazione, può ri-presentarsi quindi come altro, allora, dice Derrida, “questa impossibilità di rianimare l’assoluta evidenza di qualche cosa che è stato, ci rimanda ad un passato assoluto”, un passato cioè che non ha soluzione, un passato che non ha più accesso, che è cancellato totalmente) ed è questo che ci ha autorizzato a chiamare “traccia” ciò che non si lascia riassumere nella semplicità di un presente, ci si sarebbe infatti potuto obiettare che nella sintesi indecomponibile della temporalizzazione la “protensione” (lui chiama “ritenzione” il trattenere il ricordo per esempio, il trattenere un qualche cosa nel momento in cui appare e la “protensione” il volgere questo qualche cosa verso altro, trattenere, fermare, muovere) la protensione è altrettanto indispensabile che la ritenzione, le loro due direzioni non si sommano ma si implicano l’un l’altra in modo strano (c’è una ritenzione, qualcosa viene fermato, ma questo qualcosa che viene fermato non può apparire, non può darsi se non preso in un movimento, cioè questo qualcosa che è fermo è quello che è in quanto, direbbe Heidegger, “in vista di” sempre necessariamente, non può non essere se non “in vista di”. Questo qualcosa che è fissato, questa ritenzione che dà l’idea di qualcosa che si ferma non c’è senza, adesso usiamo termini heideggeriani, senza essere all’interno di un progetto, senza essere in vista di qualche cos’altro, quindi questo qualche cosa che io fermo se è sempre e comunque anche in vista di qualche cos’altro come lo identifico, se è identificato dall’essere “in vista di”? Ma questo “in vista di” a sua volta è identificato dall’essere ritenuto, qualcosa che è fermo come condizione per potere muoversi, cioè il movimento come la condizione per stabilire qualcosa che è fermo per intenderci) ciò che nella protensione (cioè in questo essere gettati) ciò che nella protensione si anticipa disgiunge il presente dalla sua identità a sé, non meno di ciò che nella traccia si ritiene (sta dicendo che ciò che si anticipa nella protensione cioè nell’essere verso qualche cosa, andare verso qualche cosa, se io vado verso qualche cosa anticipo qualche cosa, “disgiunge il presente dalla sua identità a sé”: se io dico che qualcosa è identico a sé a condizione di essere qualche cosa che è in vista di, allora è come se io ponessi un’obiezione a questa identità a sé, è identico a sé ma è sempre continuamente in vista di qualche cos’altro quindi è anche altro, è sé ma anche altro da sé) privilegiando l’anticipazione si sarebbe allora rischiato di cancellare l’irriducibilità del “qui da sempre” e quella passività fondamentale che si chiama “tempo” (non si può eliminare uno a vantaggio dell’altro, non si può togliere la protensione a vantaggio della ritenzione, entrambe le cose sono simultanee, non c’è l’una senza l’altra, come dire che un elemento è quello che è perché è differente da sé, cioè perché esiste in quanto relato con tutti gli altri elementi, questo lo diceva già De Saussure, ma per potere dire che qualche cosa differisce da sé occorre che io l’abbia determinato, che lo abbia individuato, e cioè che l’abbia posto come identico a sé. Cos’è che non hai inteso Simona? Il fatto che un elemento per essere identico a sé occorre che sia differente da sé? Quando tu dici che qualcosa è quella che è, è perché l’hai determinata, come se ne avessi ritagliati dei confini, e allora la individui cioè la rendi “individuo”, non ulteriormente divisibile, cioè è quella che è, ma per giungere a questo tu l’hai determinata questa cosa, cioè hai posto che questa cosa è tutte quelle determinazioni che la individuano, tutte queste determinazioni che la individuano non sono quella cosa lì propriamente. Una parola qualunque per essere quella che è deve essere fatta di altre parole, se no è niente, “essere fatta” cioè essere in relazione con altre parole, quindi la parola è quella che è in quanto è in relazione con altre parole, ma essendo in relazione con altre parole, essendo necessariamente in relazione con altre parole è anche queste altre parole, quindi è quella che è ma è anche altro da sé, è quella parola ma è anche quelle altre parole simultaneamente e necessariamente non si possono disgiungere le due cose, è poi questo che sta dicendo Derrida) Il concetto di “presenza” di “passato” di “avvenire” e tutto ciò che l’evidenza classica suppone nel concetto di “tempo” e di “storia”(il tempo è fatto di presente e passato) il concetto metafisico di “tempo” in generale non può descrivere adeguatamente la struttura della traccia (cioè di questa “dif-ferenza”, differenza per esempio tra la parola che è quella che è e la parola che è altra da sé, c’è una differenza ed è questa la differenza che conta per Derrida) e decostruire la semplicità della presenza non porta solamente a tener conto degli orizzonti della presenza potenziale, e anche di una dialettica della protensione e della ritenzione che si installerebbe nel cuore del presente invece di farglielo abbracciare /…/ dunque non si tratta di complicare la struttura del tempo pur conservandogli la sua omogeneità e la sua successività fondamentale (in questa decostruzione del concetto metafisico di “tempo” non si tratta di togliere il tempo così come è stato sempre pensato, come una successione di eventi, di stati, dimostrando per esempio che il presente passato e il presente futuro costituiscono originariamente, dividendola, la forma del presente, questo presente già non è unitario perché c’è un presente passato, c’è un presente futuro) una tale complicazione che è insomma quella stessa descritta da Husserl si attiene malgrado un audace riduzione fenomenologica all’evidenza, alla presenza di un modello lineare oggettivo e mondano, l’ “adesso b” sarebbe in quanto tale costituito dalla ritenzione dell’ “adesso a” e la protensione dell’ “adesso c” c’è “a” “b” c” il “b” è l’adesso (sta dicendo ma questo “adesso” è in relazione all’adesso di prima e all’adesso di dopo, questo già in Husserl, di fatti lo cita, quindi questo “b” è costituito dal presente “adesso”. Questa è un’obiezione che fa alla metafisica della presenza, la presenza immediata che è tutta qui e adesso, dice no, non è vero, perché il tutto qui adesso è debitore del tutto qui di un attimo fa, del tutto qui fra un attimo, è fatto di queste cose, non può esistere da solo, non può esistere appunto senza la ritenzione di qualche cosa che si è trattenuto, si è fermato poterlo gettare in avanti)malgrado tutto il gioco che ne seguirebbe (per il fatto che ciascuno di questi tre “adesso” riproduce in sé questa struttura) il modello della successività impedirebbe che per esempio un “adesso x” prenda il posto dell’ “adesso a” e che per un effetto di ritardo inammissibile per la coscienza un’esperienza sia determinata dal suo presente stesso, da un presente che non avrebbe preceduta immediatamente ma che gli sarebbe largamente anteriore (sta ripetendo che non è possibile che ciò che è qui e adesso non sia debitore di ciò che l’ha preceduto e di ciò che lo seguirà) è il problema dell’effetto ritardo il nachträglich di cui parla Freud la temporalità cui egli fa riferimento non può essere quella che si presta a una fenomenologia della coscienza o della presenza che senza dubbio allora si può contestare il diritto si può ancora chiamare “tempo” adesso, presente, anteriore, ritardo eccetera tutto ciò di cui abbiamo qui discusso (lui si riferisce a Freud quando usa questa parola tedesca nachträglich, che i francesi traducono con après-coup, un effetto ritardato, in Freud la cosa è evidente quando descrive ciò che accade nella coscienza, lo descrive non come qualche cosa che è presente immediatamente adesso, ma qualcosa che è debitore di qualche cosa che è stato e che ancora non è, la coscienza non riesce a cogliere il presente tutto intero, tutto in se stesso senza avere questo movimento di andata e ritorno per cui ciò che adesso vedo non è semplicemente ciò che mi si presenta ma è ciò che è stato costruito, è stato già da sempre presente in qualche modo perché è nel linguaggio comunque, e che continuerà a essere presente anche dopo. Questa è un’obiezione alla metafisica della presenza, tutta e identica a sé presente adesso, se la presenza non è tutta identica a sé presente, questo ha delle implicazioni per esempio nell’esperienza: quando chiunque esperisce un qualche cosa esperisce appunto qualche cosa, questo qualche cosa di cui l’esperienza è fatta dovrebbe essere appunto la presenza, il darsi, il manifestarsi quella che gli antichi chiamavano la παρουσία,  la manifestazione dell’ente, mi si manifesta qui adesso, ma non è così dice semplice la cosa perché insieme con questo, con ciò che vedo, a parte che non so quello che vedo, ma a parte questo ciò che mi si presenta è sempre comunque preso in un differimento rispetto a ciò che è stato e ciò che sarà, il che significa per dirla in una parola che il vedere qualche cosa, il manifestarsi di qualche cosa non è fuori dal linguaggio, quindi è connesso con infiniti altri elementi che hanno preceduto questa visione e che seguiranno questa visione. La παρουσία, il manifestarsi di qualche cosa non è mai innocente, semplice, immediato, puro, è sempre travolto da una quantità sterminata, direbbe Freud, di fantasie) fra la coscienza, la percezione interna, esterna e il mondo la rottura forse non è possibile sia pure nella forma sottile della riduzione (quella trascendentale di Husserl, cioè questa rottura totale per cui ci si sgancia totalmente la coscienza dal mondo esterno Derrida dice che probabilmente non è possibile, cosa che gli si potrebbe obiettare utilizzando le sue stesse parole che se il “mondo” questo mondo esterno prevede, necessita di una percezione, quindi di un esperienza, e lui stesso diceva che non c’è la percezione, di quale mondo sto parlando?) è dunque in un certo senso inaudito che la parola sia nel mondo radicata in quella passività che la metafisica chiama “sensibilità” in generale (è impossibile in ogni caso anche se questa rottura non fosse possibile, comunque è impossibile che la parola sia radicata in quella passività, cioè che la parola non sia altro che un recepire un qualche cosa del mondo esterno, cioè la descrizione di un dato di fatto, chiamata “sensibilità” in generale cioè io percepisco qualche cosa e la parola la descrive, lui dice no, questa è un’assurdità) dato che non si dispone di un linguaggio non metaforico da opporre qui alle metafore bisogna come voleva Bergson moltiplicare le metafore antagoniste /…/ che il logos sia anzitutto impronta e che questa impronta sia la risorsa scritturale del linguaggio significa sì che il logos non è un’attività creatrice, l’elemento continuo e pieno della parola divina eccetera ma non si sarebbe fatto un passo fuori dalla metafisica se se ne traesse soltanto un nuovo motivo del ritorno alla finitezza, della morte di dio eccetera, è questa concettualità, questa problematica che bisogna decostruire, esse appartengono all’ontoteologia che contestano, la differenza è anche altro dalla finitezza (c’è un elemento che merita di essere considerato: quando dice che il “logos essendo anzitutto impronta non è un attività creatrice” in effetti per lui non lo è il logos, il linguaggio, perché l’unica cosa che “crea” tra virgolette, che ha questa virtù del potere creare le cose è la traccia, cioè la scrittura.