12 febbraio 2025
Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo
Ho qui un testo, le Enneadi di Plotino pubblicate nel 1986 da Bibliopolis e tradotte da Vincenzo Cilento, dove si trova un’esortazione di Marsilio Ficino, filosofo del XV secolo. È una paginetta dove espone praticamente il manifesto del Neoplatonismo. Dice Ficino. Sin dal principio esorto tutti voi qua convenuti per udire il divino Plotino, ritenere che udirete proprio Platone che parla nella persona di Plotino. In verità, sia che Platone rivivesse un tempo in Plotino, in ciò consentiranno senz’altro con noi i pitagorici, sia che il medesimo demone ispirasse dapprima Platone e poi Plotino, nessun platonico vorrà mai negarsi questo. Certo è comunque che un medesimo spirito scorre nella parola platonica e in quella plotinica. Esso, tuttavia, effonde, espirando, un respiro più vasto in Platone; in Plotino, invece, un soffio più religioso e via via, per non dire più religioso, non meno religioso e, persino, talvolta quasi più profondo. Uno stesso nume, pertanto, spande sul genere umano, per bocca di entrambi, i suoi oracoli, che ebbero degnamente dall’una e dall’altra parte un interprete quanto mai acuto, poiché egli nell’opera platonica mira a svolgere l’involucro del mito; in quella plotinica invece adopera con ogni cura sia ad esprimere in ogni campo sentimenti di una segreta intimità, sia interpretarli con brevissima parola. Ricordate, inoltre, che voi non riuscirete giammai a penetrare lo spirito e il senso di Plotino, né se vi fate accompagnare dal senso, né se vi fate guidare dalla ragione, ma vi riuscirete soltanto allora che vi lasciate ispirare da un più sublime spirito. Certo si è che noi, a voler usare la parola platonica siamo avvezzi a definire i restanti uomini anime dotate di ragione. Per Plotino, invece, non si tratta più di anima ma di spirito, senz’altro. Proprio così, del resto, lo chiamavano i filosofi contemporanei. E voglia Iddio che nell’interpretare tali misteri ci abbia assistito e soccorso Porfirio o Eustochio o Proclo, i quali ordinarono ed esposero i libri di Plotino. Questo, però, io lo spero e val tanto di più un divino aiuto, che non venga mai meno a Marsilio, nel tradurre e nello svolgere cose divine, quali i libri plotinici Ma accostiamoci ormai anche noi serenamente, tratti di là gli auspici, al primo libro e gli altri successivamente per darne la versione ed esporne in breve l’argomento. Quanto a voi, vogliate pur credere che Platone in persona così esclami additando Plotino: egli solo è ispirato, gli altri svagano a guisa di ombre. Ora, vi ho letto questo, perché ci introduce a Beierwaltes. Questa ripresa del neoplatonismo, avvenuta nel Rinascimento, è importante perché ci mostra come questa ripresa abbia poi strutturato il pensiero per i secoli successivi, dando l’avvio alla scienza e a una serie di cose notevoli. Beierwaltes, che è un fine lettore di Plotino e dei neoplatonici, mostra qui un passaggio importante, cioè, il passaggio dall’essere, così come è pensato dai greci, al Dio dei cristiani. Da duemila anni gli umani si interrogano intorno all’essere. Qualcuno potrebbe chiedersi perché mai, che interesse ha l’essere in quanto tale. Potrebbe apparentemente non avere nessun interesse, ma non è proprio così. L’essere non è altro che il significato. L’ente è il significante, ciò che si dice, ma questo ente non è nulla senza il significato, che fa dell’ente quello che è. L’essere nella tradizione è esattamente questo: ciò che fa essere l’ente quello che è. Quindi, il discorso intorno all’essere è un discorso intorno a ciò che rende l’ente quello che è, cioè il suo significato, quello che lo supporta, che lo fa esistere. Se voi pensate a questo, cioè, all’essere come ciò che fa esistere l’ente, immediatamente avete risolto il problema del cristianesimo: l’essere, cioè, Dio, fa esistere le cose, le ha creato ex nihilo. Heidegger: l’essere è come quel raggio di luce che fa esistere le cose, perché le illumina, le fa apparire, le fa uscire dall’ombra – la famosa ἀλήθεια. E, allora, se si pensa tutta la disquisizione avvenuta nel corso di duemila anni, anzi di più, intorno all’essere, ci si rende conto che non è altro che un modo di pensare ciò che fa esistere le cose, ma che le fa esistere in quanto, diremmo oggi, significato delle cose, in quanto significano qualcosa. È questo l’essere, ed è anche il motivo per cui per più di duemila anni ci si è indaffarati intorno all’essere, perché, se riesco a intendere perfettamente che cos’è l’essere, riesco a intendere perfettamente qual è il significato necessario dell’ente, cioè, che cosa l’ente significa e, quindi, ho in pugno l’ente, cioè, le cose. A questo punto, è come se, in un certo senso, diventassi Dio e facessi esistere le cose, perché dico che cosa significano, dicendo che cosa significano dico che cosa sono, divento padrone dell’universo. E, allora, è importante e interessante anche vedere dove ci conduce Beierwaltes, perché lui ci porta alle vette più alte della teologia filosofica. La teologia filosofica è quella che muove da Dio per intendere l’essere. La teologia religiosa è quella che fa il percorso inverso: muove dall’essere per giungere a Dio. Beierwaltes non era un teologo, però conosceva molto bene la teologia, soprattutto quella medioevale. Ha fatto questo lavoro incredibile di cogliere il modo in cui si è passati, come dicevo all’inizio, dall’essere greco al Dio cristiano; perché c’è stato un passaggio, non è che sia accaduto così, all’improvviso. È come il pensiero pensante di Aristotele, il pensiero che pensa, che per Aristotele è Dio (θεόν), che è stato trasformato, da Plotino prima e poi dai neoplatonici, in un pensiero che pensandosi si autoproduce, si crea da sé, la famosa autoctisi di Gentile: si autocrea pensandosi. Questo era assente in Aristotele: il pensiero che pensa è semplicemente il pensiero che, dopo avere considerato le varie cose, si accorge che la cosa migliore - che per Platone era il Bene - rimane il pensiero, perché tutte le altre cose, gli altri enti, che mano a mano vado considerando, sono sempre delle cose che girano intorno al pensiero… Lo aveva detto bene anche Gentile: quando penso a una qualunque cosa, in realtà sto pensando il mio pensiero, quindi, è sempre il mio pensiero che penso. Per Aristotele questo pensiero è, sì, Dio, ma è Dio in quanto pensa a quanto c’è di meglio, cioè, se stesso, perché le altre cose non sono alla stessa altezza. Non lo sono perché sono particolari, di volta in volta cambiano, si alterano, mentre il pensiero è ciò che lega, accomuna tutte queste cose, è ciò che le rende possibili, ed è questa la cosa migliore che possa essere pensata. Poi, ripresa anche da tutta la tradizione medioevale, da Plotino stesso: per avvicinarsi all’Uno bisogna purificarsi, liberarsi di tutti gli enti. È una ripresa, in fondo, religiosa di ciò che diceva Aristotele, il quale si rendeva conto benissimo che non è così semplice abbandonare tutti gli enti. Però, diceva che comunque pensare il pensiero è quanto di meglio sia possibile pensare. Detto questo, veniamo a questo scritto di Beierwaltes, che ha come titolo Il neoplatonismo e l’idealismo. Si tratta dell’idealismo tedesco, naturalmente, quindi Kant ma soprattutto Fichte, Schelling, Hegel. Nelle prime pagine, nell’introduzione, dice È soprattutto in Schelling che potremmo rilevare strutture neoplatoniche. Questa impostazione, che coinvolge anche Goethe, Novalis e Hegel, mi è sembrata più sensata che non una che incominci da Fiche. In Hegel e Proclo si provvede all’esplicazione, fondamentale anche per la parte del capitolo precedente dedicato a Hegel, di quale sia il luogo logico-sistematico che la filosofia neoplatonica in generale occupa nel pensiero di Hegel. Benché, dal punto di vista della struttura e del “filo” del libro, apparisse più opportuno anticipare questa esplicazione, ho preferito lasciarla in questo capitolo perché le riflessioni intorno a Hegel Proclo costituiscono così un tutto in sé concluso. Il primo capitolo si chiama Deus est esse, esse est Deus (Dio è essere, essere è Dio). Il problema onto-teologico come struttura di pensiero aristotelico-neoplatonica. Uno degli interrogativi fondamentali per il filosofo greco è quello che volge intorno all’essere. Alla domanda cosa sia questo essere solo però state date diverse risposte e si è così rivelato come la domanda sia differenziata e quante possibilità implicite contenga: l’essere in quanto inizio o fondamento puro e semplice, ciò che è di per se stesso e in quanto a se stesso, per mezzo del quale e nel quale, d’altra parte, sussiste tutto il resto, si concepisce come λόγος, ἒν, ἰδέα, πρὠτη ούσία o νούς. Tutte queste denominazioni non sono però nulla di per sé “particolare”, ma semplicemente modi di essere o di manifestarsi di ciò che è al massimo grado universale, concepito come l’essere vero o l’essere in senso proprio. L’essere, quindi. Dice bene qui: πρὠτη ούσία, cioè, la sostanza prima, ciò che viene prima di ogni cosa. È la ricerca dei principi primi. Per Aristotele la filosofia prima è una teologia perché si occupa dei principi primi, perché cerca l’origine delle cose, άρχή e αἳτια, l’origine e la causa. Quindi, cercando l’origine e la causa, cerca Dio, in fondo. Dove Aristotele trova Dio? Nel pensiero che pensa se stesso, lì trova quello che lui chiama Dio, che non è il Dio a cui pensiamo noi oggi, chiaramente, è un’altra cosa, è Dio in quanto è ciò che fa quanto di meglio è possibile, cioè pensare se stesso. Ma questo Aristotele non lo attribuisce a qualcuno che sta da qualche parte, ma è il parlante stesso il qualcuno da cui ci si aspetta che faccia una cosa del genere. Questa causa originale, questo punto di partenza di ogni cosa, lo sappiamo bene, Aristotele lo ha cercato, certo, e dove lo ha trovato? Nella doxa, cioè, nel mito. E, allora, succede che la filosofia nasce come una sorta di definizione del mito e abbandono del mito verso la ragione. Però, già Aristotele a un certo punto si accorge che il fondamento della ragione non è così fondato né fondabile. E, allora, se la ragione non è fondata né fondabile, si ritorna alla doxa, cioè, al mito. È come se Aristotele avesse percorso rapidissimamente tutta la storia del pensiero occidentale, pur vivendo venticinque secoli prima; si è accorto che la ragione, a cui si incominciava allora a dare l’importanza che poi ha avuto, di fatto non può sostenere nulla, non sostiene nemmeno se stessa e, quindi, non ci rimane che la doxa, non ci rimane che il mito, per continuare a parlare, a pensare, ecc., perché dal mito partiamo e al mito ritorniamo, in quanto la ragione fallisce. Ricordatevi ciò che diceva negli Analitici secondi rispetto al sillogismo, all’universale: l’universale non c’è, non esiste, lo abbiamo inventato noi, per nostro comodo, ma non c’è nulla di universale che non sia al tempo stesso particolare. L’universale è fatto di particolari, non è che sia un’altra cosa rispetto ai particolari, è i particolari. Quindi, è come se la ragione, la sua promessa iniziale - pensate anche al positivismo - avesse fallito. È come se avesse in qualche modo anticipato tutto questo, la fine della ragione. Si accorge che non può andare oltre la doxa, non può andare oltre l’opinione; perché tutto ciò che si suppone che possa andare oltre l’opinione deve essere fondato, ma non può essere fondato in nessun modo, rimane infondato. L’affermazione che la protologia (discorso sulle origini) è verificata nel modo più evidente attraverso il ricorso ad Aristotele, che concepisce la “filosofia prima” o metafisica appunto come “teologia”. Questo tipo di pensiero è detto poi “filosofia prima” perché si interroga sulla πρὠτη ούσία o άρχή, sulla sostanza prima o fondamento onnicomprensivo, universale, di cui non ha più senso chiedere il perché e perciò in-condizionato. Che cos’è ciò di cui non ha più senso chiedersi il perché? La doxa. La doxa è l’unica cosa che risponde a questa domanda. Non ha senso chiedersi il perché della doxa, perché ciò che si trova, come diceva Aristotele, è altra doxa, e così via all’infinito. La sostanza prima è in sé indivisa e indivisibile, separata dal mutevole (da ciò che è in movimento), fondamento, esente dal processo – e cioè dal tempo -, di tutto ciò che in un processo si trova: “motore” primo dunque, che è lui stesso immoto (immobile = non movibile, immutabile). Questa era l’idea della filosofia prima, che cerca questa cosa. Essendo il primo che muove e che produce mutamenti, tutto “dipende da lui”; a ciò che ne dipende è però essenziale una tensione verso il Primo, paragonabile all’attrazione nei confronti di un “amato”. Qui la citazione è tratta dalla Fisica di Aristotele. Perché questa connessione degli enti, che vogliono tornare al primo motore (motore immoto)? È facile da intendere al punto in cui siamo: perché tutti gli enti, per essere pensati, quindi, detti, ecc., devono venire unificati. Il pensiero unifica necessariamente, non posso pensare l’infinito, come sanno bene i matematici; se lo penso, lo penso in quanto finito, cioè, uno. Ecco perché, come ci si accorse fin dall’inizio, tutti gli enti vanno verso l’uno. Questione poi ripresa da Plotino, come sappiamo, ma in termini religiosi; per Aristotele era una metafora: l’amato che cerca di unirsi a qualche cosa per fare uno. Ma, di fatto, sono gli enti che, per essere pensati, devo pensarli come uno. Quindi, cosa fanno questi enti? Si unificano; soltanto nella unificazione diventano pensabili e, quindi, utilizzabili. Per Plotino questo ritorno all’Uno è, invece, effettivamente un ritorno verso ciò che li avrebbe prodotti; per Aristotele no, l’uno non ha prodotto proprio niente, anzi, l’uno è eventualmente il prodotto delle categorie – la sostanza come prodotto delle categorie. Dire “prodotto” non è appropriato perché sono simultanee: la sostanza è le categorie. Il Primo è al contempo la cosa migliore, la cosa in sé più preziosa, e, come è il migliore, così conduce anche la vita migliore: pensa. Ecco, questo è Aristotele. Perché è il migliore? Perché unifica, perché è ciò che consente di pensare, consente la conoscenza. In questo senso è il migliore, e quindi, proprio perché amato; quindi, attrae a sé tutti gli enti per poterli pensare, diventa il migliore, ciò che c’è di meglio da pensare. Oggetto del suo pensiero sarà l’oggetto migliore e, quindi, lui stesso. Dunque, il Primo pensa a se stesso, è pensiero del proprio pensiero. Mentre tutto quanto si muove viene promosso da uno stato di non-essere, (di possibilità) a uno stato di essere-in-atto (di realtà), la sostanza prima è e resta sempre ciò che è: realtà pura (ἐνέργεια) o, ex negativo, esclusione assoluta di possibilità. Realtà pura, in quanto tale, garantisce che l’attuazione di se stessa - il pensiero - abbia luogo costantemente, che essa cioè pensi costantemente se stessa. Questo pensare-costantemente-se stessa (la realtà dello spirito) e la “vita” della sostanza prima. Questa è la teologia in accezione aristotelica, e cioè quel pensiero che pensando se stesso fa non soltanto quanto di meglio possa fare ma anche ciò che non può non fare. Può non accorgersi che pensando qualunque cosa pensa se stesso e credere, invece, di pensare la cosa immaginandola fuori dal suo pensiero, ma fuori dal suo pensiero non c’è niente. Una nota a pagina 14. Veramente era già presente, a livello implicito, anche in Platone, nel cui pensiero l’idea del Bene occupa il posto che avrà più tardi il Dio aristotelico. Si e no, perché il Bene assoluto di Platone è un’idea che sta lassù. Il Bene assoluto, se vogliamo continuare a usare questo termine, per Aristotele è qualcosa che è qui e adesso, cioè, è il pensiero che pensa se stesso, non è qualcosa che sta lassù. Da qui il famoso quadro di Raffaello: Platone che alza la mano verso l’alto e Aristotele che la apre verso il basso. L’idea del Bene è sì, “al di là dell’essere”, è tuttavia al tempo stesso fondamento dell’essere delle idee, è anzi detta essa stessa “il più splendido degli enti”, o “il più beato degli enti”. Il “Sopra-essere”, quale venne concepito più tardi a partire da questo pensiero, non è diminuzione dell’essere, ma anzi una sua potenziazione. Con ciò è preparato, almeno oggettivamente, il terreno all’identificazione di Dio, con l’essere vero. Questo è il passaggio. Lui ce la mostra in poche parole. È stato necessario non Aristotele ma Platone, che poneva il bene come qualche cosa che è al di sopra dell’essere – ricordate Plotino: l’Uno è al di sopra dell’essere, è qualche cosa che è al di là dell’essere, che non è contaminato dall’essere, perché l’essere comunque è una determinazione e l’Uno non ha nessuna determinazione. A pagi. 24. Colui che, in sé privo di differenze, è il Non-molti… Qui c’è il fondamento di tutto: colui che è. Poi, ne parlerà, riprendendo quella formula dal Pentateuco: io sono colui che è. Dunque, colui che deve essere privo differenza è il Non-molti, è ciò che nega i molti, α-πολλων, da cui Apollo. L’unità come tratto fondamentale dell’essenza di Apollo (= del Dio) giustifica anche gli altri suoi nomi: il Puro e Santo, perché l’Uno è puro e mondo soltanto in quanto è libero dalla differenza. Su questo si è impiantato tutto, sull’eliminazione dei molti a vantaggio dell’uno. I molti dovevano essere eliminati, perché l’uno è il Non-molti. Questo è il passaggio dall’ἒν πάντα εἰναι di di Eraclito (l’uno è i molti) all’uno e i non-molti. Questo è il passaggio che ha consentito alla nascita della religione. A pag. 25. L’Uno non è essere. L’essere però procede dall’Uno... Stiamo facendo teologia, sempre nella sezione aristotelica. …ed è per mezzo dell’Uno. L’essere è dunque determinato dal fatto di non essere l’Uno stesso. È nell’essere però che l’Uno procede; l’essere è la processione dell’Uno. Quale sostanza indipendente (ipostasi)…. L’ipostasi è la sostanza indipendente, cioè, irrelata. …l’essere riferisce e rimanda all’originarietà dell’Uno la propria processione, ovvero se stesso in quanto processione dell’Uno. Cioè, l’essere viene dall’Uno ma continua a guardare all’Uno, in questo processo circolare: si parte dall’Uno, l’Uno riflettendo se stesso -- ci sono poi vari modi di esporlo - produce l’essere, il quale ritorna all’Uno. Tutto questo perché deve unificarsi, lo abbiamo visto prima: l’unificazione è necessaria, e questo è vero: non posso pensare senza unificare. Questo rimando all’essere, ovvero il ritorno all’Uno, dispiegato nell’essere, all’Uno stesso, si compie come riflessione o pensiero. Ecco, questo sarebbe il pensiero neoplatonico. Vedete la distanza dal pensare di Aristotele. Non è che in Aristotele il pensiero ritorni all’Uno, no, semplicemente pensa se stesso, è la sua attività migliore, quella eccellente, perché gli enti non sono all’altezza del pensiero. Quindi, il pensiero, se vuole pensare quanto c’è di meglio, non può che pensare se stesso. L’essere che procede dall’Uno ed è al di fuori dell’Uno è perciò essenzialmente Spirito (pensiero), che pensando si riconduce a se stesso e alla sua origine. Lo Spirito è quindi determinabile come l’autoriflessione dell’essere. Per Plotino il pensiero pensando ritorna all’Uno, quindi ritorna alla sua origine. Il pensiero pensante di Aristotele non torna alla sua origine, non ha origine o, meglio, l’origine è lì mentre pensa ciascuna volta, ma non ha da tornare a qualche cosa, anzi, ha da rimanere lì dov’è, e cioè nel pensiero, anziché sparpagliarsi negli enti. A pag. 26. …che lo Spirito, in quanto lo pensa, no, è l’ente o, in generale, l’essere atemporale: che lo Spirito, dunque pensando a se stesso è, e soltanto perché è essere pensa l’essere come se stesso. L’Uno non pensa, in teoria. Qui ci troviamo di fronte a un problema, perché questa autoriflessione dovrebbe avvenire nell’Uno, ma l’Uno non pensa; però, qui pensa e pensando produce l’essere, che è il suo pensiero. Plotino estrania un assioma di Parmenide facendone il modello per un pensiero assoluto e ipostatico: “La stessa cosa sono il pensare e l’essere”. L’identità dei due vanifica ogni priorità e concepisce lo Spirito come unità autonoma, come compenetrarsi reciproco di pensiero ed essere; in quanto tale lo Spirito è immutabile e reagisce rimanendo in se stesso. Alla proposizione di Parmenide Plotino combina la dichiarazione di Aristotele che la conoscenza, libera dalla materia, è identica al suo oggetto, e il detto di Eraclito: “Ho cercato me stesso”. Qui c’è un altro passaggio importante, in cui si vede come Plotino e il neoplatonismo abbiano stravolto modificando, torcendo i pensatori precedenti, tra i quali Parmenide. Pensare e essere sono lo stesso. Ora, per Plotino questa affermazione è la dimostrazione, in un certo senso, che questa identità tra le due cose compone l’Uno. Cosa che non c’è in Parmenide. Il pensiero e l’essere sono la stessa cosa, cioè, se penso sono, sono in quanto penso: è il pensiero che è l’essere, perché non abbiamo altro con cui abbiamo a che fare. Plotino unifica le due cose e, infatti, dice, L’identità dei due vanifica ogni priorità e concepisce lo Spirito come unità autonoma. A pag. 28. “L’essere stesso è in se stesso molteplice”. Il pensiero però fonda l’unità che l’Uno rende possibile... Questo è un altro passaggio importante. Il pensiero per pensare unifica. Ma qui dice una cosa in più. Il pensiero porta all’unità, necessariamente, non posso pensare l’infinito, ᾂπειρον; però, qui c’è un elemento in più, questa unità che l’Uno rende possibile. L’Uno preesiste questa unità. Questo unificare le cose è possibile, per Plotino, perché c’è un Uno. Qui c’è il richiamo alle idee di Platone: questo tavolo esiste perché c’è l’idea di tavolo lassù da qualche parte. Plotino riprende quasi alla lettera la questione, e cioè questa unità, che è necessaria per potere pensare, c’è perché c’è l’Uno; potremmo dire platonicamente che c’è l’idea dell’Uno. …pensare è un atto di sintesi; “molti elementi concorrono in uno stesso punto e si ha, di questo complesso, consapevolezza”, così almeno nel pensiero di se stesso, che per Plotino costituisce il pensiero in senso proprio. Nel pensare se stessa si acquieta il bisogno di sé della molteplicità prima. Nell’unificazione è come se, dice Plotino, il pensiero si acquietasse, trovando la sua pace nel ritorno all’Uno. Cosa assente in Aristotele. L’Uno invece, libero dalla differenza, non ha bisogno di se stesso, non “cerca” niente; l’autosufficienza dell’Uno è fondata sulla sua unità. Lui è l’Uno, Uno-uno, e non ha bisogno di niente. In teoria, non avrebbe avuto bisogno neanche di pensarsi, quindi, di creare tutte quelle cose. A pag. 29. La polarità di alterità e identità nell’essere, il quale è lo Spirito in quanto pensa, è la condizione del suo essere e dell’attuazione del suo pensiero. Qui ci si accorge che questa polarità dell’Uno e dei molti, questo movimento tra l’Uno e i molti, è ciò che produce il pensiero. L’Uno è invece affatto privo di differenza, pura unità senza alterità, del tutto “privo di parti”. Se questo privo-di-parti volesse “definire se stesso, dovrebbe anzitutto enunciare quello che non è - a tal punto che, per voler essere uno, cascherebbe, anche in tal maniera, nella pluralità! - e poi, allorché dica “io son questo” se nel termine questo esso vuole intendere qualcosa di diverso da sé, cade in una menzogna; se invece vuole intendere qualcosa che gli sopraggiunga accidentalmente, e allora egli si definisce così come pluralità; o, al più, potrebbe dire “sono sono” ed “io, io”. Come vedete, i problemi non mancano. A pag. 30. Dal momento che l’Uno è se stesso senza differenze, e quindi non pensa né è… Non è e non pensa, perché se fosse avrebbe l’essere come determinazione. …ne risulta che l’unico metodo adeguato per descrivere l’Uno è una dialettica negativa. Apofatica. Dell’Uno essa non predica nemmeno il termine più generale: non dice nemmeno che è, sebbene esso, in quanto realtà pura e semplice, sia la condizione e il presupposto di ogni pensiero e di ogni linguaggio. L’ineffabile come condizione di tutto. Già “è” sarebbe infatti un’aggiunta che distruggerebbe l’essere uno e l’essere buono, ovvero l’assoluto. E però anche vero, d’altronde, che del non-Uno, cioè anche dello Spirito, si può dire che “è” soltanto perché viene “mantenuto nell’essere” per mezzo dell’Uno, e, pensandosi, dal molteplice si raccoglie e compone in un’unità; per mezzo del pensiero la molteplicità dello Spirito è “dappertutto Uno”. Dice, però, che è anche vero che dal non-Uno si ritorna all’Uno, perché tutte queste cose, unificandosi, ecco che tornano all’Uno; perché, se si pensa, per pensarsi deve unificarsi. Quindi, l’Uno pensandosi trasforma questa molteplicità di nuovo in una unità. L’elemento distintivo fra l’unità assoluta dell’Uno e l’unità dell’essere che si pensa è un unico: differenza o alterità come “nuova” qualità ontologica e logica: l’unità originaria si è scomposta; divenuta, in qualità di essere, oggetto a se stessa (“altra”), si riafferma e ricompone tuttavia pensando in un’unità, che mantiene in sé la differenza e contemporaneamente la annulla. E qui c’è sempre la necessità di comporre l’uno e i molti. E allora qual è l’idea? Che, sì, ci sono i molti, però, pensandosi, questi molti si unificano, quindi tornano uno. Questo uno, quindi, è fatto di molti. Ma qui sembrerebbe, apparentemente, porre la questione in termini interessanti, solo che c’è sempre questo elemento che interviene, cioè l’Uno precede tutto; è perché c’è questa idea dell’uno che noi unifichiamo. Non è che unifichiamo per pensare, questo è l’effetto; noi unifichiamo perché c’è l’idea dell’uno al quale tendiamo e, quindi, è quest’idea dell’uno che ci consente di unificare. A pag. 34. Se si concepisce la Vita essenzialmente come alienazione (δύναμις) dell’Essere… Come alienazione ma anche come potenza dell’essere; cioè, è in questa alienazione che si che si produce la vita. Questa alienazione, potremmo dire, non è altro che il movimento tra l’uno e i molti - per Aristotele, tra δύναμις e ἐνέργεια …alienazione in quest’ultimo (nell’essere) preesistente nel senso di essere possibile e voluta -, oppure se la si concepisce - in confronto all’Uno “sopra-essente” dell’essere stesso - come Uno in quanto ente, allora terza fase atemporale deve essere pensata come annullamento riflessivo di questa alienazione o come ritorno dell’Uno secondo nel primo. La Vita trova così la sua perfezione nel pensiero. L’autogenerazione divina è simile a un cerchio che si allontana e ritorna al suo punto di partenza, svolgendosi secondo la regolarità dei momenti μονή – πρόοδος – έπιστροϕή. Torno all’Uno, allontanamento e circolarità. Nello sviluppo dell’essere come Spirito di Plotino, dell’uno come essere pensante di Porfirio (che recupera il Dio pensante di Aristotele per la filosofia neoplatonica) ... E un recupero che fa Porfirio ma nell’accezione neoplatonica, perché il Dio come pensiero di Porfirio non è il Dio di cui parla Aristotele. …e di Dio come unità che si pensa secondo un modello trinitario, abbiamo gli elementi di pensiero essenziali (da un punto di vista filosofico) a partire dai quali si costituisce, con diversa intensità di accentuazione, il concetto di Dio e di essere di Agostino. Quindi, questo è il passaggio dall’essere come spirito di Plotino, dell’Uno come essere pensante e, infine, Dio come unità che si pensa secondo un modello trinitario, cioè, come unità di tre persone. Queste tre persone vengono unificate secondo il modello che era già stato prestabilito. Il modello è quello del pensiero che per pensarsi deve unificarsi, necessariamente. “Ego sum qui sum” - inteso appunto sullo sfondo di questa tradizione - è per lui di fondamentale importanza: la frase gli è di incitamento ad intendere Dio come l’essere (vero). In “Ego sum qui sum” Dio dice il proprio nome; “Essere” è dunque il suo nome, che appartiene esclusivamente a lui. Cioè, io sono essere. Se torniamo a ciò che dicevamo all’inizio, l’essere come significato, dire “io sono essere” è come dire “io sono il significato delle cose”, io sono quella cosa che dà il significato alle cose, quindi, le fa esistere per quelle che sono. Essere nel senso di Agostino significa però “eterno” e cioè: immutabile, che è sempre (senza processo temporale) come è, identico a se stesso senza resti di differenza. Come per Plotino l’eternità e la vita dello Spirito, la forma fondamentale nella quale lo Spirito, unificandosi, concepisce se stesso, così per Agostino l’eternità è un tratto fondamentale dell’essenza divina, anzi, è addirittura identica all’essenza di Dio. L’essere, dunque, per il quale si intende Dio, e l’eternità si determinano a vicenda come l’oggetto e la sua immagine riflessa: poiché Dio è (è l’unico ad essere), è eterno o l’Eterno; poiché Dio può essere pensato come eterno, ne consegue che egli è, ovvero è l’essere. E qui c’è Anselmo: se posso pensarlo allora è, perché il pensiero è pensiero di qualche cosa, quindi, se lo penso esiste.