12 marzo 2025
Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo
Come vi avevo accennato, questa sera leggiamo qualche breve proposizione da un articolo di Beierwaltes Ascesa ed unione nello scritto mistico di Bonaventura «Itinerarium mentis in Deum». In questo articolo Beierwaltes parla di una cosa che a noi interessa in questo preciso momento, perché riprende in fondo quello che dicevamo mercoledì scorso, e cioè la conoscenza come un prodotto della religione. La conoscenza, per essere conoscenza, deve essere sicura, le cose devono stare così, perché io possa dire di conoscerle; se le cose mutano e divengono interrottamente, non posso dire di conoscerle. Ora, però, sorge il problema: cosa o chi mi garantisce che le cose stiano proprio così? Posso garantirle in qualche modo? Esiste, se vogliamo dirla alla Aristotele, un universale che possa fare a meno dei particolari?
Intervento: Quindi, la domanda essenzialmente si traduce nel pretendere che l’universale non sia indotto.
Sì, esatto, ma se non è indotto che cos’è? È rivelato. Ecco, il passaggio è questo: l’universale è rivelato. E Beierwaltes parte proprio da un testo di Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, Itinerario del pensiero verso Dio, il pensiero che va verso Dio alla ricerca dell’universale non indotto ma rivelato. Ora, il titolo di questo articolo è Ascesa ed unione nello scritto mistico di Bonaventura. Ascesa e unione. L’unione è la henosis (ἕνωσις in greco), che non è altro che l’estasi, perché è la unione mistica con Dio, con l’Uno di Plotino, comunque con un qualche Dio. Questa unione mistica, questo andare verso l’Uno, verso Dio è henosis. …il dispiegarsi creativo di Dio nel suo mondo e il suo ritorno spiritualizzante non è pensabile come concezione o struttura di riflessione senza la normatività neoplatonica di «manenza, processione e ritorno»; essa è la nervatura concettuale di ciò che si persegue da un punto di vista teologico. Normatività. Come dire che questa idea circolare del passaggio dall’Uno all’Intelletto e all’Anima e poi il ritorno, ecc., è diventata normativa con il neoplatonismo, normativa per il pensiero filosofico e, quindi, potremmo dire, per il pensiero. Come «maestro interiore» in ogni forma di sapere, Cristo diventa «Mediatore» universale anche per questa sfera, Principio di fede e sapere. Ma anche qui si deve considerare la determinazione filosofica, di gran lunga più intensiva, di ciò che è teologico, che nella peculiare delimitazione esplicita di Bonaventura nei confronti di una filosofia apertamente riconoscibile come tale, non viene affatto colta. Ciò riguarda innanzitutto elementi neoplatonici: la teoria dell’ascesa e dell’auto-superamento, … Qui siamo a Hegel: l’autosuperamento. …che si compie nell’unione; il concetto di un Dio che è «al di sopra» e allo stesso tempo «in» tutto, oppure che è «in» tutto, senza con ciò togliere la sua trascendenza o assolutezza; la concezione dell’idealità «esemplare» o di Dio come modello creativo, che abbraccia e ha in mente le Idee come mundus archetypus, dell’immagine condizionata temporalmente di mondo e uomo; un concetto di unità e bontà che, insieme a quello dell’«Essere assoluto» come tratto fondamentale di Dio, accanto alle valenze puramente teologiche ha carattere sostanzialmente filosofico; una teoria del conoscere che si basa su un concetto ontologico di Idea e luce, per la quale la Grazia è senz’altro determinante in modo essenziale; il rapporto noetico con una gradazione dell’Essere in sé differenziata (mediata da Dionigi nel concetto di «Gerarchia») ed il modello con questo connesso della processione (egressus) creativa e del ritorno (regressus) all’origine, che corrisponde ad una emanatio immanente al Principio (della Trinità) ed al suo ritorno (connexio) unificante. Ecco, non fa altro che ripetere la stessa cosa, e cioè questo egressus, poi c’è il regressus, circolarmente, che è esattamente la teoria di Hegel: dall’in sé che per egressus diventa per sé e, poi, il per sé torna sull’in sé. Degli scritti di Bonaventura nessuno è tanto adatto quanto l’Itinerarium mentis in Deum, iniziato nell’ottobre del 1259, a rendere comprensibili le implicazioni filosofico-neoplatoniche del suo pensiero: ascesa, auto-superamento e unione mistica con l’origine e l’archetipo della mens, dello Spirito. È sempre lo stesso meccanismo. … l’ultimo grado del passaggio conduce in Dio stesso, per contemplationis excessum il passaggio trasformante equivale alla morte mistica nell’unione. Nell’unione avviene quella che già Plotino chiamava la morte mistica, cioè la persona muore al mondo per accedere al Dio Assoluto. Platone, nella sua teoria delle Idee collega la metafora della via con quella della luce. La sua totale intensità filosofica concerne il percorrere una via; il pensiero deve assicurarsi in modo permanente l’inizio razionale e la meta che compie. Quindi deve essere sicuro del da dove parte; quindi, almeno una cosa deve essere certa, deve essere stabilita, deve essere indubitabile, incontrovertibile. Il rendersi conto della normatività o «metodicità» di questo cammino e nello stesso tempo il diventare consapevoli del contenuto delle fasi o gradi di questa via «ascendendo», questo è la forma e l’impetus del pensiero dialettico. Più chiaro di così. Nel senso della similitudine della retta nella Repubblica, per esempio… Una retta, cioè, un cammino diritto che da un certo punto stabilito porta verso l’ascesi. …questo pensiero si dirige verso un obiettivo che all’inizio del cammino si delinea solo in modo indistinto come il tralucere di ciò che è in senso proprio: l’Idea, ultimamente l’Idea del Bene che fonda tutte le Idee come principio anipotetico. Anipotetico: an- (non) ipotetico, quindi sicuro, certo, sempre incontrovertibile. L’ascesa dialettica si conforma ad un Essere strutturato in sé gerarchicamente, a cui sono peculiari diversi gradi di intensità. /.../ Il ternario che sempre ritorna: extra nos (al di fuori di noi) - intra nos (in noi) - supra nos (al di sopra di noi) da una parte segnala la direzione del cammino da seguire, dall’altra le sfere che ne segnano i gradi in sé differenziati: temporalia (temporale; corporalia) - spiritualia (spirituale) - aeterna (eterno). Chi si è accorto, al di là di Beierwaltes, del neoplatonismo di Hegel? È un po’ lo stesso discorso che facevamo tempo fa: chi si sarebbe mai accorto, se non Heidegger, dell’ἒν πάντα εἰναι di Diels? Soltanto ultimamente, dice da qualche parte Beierwaltes, si è ripreso in mano il neoplatonismo in modo un po’ serio; prima era poco considerato, un po’ come i presocratici, che venivano considerati fantasiosi, divertenti, filosofi minori. Invece no, perché non è neanche più un modo di pensare, ma è diventato il pensare. Ecco perché non ci si accorge. Plotino, d’altra parte, è rimasto fedele in modo deciso alla dottrina platonica del cammino, attraverso la sua concezione della dialettica ascendente, attraverso l’astrazione (aphairesis) universale, ad essa collegata, che segue la massima «Tutto nell’intimo». È da lì che è sorta l’idea che bisogna sentirlo dentro, nell’intimo, è tutto lì. La verità sta lì, devi sentirla, e se non la senti è perché non ne sei degno. …le è conforme il ritorno nella propria interiorità, che conduce a un diventare cosciente di sé o ad un auto-accertamento del pensiero. Questa idea dell’autocoscienza di sé, su cui poi si è costruita tutta la psicologia e tutto il pensiero, viene da lì, da questa idea che dentro, da qualche parte, ci sia la verità. Questo ritorno è già di per sé da intendere come una fase dell’ascesa al fondamento che permette il cammino… Che è sempre verso l’Uno. …esso culmina nell’auto-superamento del pensiero dialettico, nell’estasi o henosis. Il compimento di questo cammino nel suo insieme è da cogliere in modo pregnante anche nella metafora di Ulisse e questo nel senso di un «ritorno a casa», in «patria» («Padre» è l’Uno stesso), di una «Odissea dello Spirito». L’estasi è la contemplazione dell’ineffabile, di quel qualche cosa che si presuppone esistere, che però non può essere colto con i sensi, perché può essere colto solo dall’introspezione, dal guardarsi dentro. La «contemplazione riflettente». Qui è Hegel. La contemplazione riflettente è l’autocontemplazione dell’in sé, che si autocontempla e diventa per sé. La «contemplazione riflettente» della creazione sensibile mediata dalle «tracce», è il primo stadio verso una contemplazione «in» loro, che è diretta all’«essenza» di Dio operante attraverso loro e in loro, alla sua «potenza» e «presenza»; essa «internalizza» il macrocosmo come traccia reale di Dio attraverso le facoltà dell’anima come microcosmo. Questa trasformazione del mondo sensibile attraverso la sua percezione sensibile (apprehensio), la «gioia» (oblectatio) per questo o l’assenso alla struttura di ordine del mondo che si manifesta come bellezza ed il giudizio (diiudicatio) che si compie secondo regole o leggi a priori, invariabili, «necessarie», ultimamente fondate nella «verità eterna» o «arte eterna», che rappresenta una conoscenza sicura (certitudinaliter) di quello che si è appreso, queste tre sono risposte sempre diverse, dipendenti l’una dall’altra, al carattere universale di traccia o di segno del creato. La bellezza è l’armonia, sì, certo, ma questa armonia è fondata su che cosa? Tra poco lo dirà, è fondata su qualcosa di certo, che deve essere sicuro, che non può essere mutante, ma su una verità eterna che rappresenta una conoscenza sicura. Prima parlavamo della conoscenza. Ecco, l’unica conoscenza sicura è quella che si affida a una verità eterna, non ce ne sono altre. Omnia esse numerosa: «Tutto è numerabile», ossia determinato dal numero, costituito nel suo essere e così ordinato in se stesso e nel riferimento reciproco. Il numero è il fondamento della proporzionalità (proportionalitas) o uguaglianza (aequalitas) di relazioni che si incontra in ciò che esiste nel suo insieme; da questo deriva la bellezza di ciò che esiste;… Cioè, dalla proporzione fondata sul numero. …la bellezza come categoria ontologica, formulata nel significato di Agostino, approfondita in modo nuovo da Bonaventura, «non è nient’altro che uguaglianza numerabile». Con questo, tuttavia, non si intende la ripetizione vuota, tautologica o esteriore di forme, bensì piuttosto la relazionalità, ordinata dal Principio, di parti ad un Tutto, l’organizzarsi di un Tutto, sia questo formato in modo naturale o attraverso l’arte, come armonia che determina all’interno e che appare anche all’esterno. La numerabilità di ciò che esiste viene ricondotta da Bonaventura, seguendo Boezio ed Agostino, al «numero assoluto», ossia al numero come Idea nello Spirito del Dio creatore, dell’«arte eterna». Questo, infatti, attraverso l’atto della creazione è fondamento e causa della numerabilità e ciò significa della determinatezza, della delimitazione, della «finitezza» e perciò, infine, anche della conoscibilità e discernibilità di ciò che esiste. Qui è molto chiaro. Come risolve il problema del numero? Con l’idea del numero. L’idea del numero è assoluta perché è nella mente di Dio; per Platone era nell’iperuranio, che poi è diventata la mente di Dio. «Quando lo Spirito contempla se stesso esso si eleva come attraverso uno specchio nel riflesso (contemplazione) della beata Trinità del Padre, del Verbo e dell’Amore, delle tre Persone co-eterne, uguali e consustanziali, cosicché Ciascuna è in Ciascun’Altra, l’Una però non è l’Altra, bensì le Tre sono un solo Dio». Qui riprende in fondo quello dicevamo tempo fa, e cioè il tre serve a mantenere l’unità dell’uno e del due, che diventano uno grazie al tre, che unifica. Ma se l’uno e il due sono ciascuno l’altro, il tre non unifica più niente, perché non si possono unificare, in quanto sono la stessa cosa. Le facoltà della mens pensante e del suo «apice» come possibilità di auto-superamento… Continua con questa idea dell’autosuperamento, che è completamente hegeliana. …non sono fondate solo a priori, bensì in modo assoluto: attraverso la connessione «del nostro intelletto con la verità eterna stessa». È questo che garantisce, solo questa è la garanzia: la connessione del nostro intelletto con la verità eterna, cioè, con Dio. …per cui è primariamente concepibile una conoscenza sicura (certitudinaliter scire) delle definizioni, della verità delle proposizioni e della correttezza delle conclusioni. Perché è sicura questa correttezza delle conclusioni? Per via del fatto che il nostro intelletto si autosupera e si volge alla verità assoluta. Soltanto guardando la verità assoluta, ma dove la trovo la verità assoluta? Dentro, nell’intimo. Questa connessione viene determinata più precisamente come una presenza operante della luce divina (che «viene disegnata o plasmata sul nostro spirito») e delle Idee invariabili date in essa, cosicché noi conosciamo e contempliamo in essa e attraverso essa (in loro e attraverso loro). Ci chiedevamo come fa ciascuno, a modo suo, a credere che le cose che pensa siano vere. Cosa lo garantisce? Quando uno ha un’idea sugli altri, sulle cose, su di sé, pensa che questa idea sia vera, quindi, ci crede e si comporta di conseguenza. Ma da dove gli arriva questa idea che quello che pensa sia così? Non c’è nulla al mondo che possa garantirlo. Questa è una questione importante perché è il modo di pensare di ciascuno continuamente. Quando diciamo il pensiero che pensa se stesso, a che cosa pensa? Sì, certo, i molti, ma tiene conto del fatto che ciò che io penso, quindi ciò che io credo, non può in nessun modo e per nessun motivo escludere i molti, non lo può fare. Ciò che io penso non può escludere i molti in nessun modo, è questo che mi “impedisce” di credere in quello che penso, cioè, che ciò che io penso sia proprio così. Non potrei pensarlo se non potessi non tenere conto che, sì, io penso una certa cosa, che magari è anche così, ma non potrà mai, per nessun motivo al mondo, essere solo quello che io penso che sia. Questo significa tenere conto dell’uno e dei molti, ἒν πάντα εἰναι. Ci si può porre di fronte a ciò che si pensa come a un racconto che non necessita di una verifica verofunzionale.
Intervento: La questione è che quando si parla si cerca sempre di imporre all’altro…
E per poterlo imporre occorre che le cose che io dico siano quelle necessariamente, perché, in effetti, se potessi pensare che le cose che dico, sì, magari è anche così, ma sicuramente non è soltanto quello, e non può esserlo, allora la volontà di potenza, come direbbe Nietzsche, digrigna i denti, perché non ne vuole saperne di una cosa del genere, vuole invece che le cose stiano così perché solo così posso imporle all’universo-mondo, perché io dico come stanno le cose. I tratti fondamentali dell’Essere assoluto sviluppati da Bonaventura, da intendere ultimamente in una prospettiva filosofica, sono tuttavia nel loro insieme una prova della sua intima «mobilità»: Immutabilità dell’Essere significa auto-presenza della vita divina non «disturbata» dal non-essere, che rimane atemporalmente uguale a se stessa. L’«Essere» è talmente collegato con il concetto di Dio nel senso dell’argomento ontologico di Anselmo che il suo non-essere non può essere pensato nemmeno una volta: Dio come massimo dell’Essere (in questo contesto: dell’esistenza) «obbliga» il pensiero ad intenderlo come Essere assoluto e perciò anche come la condizione di tutti i predicati assoluti riferiti a lui:… Il pensiero di Anselmo, sta dicendo, obbliga a pensare alla necessaria esistenza dell’essere e quindi alla sua totale e irrimediabile distanza dal non-essere. Il non-essere sarebbe non pensabile in questo caso - tutto sommato, è vicino a Parmenide – perché se lo penso esiste, non posso pensare ciò che non esiste. /…/ l’«Essere più puro» come «totale fuga dal non-essere». Poiché la possibilità implicherebbe un non-essere, un essere esposto al non-essere-ancora, egli è «atto puro» (purus actus, summe actualissimum), attività pura in se stesso e creativa in altro, non limitato (arctatum) né in sé, né fuori di sé da altro, differente da lui, niente di «determinato» (determinato solo da se stesso),… Qui torniamo al problema che abbiamo sempre riscontrato, cioè, non è determinato da altro ma è determinato da se stesso; quindi, è determinato; quindi, non è determinato ma è determinato. …niente di «analogo»,… L’analogia è eliminata, quindi, l’induzione a questo punto diventa fondamento. …bensì fondamento di ogni analogia o carattere di immagine in ciò che esiste, nessun «genere», perché così potrebbe forse essere inteso come «dello stesso tipo» all’interno dell’apertura dell’universale al particolare (ipsum esse extra omne genus), mentre egli stesso per primo fonda questo rapporto in ciò che è creato. Questo rapporto di induzione è creato da Dio. Ecco perché l’induzione a questo punto è una garanzia, perché non può essere l’analogia, che è una similitudine, somiglia un po’ di qua, un po’ di là, ma c’è un’induzione creata da Dio. A questo rinvia anche l’interpretazione di Bonaventura della proposizione dal Libro dei Ventiquattro Filosofi: «Dio è una sfera intelligibile (infinita) il cui centro è dappertutto e la cui periferia non è in nessun luogo», ossia non si limita proprio al finito, ma è infinita: periferia e centro (dispiegarsi e sua origine) insieme, mentre il soggetto stesso di questa Unità abbraccia Tutto fondandolo. La delimitazione paradossale di «centro» e «periferia» spiega perciò l’Essere assoluto di Dio come dialettica: mobilità che esiste di per sé e movimento che pone l’essere verso l’esterno, insieme con movimento che riconduce a se stesso come fine (finis) in tutto ciò che esiste grazie ad esso. Quello che ha fatto Hegel è “dissolvere” il problema del movimento di Zenone, perché, di fatto, per Zenone il movimento non è possibile, perché posso considerarlo solo come quiete, così come l’infinito posso pensarlo solo come finito; in Hegel, invece, il movimento è un qualche cosa che avviene in un certo qual modo senza movimento, perché questo movimento riconduce sempre allo stesso, torna al punto di partenza. È un movimento circolare dove, in effetti, non c’è più il problema, com’era per Zenone, della infinita divisibilità. Perché, dice, l’Unità abbraccia Tutto fondandolo. Questa unità (Aufhebung) abbraccia tutto, cioè l’uno e i molti, fondandoli. Il plotiniano panta eiso (Tutto è nell’intimo) ed il suo aphele panta («spogliati di Tutto») hanno il loro pendant nel «lasciare-Tutto» di Bonaventura. Anche questo è paragonabile: la henosis plotiniana (o anche procliana) è il risultato di un salto o di un’estasi che trascende il comprendere mediante il «Non-Nous», la cui Origine, l’Uno stesso, può «essere detta» da colui che l’«ha vista». Lui mette giustamente tra virgolette “l’ha vista”, perché non è esattamente un vedere con gli occhi, è un vedere dentro, è un vedere che è un sentire. Dunque, il salto. Ecco, il salto è in fondo l’estasi. Sta dicendo qualcosa del genere, l’estasi come quel salto che consente di passare dall’antecedente al conseguente, per usare termini logici. Un salto che non è garantito da niente se non dall’estasi. Garantisce, quindi, il conseguente, perché è come se il conseguente misticamente si rivolgesse all’antecedente e traesse, quindi, dall’antecedente la sua validità. Quindi, non più l’ύμάρχειν aristotelico ma l’estasi. Vale a dire, il “se A allora B” regge perché la B guarda estaticamente la A, è in contemplazione mistica della A, e la A è quello che è perché viene dal pensiero di Dio.
Intervento: Quindi, non è nemmeno più necessario stabilire un principio all’induzione e anche alla deduzione, perché l’induzione è il ritorno all’Uno, a Dio, e la deduzione la sua contemplazione.
Sì. Potremmo dire così, per riprendere Hegel, dall’in sé per induzione fino a raggiungere il per sé, che poi per deduzione torna all’in sé. Il passaggio «dal mondo al Padre» ha però premesse e scopi differenti rispetto al pensiero neoplatonico; la metafora di Ulisse segnala il ritorno universale, il «ritorno in patria» nella patris, in cui l’Uno è il «Padre»; il «ritorno in patria» nel «porto mistico» equivale all’acquietarsi di ogni agitazione nel senso della sua soddisfazione: quiete, pace, silenzio sono le caratteristiche di questo «stato», non dissimile almeno a limine dalla soddisfazione attraverso requies, pax, silentium. L’acquietarsi di ogni agitazione: è il ritorno all’Uno, è l’unificazione. Si cerca l’unificazione perché è ciò che dà pace, ciò che dà quiete. Questo ritorno all’Uno è esattamente la ήδονή di Aristotele. Quando siamo arrivati all’Uno finalmente c’è la pace, quando avremo eliminato tutti i nemici finalmente ci sarà la pace. Vanno eliminati tutti, e dopo c’è la pace, la quiete, il silenzio. Di questo bisogna sempre tenere conto, che la pace, la quiete e il silenzio sono le caratteristiche di questo stato, dice lui, non dissimile dalla soddisfazione, che potremmo dire procede dall’unificare. In effetti, unificando si tolgono i molti che, come diceva Platone, sono i cattivi, sono quelli che rumoreggiano, che danno fastidio e, quindi, vanno eliminati. Dopo, c’è il silenzio, la pace perpetua. Però, se consideriamo questo aspetto anche nel discorso comune, corrente, di chiunque, ci si rende anche conto di quella necessità - che avverte anche Spinosa, senza problematizzarla in questi termini, certo, ma anche perché era un neoplatonico anche lui – di cercare assolutamente l’unificazione per trovare la soddisfazione, perché è l’unica, autentica, vera soddisfazione; l’unica ήδονή è l’unificazione. L’Uno è l’idea della pace, della soddisfazione. In questo diventare-se stesso (perfectio) attraverso l’auto-superamento… Che poi l’autosuperamento non è altro che l’accorgersi, come diceva Plotino, di essere nulla e, quindi, volere tornare al creatore, cioè, all’Uno. …culmina il motivo cristologico adempiuto esistenzialmente dell’ascesa. L’ascesa è questo, è diventare se stesso attraverso l’autosuperamento. Quindi, occorre autosuperarsi. Quindi, conferma quella cosa, poi ripresa dal cristianesimo abbondantemente, della nullità dell’umano a fronte di Dio. Nell’analisi descrittiva e insieme protrettica... Il discorso protrettico è una figura retorica, è un discorso programmatico, quello che invita a fare una certa cosa, che dice cosa bisogna fare. …di questo pensiero si mostra a colui che comprende il compiersi di questa dinamica una integrazione paradigmatica di filosofia e teologia. Eccola lì: finalmente siamo tornati, la filosofia come teologia. Che era l’idea di Aristotele, ma per Aristotele il Dio era tutt’altra cosa. Invece qui, finalmente, si arriva a un’integrazione di filosofia e teologia, perché la teologia è quella che fonda la filosofia, che dà alla filosofia la certezza di potere dire come stanno le cose. Ora, tutta la filosofia, anche quella contemporanea, è teologia in questa accezione, perché pensa sempre di potere dire come stanno le cose; magari in modo provvisorio, magari in modo incompiuto, però questa è la direzione giusta, sappiamo che stiamo andando nella direzione giusta. E invece no, non stiamo andando nella direzione giusta, non stiamo andando da nessuna parte. Come dicevo prima, in effetti, è questo passaggio il più difficile da compere, cioè, avvertire che ciò che io credo, penso essere vero, potrebbe anche essere che le cose stiano parzialmente così momentaneamente, ma di sicuro non stanno solo così, non è soltanto così come io credo sia. Questo è inevitabile. Torniamo al testo Platonismo e idealismo, a pag. 139. Non è tanto nel passaggio dall’Uno allo Spirito che si constata in Plotino un’analogia oggettiva con la categoria schellinghiana della caduta, in quanto la processione dello Spirito dall’Uno, se non viene considerata uno sviluppo dell’Uno di valore equivalente all’Uno stesso, non è neanche da pensarsi come molteplicità radicale o essenziale. La processione si è fermata per il momento all’Uno essente. L’analogia sorprendente è piuttosto nel passaggio dall’eternità al tempo. Perché - secondo Plotino - esiste il tempo? Lo Spirito è l’unità senza-tempo di pensiero ed essere, è l’eternità in cui tutto quello che è-da-pensare (le idee) è raccolta in una contemporaneità puntuale, in cui tutto ciò che è da pensare è “già da sempre” pensato e portato al suo télos. Ora, qui c’è una questione che sarebbe interessante da svolgere perché, in effetti, è un po’ come nel linguaggio: è già tutto presente. Solo che lui pone questo nell’Uno, è in Dio che è tutto presente, non nel sensibile, nelle cose, nello Spirito, nell’Intelletto; no, solo in Dio, solo lì, dove anche la contraddizione c’è, ma lui è al di sopra della contraddizione.
Intervento: Sembra che stia parlando del linguaggio.
Sì, e infatti Plotino e anche altri si sono accorti del problema, solo che mentre noi questa cosa, che almeno provvisoriamente chiamiamo simultaneità o che diceva Eraclito con ἒν πάντα εἰναι, la poniamo in ciascun atto, qui è invece isolata, è messa nell’Uno e resa inoffensiva, ma funziona, per cui lì ci può stare anche la contraddizione, perché è Dio che gestisce il tutto. …il tempo è caduto dall’eternità. È il modo di pensare di Plotino: come mai c’è il tempo? Perché è caduto dall’eternità. Questo significa che il tempo era nell’eternità, quale non-tempo, nel modo d’essere del suo fondamento portante, e cioè non (ancora) realmente lui stesso. Quindi, non tempo. Dunque, c’è il tempo ma non è tempo. Quindi, queste contraddizioni si possono tranquillamente considerare perché sono in Dio. Possiamo noi mettere in discussione quello che pensa Dio?