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11 ottobre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Sono importanti le cose che sta dicendo Heidegger. In modo sempre più preciso sta mostrando che l’Esserci è la gettatezza del suo costante progettarsi. Questo è un concetto complesso, da intendere più che altro in tutte le sue implicazioni, i suoi risvolti, però, già mostra immediatamente un qualche cosa che mette di fronte a quella stessa cosa a cui pensava Freud quando incominciò ad accorgersi che ciascuno vive di tutte quelle fantasie che sono all’opera ininterrottamente, mentre parla, pensa, dorme, fa o non fa qualunque cosa, comunque non può evitarsi di pensare. L’uomo, la persona, l’Esserci, non è altro che tutte queste cose, questa serie di fantasie che operano incessantemente, ininterrottamente, a creare scenari, a creare, come direbbe Heidegger, progetti. Di fatto, una fantasia è un progetto e una fantasia, direbbe Nietzsche non è che una fantasia di potenza. Quando, da qualche parte, Freud mette sull’avviso, quando per esempio una persona è particolarmente dedita al prossimo, agli altri, al benessere del prossimo, ecc., Freud mette sull’avviso, invita a riflettere bene, perché tutto questo buonismo, come si usa dire oggi, è fatto di cose che con l’essere buono, con l’essere caritatevole, ecc., non hanno proprio nulla a che fare, ma direbbe che è fatto di una rabbia feroce, tremenda, tenuta però molto bene a freno. Il che è esattamente la stessa cosa che dice Nietzsche quando dice “badate, tutta la ricerca della verità, del bene, ecc., non è altri che volontà di potenza, volontà di imporsi sull’altro”, secondo l’antico adagio latino homo homini lupus. Ciò che andiamo facendo, quindi, leggendo Heidegger, sempre più ci mostra in dettaglio questi aspetti che vanno sempre tenuti presente, perché il fondamento di tutto sta nel fatto che l’Esserci, la persona, è fatta del suo mondo, del mondo in cui si trova, e che non esiste senza questo mondo, non c’è, e Heidegger lo dice continuamente. A pag. 370. La strada finora percorsa dall’analitica esistenziale… L’analitica esistenziale è il nome che indica la filosofia di Heidegger, cioè l’analisi dell’esistente. …ha concretamente dimostrato la tesi dapprima semplicemente prospettata: l’ente che noi stessi sempre siamo è ontologicamente il più lontano. Questo procede da tutto ciò che ha detto prima. Quando l’Esserci riflette su se stesso, che cosa trova? La nullità, perché, essendo gettatezza, ciò su cui pensa di riflettere è già gettato e, quindi, ontologicamente, cioè rispetto alla ricerca che sta facendo Heidegger che punta all’essere, cioè alla sostanza dell’Esserci, questo ente, l’Esserci, risulta sempre più lontano, più voglio avvicinarmi e più quello si sposta. La ragione di ciò sta nella Cura stessa. La ragione di tutto questo sta nella Cura, ci dice. Perché? Perché la Cura non è altro che l’occuparsi, l’aver cura letteralmente, del mondo, ma l’aver cura del mondo significa essere gettato nel mondo, perché ci ha avvertiti che non c’è soggetto e oggetto ma che l’Esserci stesso è questa gettatezza. Quindi, il prendersi cura da parte dell’Esserci è un essere costantemente gettato verso l’utilizzabile, che può anche essere l’Esserci stesso. Dicendo che la ragione di ciò sta nella Cura, quindi, ci dice che la Cura è un altro dei modi per indicare l’Esserci, perché l’Esserci non è altro che l’avere cura del mondo che io stesso sono. Il deiettivo esser-presso ciò di cui si prende innanzi tutto cura nel “mondo” guida l’interpretazione quotidiana dell’Esserci e copre onticamente l’essere autentico dell’Esserci, privando della base adeguata l’ontologia di quest’ente. Questo è un altro modo, più articolato, per dire che la deiezione non fa altro che coprire l’essere che è a fondamento dell’ente. Vi ricorderete che Heidegger è stato il primo a porre la differenza ontologica, la differenza tra ente ed essere: l’ente non è l’essere, l’essere non è l’ente. Ovviamente, il prendersi cura del mondo, cioè il gettarsi nel Si, è ciò che copre l’essere dell’ente, perché ci si occupa soltanto degli enti immaginandoli come semplici presenze anziché essere il mondo che io stesso sono. E, infatti, dice La messa in chiaro dell’essere originario dell’esserci deve essere piuttosto strappata a questo ente contro la tendenza ontico-ontologica dell’interpretazione deiettiva. Quella del Si. Il modo di essere dell’Esserci… Qual è il modo di essere dell’Esserci? È la Cura. È in questo modo che l’Esserci “ci è” dentro il mondo. … esige quindi un’interpretazione ontologica che si proponga come fine l’accesso alla originarietà della sua presentazione fenomenica sì da cogliere l’essere di questo ente contro la tendenza al coprimento che gli è propria. Che è un altro modo per dire che occorre un atto di volontà, la volontà di decidere, di decidere di uscire dal Si, dalla deiezione. A pag. 371. L’essere dell’Esserci è tale da autointerpretarsi. D’altra parte, chi altri potrebbe interpretarlo se non se stesso? Nella scoperta del “mondo”, guidata dal prendersi cura e dalla visione ambientale preveggente, è scorto anche il prendersi cura. La visione ambientale preveggente, ricorderete, non è altro che questo modo di accogliere le cose di cui io sono fatto e che è preveggente nel senso che già sa che qualche cosa c’è. Non lo scopre, questo esserci di qualche cosa prende l’avvio dal fatto che l’Esserci, riflettendo su di sé, si accorge di essere e, quindi, pone già un esistente. È l’Esserci che si pone come esistente. L’Esserci si comprende già sempre effettivamente secondo determinate possibilità esistentive… Si comprende da sempre nel senso che nasce nel Si e, quindi, si comprende in base a tutte le cose che decide di fare, che ha voglia di fare. …magari in base ai progetti che traggono origine dalla comprensione comune del Si. L’esistenza è sempre in qualche modo con-compresa, esplicitamente o no, adeguatamente o no. Ogni comprensione ontica ha i suoi “presupposti”, magari solo pre-ontologici… Cioè, che non colgono l’essere… cioè non colti in modo tematico e teoretico. Questo è un punto importante perché dicendo che l’esistenza è sempre in qualche modo compresa, sta dicendo la stessa cosa che aveva detto nelle pagine precedenti. Che cosa fa sì che questa comprensione sia già sempre compresa? Per il fatto che questa comprensione è apertura a ciò che accade, al fenomeno. In questo essere aperto, che è la condizione della gettatezza, qualcosa, dice Heidegger, è già sempre compreso. Nel momento in cui l’Esserci si apre comprende; la questione è che l’Esserci è già sempre in qualche modo in questa apertura, cioè, è già sempre nella gettatezza. Andiamo a pag. 373. L’idea di esistenza che abbiamo postulato è lo schizzo, esistentivamente non obbligatorio, della struttura formale della comprensione dell’Esserci in generale. L’idea di esistenza, non l’esistenza, è il modo di avvertire la struttura della comprensione: L’idea, quindi, potremmo dire una fantasia rispetto all’esistenza: questa è la comprensione dell’Esserci in generale. Qui sarebbe interessante il testo in originale, in tedesco, perché non è chiaro se “comprensione dell’Esserci” è determinazione soggettiva o oggettiva, cioè, se è l’Esserci che comprende o se è una comprensione dell’esserci, perché sono cose differenti. Sotto la guida di questa idea, si è proceduto all’analisi preparatoria della quotidianità più vicina, fino alla prima definizione concettuale della Cura. Questo fenomeno ha reso possibile una concezione più precisa dell’esistenza e dei suoi rispettivi rapporti con l’effettività e la deiezione. La definizione della struttura della Cura ci ha offerto la base per una prima differenziazione ontologica di esistenza e realtà. Da ciò la tesi: la sostanza dell’uomo è l‘esistenza. La sostanza dell’uomo è l‘esistenza, dice. È un passo in avanti notevole rispetto, per esempio, ad Aristotele. Come si pensa generalmente la sostanza dell’uomo? Cos’è che definisce l’uomo? Essere animato, bipede, implume, ecc. Il dire, invece, che la sostanza dell’uomo è l‘esistenza cambia tutto perché, a questo punto, la sostanza, potremmo dire, ciò che di più proprio appartiene all’uomo, è il fatto che esiste, ma esiste come? Tenendo conto di tutto ciò che Heidegger ha detto nelle pagine precedenti, esiste in quanto gettatezza. Come dire che la sostanza dell’Esserci è la gettatezza, quindi, una sostanza che non è più pensabile come qualcosa, mi si perdoni il bisticcio di parole, di sostanziale, come qualcosa di immobile, fermo, fisso, come è la substantia, ciò che sta sotto a garantire che ciò che sta sopra sia quello che è. Dicendo che la sostanza dell’uomo è l’esistenza Heidegger è come se ci gettasse, per fare un po' il verso a Heidegger, nella gettatezza, cioè, non c’è più nulla di stabile, di fermo. Se questa è la sostanza, l’essere gettato - e sappiamo che l’essere gettato comporta che il fondamento della gettatezza è la nullità - allora, tirandola un po' ma neanche poi tantissimo, si potrebbe dire che la sostanza dell’uomo è il nulla. Ma anche questa idea dell’esistenza, formale ed esistentivamente non obbligatoria, porta già in sé un “contenuto” ontologico determinato benché non chiarito, il quale, al pari dell’idea di realtà che si contrappone a esso, “presuppone” un’idea dell’essere in generale. Soltanto entro l’orizzonte di tale idea può aver luogo la distinzione fra esistenza e realtà. Ambedue significano infatti essere. La sostanza, filosoficamente, è stata molto spesso posta come la base della realtà, come ciò che rende la realtà quella che è, la realtà ha una sostanza, senza sostanza che realtà è? Dice Heidegger che questa idea di realtà presuppone un’idea dell’essere in generale, cioè, parlando di realtà si presuppone che la realtà sia. Infatti, lui sottolinea che si presuppone, cioè si dà già per acquisito che sia, quindi, che ci sia l’essere per potere parlare di realtà. Dice che soltanto a partire da questa idea può aver luogo la distinzione tra esistenza e realtà, ambedue infatti, dice, significano essere, ma “essere” nell’accezione di Heidegger, non essere in generale. L’essere per Heidegger è l’essere dell’Esserci, l’essenza dell’Esserci, e l’essenza dell’esserci è la Cura, è la gettatezza. Quindi, questa distinzione tra esistenza e realtà parrebbe non essere così ben definibile. Ma l’idea dell’essere in generale non raggiunge forse la sua chiarezza ontologica solo in virtù dell’elaborazione della comprensione dell’essere propria dell’Esserci? Qui comincia a precisare la questione dell’essere. Dice: ma questa idea di essere in generale, se vogliamo porla in modo ontologicamente corretto, non viene anche questa dall’Esserci? Anche perché, in assenza dell’Esserci, di cosa parliamo? Questa però può essere colta originariamente solo sul fondamento di un’interpretazione originaria dell’Esserci attuata seguendo il filo conduttore dell’idea di esistenza. Qui già comincia a precisare, perché questa idea dell’essere come essere dell’Esserci può essere colta soltanto sul fondamento di un’interpretazione dell’Esserci, cioè, soltanto se pensiamo l’Esserci riusciamo a pensare l’essere in modo adeguato, tant’è che Heidegger giunge a cogliere l’essere dell’Esserci in quanto Cura, in quanto è ciò che è l’Esserci propriamente, cioè gettatezza, progetto gettato. Ma con ciò non si fa in fondo chiaro che il nostro svolgimento del problema ontologico fondamentale si muove in un “circolo”? (pagg. 373-374) Devo comprendere l’Esserci per sapere dell’essere ma se non c’è l’essere dell’Esserci come faccio a pensare l’Esserci? È il circolo ermeneutico. Poco più avanti dice L’“accusa di circolo” mossa all’interpretazione esistenziale dice: prima si “presuppongono” le idee di esistenza e di essere in generale, “poi” si procede all’interpretazione dell’Esserci al fine di trarne l’idea di essere. Questa è l’accusa di circolo: devo pensare l’essere per poter pensare l’Esserci ma senza l’Esserci non posso porre l’essere. Ma che significa “presupporre”? Con l’idea di esistenza si è forse stabilita una premessa dalla quale poi, avvalendosi delle regole formali dell’inferenza, si dedurrebbero conseguenze intorno all’essere dell’Esserci? Questa idea dell’essere dell’Esserci, dice, è desumibile logicamente da un’idea qualunque di esistenza? O, invece, questo “pre-supporre” ha il carattere del progettare comprendente, cosicché l’interpretazione che elabora questa comprensione cede finalmente la parola proprio all’ente che deve essere interpretato… Cede la parola a ciò che deve interpretare. …affinché esso, in base a se stesso, decida se, in quanto è tale ente, possiede o no quella costituzione ontologica in conformità alla quale esso fu aperto nel progetto mediante un’indicazione formale? Sta dicendo questo: l’essere dell’Esserci non può essere desunto inferenzialmente dall’idea dell’essere, dall’idea di esistenza. Heidegger dice che non è questa la via, bensì un’altra. Infatti, dice, questo “pre-supporre” ha il carattere del progettare comprendente, anziché la presupposizione di qualche cosa, e cioè il presumere che dall’idea, dalla fantasia dell’esistenza si possa trarre il concetto di Esserci, lui parla di progettare comprendente. Perché? Sta qui la questione importante; infatti, questa comprensione cosa fa? Cede la parola all’ente che deve essere interpretato, cioè, cede la parola all’Esserci, perché è lui che interpreta, chi altri potrebbe interpretare? Quel termosifone, no, di sicuro. È solo l’Esserci che interpreta, cioè l’uomo. Quindi, questa interpretazione, che elabora la comprensione, cede la parola proprio a quell’ente che deve essere interpretato, perché è lui che interpreta, affinché esso, in base a se stesso, decida se, in quanto è tale ente, possiede o no quella costituzione ontologica in conformità alla quale esso fu aperto nel progetto mediante un’indicazione formale. L’Esserci a questo punto si interroga se lui stesso possiede o è quelle stesse condizioni che consentono l’interrogazione. E come può l’Esserci avere queste condizioni? Lo ha detto prima: attraverso la comprensione, cioè, l’apertura, apertura che non è altro che la gettatezza. Vedete, è qualcosa che sembra ritornare sempre su se stesso. Infatti, parla spesso di circolo, d circolo vizioso. Potremmo dire che sta qui l’essenza del pensiero di Heidegger, un qualche cosa che è come si allontanasse dall’Esserci per poi tornarci perché trova nell’Esserci le proprie condizioni di esistenza. Qualunque cosa io voglia interpretare, questa interpretazione non soltanto muove da me, ovviamente, da questo ente che io sono in quanto Esserci, verso qualche cosa ma, andando verso qualche cosa, questo andare non è altro che la gettatezza di cui io sono fatto. Quindi, questo interpretare dell’Esserci non è altro che un modo per comprendere l’Esserci nella sua gettatezza, e cioè per comprenderlo in quanto Cura. L’Esserci in quanto Cura è questo: un interpretare che si accorge che per interpretare trae da sé le proprie condizioni per potere compiere questa operazione, che chiamiamo interpretare, che non è altro che andare verso un qualche cosa ma un qualche cosa che io già sempre in qualche modo sono. Perché lo sono? Perché io, cioè l’Esserci, non sono altro che pura possibilità. Qui sta anche la questione della precomprensione, che vedremo più avanti, cioè, qualunque cosa che io incontri era già possibile, tutto è già presente in quanto possibilità.

Intervento: il linguaggio…

Se lei vuole porre la questione intorno al linguaggio, potremmo dire così: qualunque cosa io possa pensare, dire, congetturare, immaginare, qualunque cosa è già presente in quanto possibilità linguistica, possibilità di essere detta, pensata, ecc. Non è molto lontano da ciò che diceva de Saussure quando faceva la sua distinzione tra Langue e Parole. Non diceva propriamente così, però, si può fare una sorta di connessione con la langue di de Saussure, per cui la Langue può essere vista come l’insieme di tutte le possibili esecuzioni del linguaggio. Il linguaggio le comprende tutte, comprende tutto ciò che io posso fare con il linguaggio. Però, tornando a Heidegger, dice che occorre cedere la parola perché è l’Esserci che fa tutte queste cose. Certo, si getta verso qualche cosa ma il fatto di essere gettato è l’essere stesso dell’Esserci. Non è che da una parte c’è l’Esserci e dall’altra c’è la gettatezza, no, l’Esserci è la gettatezza. È questo che rende il pensiero di Heidegger abbastanza complesso. C’è forse un altro modo in cui l’ente può prendere la parola intorno al proprio essere? Se non considerandosi in quanto ente, cioè, in quanto Esserci? Nell’analitica esistenziale il “circolo” nella dimostrazione non può mai essere “evitato”… Anche questo è importante in Heidegger. Non si cura minimamente di eliminare il circolo, per lui non è un problema, è il modo in cui funziona. È propriamente ciò che descrivevamo tempo rispetto al linguaggio quando dicevamo che un elemento, per essere un utilizzabile, deve essere quello che è, non può cambiare mentre lo sto usando, altrimenti non so cosa sto usando, ma al tempo stesso, per poter essere quello che è, come direbbe de Saussure, deve essere in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. In altri termini, è quello che è ma per essere quello che è occorre che ci siano simultaneamente tutti gli altri significanti, perché se non ci fossero quell’elemento non solo non sarebbe quello che è ma sarebbe niente. Noi non abbiamo mai parlato di circolo, non era necessario, però, anche questo può essere visto come un circolo: per essere quello che è deve essere altro da sé ma per essere altro da sé deve essere quello che è. Nell’analitica esistenziale il “circolo” nella dimostrazione non può mai essere “evitato”, poiché essa non dimostra affatto secondo le regole della “logica dell’inferenza”. Non si tratta di una dimostrazione logica perché, se fosse una dimostrazione logica, sarebbe una situazione paradossale. Sarebbe un paradosso perché un elemento, per essere quello che è, è necessario che non sia quello che è. Quindi, questa posizione logicamente non è sostenibile ma lui non si cura affatto di questo. Ciò che la comprensione comune vorrebbe eliminare per evitare il “circolo”, credendo di attenersi in tal modo al sommo rigore della ricerca scientifica, è niente altro che la struttura fondamentale della Cura. Qui dice un’altra cosa molto fine, non è semplicissima da cogliere ma va colta, se vogliamo leggere Heidegger con un qualche profitto. Dice che la comprensione comune, per evitare il circolo, cancella la Cura. Ma cosa ci sta dicendo con questo? La comprensione comune, potremmo dire la logica… sarebbe da interrogare questa cosa: perché gli umani hanno un’assoluta e incrollabile fiducia nella logica? Infatti, è come se ogni ragionamento dovesse seguire queste regole logiche. Che cosa garantiscono queste regole logiche? Rispose bene Wittgenstein: garantiscono che abbiamo seguito, a partire da regole che noi abbiamo poste, quelle stesse regole e siamo giunti a una conclusione. Però, dice una cosa precisa, e cioè che bisogna togliere di mezzo la Cura, ma la Cura non è altro che la gettatezza dell’Esserci nella sua apertura. Soltanto a questa condizione, dice, è possibile evitare il circolo, per questo motivo: perché l’Esserci è questa gettatezza, questo essere gettato continuamente in avanti, quindi, essendo questa gettatezza, si condanna lui stesso alla nullità, mentre il pensiero comune vorrebbe fermare qualcosa. L’Esserci, in questo caso, sarebbe la premessa dell’argomentazione: io tengo fermo l’Esserci e poi mi muovo con una serie di passaggi, ecc.

Intervento: non posso determinarlo…

Esatto. Posso determinarlo solo se tolgo la Cura, cioè se tolgo, come dice Heidegger, l’essere dell’Esserci, la gettatezza. Non dico più che l’essere dell’Esserci è gettatezza ma dico che l’essere è qualcosa di fermo, di stabile. Togliendo la Cura si arriva a questo e, allora, sì, si può immaginare fantasmaticamente che non sia più un circolo vizioso, perché ciascun elemento non trae più la propria esistenza da qualcosa che minaccia la sua esistenza, esattamente, come dicevamo prima, come un termine, una parola, che è quella che è a condizione di non essere quella che è. È esattamente ciò che Heidegger descrive rispetto all’Esserci: l’Esserci è quello che è a condizione di non essere quello che è, perché se è continuamente gettato non è altro che questa gettatezza, cosa su cui Heidegger insiste sempre, è chiaro che ogni volta che torna indietro non si trova più, da qui la colpa, l’angoscia, ecc. Originariamente costituito da essa (la Cura), l’Esserci è già sempre avanti-a-sé. Esserci è essere sempre avanti a sé continuamente. Essendo, esso si è già sempre progettato in determinate possibilità della sua esistenza… L’Esserci è già queste possibilità, cioè, si è determinato in queste possibilità. L’Esserci, di fatto, non è altro che pura possibilità. …e in questi progetti esistentivi ha preontologicamente con-progettato qualcosa come l’esistenza e l’essere. Soltanto progettandosi l’Esserci fa esistere l’essere e l’esistenza, che non sono prima dell’Esserci ma è l’Esserci, in quanto progettandosi continuamente, fa esistere l’esistenza e l’essere. Ma, allora, questo progettare essenziale per l’esserci può essere negato a quella indagine la quale, come tutte le indagini, è un modo di essere dell’Esserci aprente che vuole elaborare concettualmente la comprensione dell’essere propria dell’esistenza? (pagg. 374-375) La logica vorrebbe negare questo progettare, essenziale per l’Esserci, senza rendersi conto che volendo fare questo si pone come un modo dell’Esserci che progetta. Era questa la sua domanda: può, dunque, la logica eliminare un qualche cosa non tenendo conto che volere eliminare qualche cosa comporta già il trovarsi all’interno di un progetto? La risposta è no, ovviamente. La comprensione comune, sia essa “teoretica” o “pratica”, si prende cura solo dell’ente incontrato nella visione ambientale preveggente. La comprensione si occupa solo dell’ente, la deiezione vive solo di enti, non si cura minimamente dell’essere, che è sempre essere dell’Esserci e l’essere dell’Esserci è la Cura. Ciò che la caratterizza è la tendenza a esperire l’ente solo “di fatto”, per potersi così esimere da una comprensione dell’essere. Come dire che la comprensione comune incontra l’ente ma non lo pensa. Essa non si rende conto che l’ente può essere “effettivamente” esperito solo se l’essere è già compreso, sia pure non concettualmente. Questa frase, anche se molto concentrata, dice un sacco di cose. Dice che non si rende conto che l’ente può essere “effettivamente” esperito solo se l’essere è già compreso. Questo comunque, anche nel caso della chiacchiera, l’essere è già compreso nel senso che, perché ci sia una comprensione di qualunque tipo, è necessario che l’Esserci, l’uomo, preso in questa gettatezza, si apra a ciò che incontra. Senza questa apertura io non potrei dire che qualcosa è qualcosa. Posso dire che una qualunque cosa è qualcosa perché in primissima istanza c’è questa apertura dell’essere nei confronti dell’alethèia, di ciò che esce dal nascondimento e viene in luce, si mostra. Ma si mostra a quali condizioni? Quando si parla di apertura sembra un termine strano ma apertura è come dire gettatezza, tutto sommato. Posso accorgermi di qualcosa solo perché io sono sempre gettato verso questo qualche cosa, perché l’Esserci è fatto di questo, l’Esserci è questa gettatezza. Vedete che anche qui c’è sempre un qualche cosa che ritorna a compiere questo cerchio, questo circolo, ininterrottamente. Le cose esistono, io le incontro, perché l’essere è già presente, come essere dell’Esserci, cioè, come Cura; le cose, quindi, mi vengono incontro perché me ne prendo cura, ma il prendermene cura non è altro che l’Esserci stesso. La comprensione comune mistifica la comprensione. Ed è appunto per questo che inevitabilmente essa spaccia per “violento” ciò che si trova al di là della sua portata comprensiva e lo stesso andare al di là verso esso. Più avanti dice L’ontologia dell’Esserci non “presuppone” troppo ma troppo poco, se “muove” da un Io privo di mondo per poi attribuirgli un oggetto e un rapporto con esso ontologicamente infondato. Questa è la conclusione cui giunge. In effetti, se io prendo un Io privo di mondo… se voi pensate a Freud, nella seconda topica, sembra porre l’Io come fuori dal mondo, cioè, come un’entità, entità che si muove secondo certe regole, per esempio, mettendosi in rapporto con il mondo e mettendo in rapporto il Super-Io con l’Es, cioè, fa da tramite. È anche per questo che dice che non è padrone a casa propria, perché è tirato un po' di qua e un po' di là. Però, questo Io, se noi lo poniamo come un elemento che è fuori del mondo, allora e solo allora possiamo pensare di poterlo determinare, di poterlo individuare. Se, invece, lo ponessimo all’interno del mondo, questo Io sarebbe fatto di una quantità sterminata di cose che lo renderebbero difficile da determinare come istanza particolare. Qui, in Freud, la questione è abbastanza ambigua, perché da una parte dice che l’uomo è fatto di fantasie, però, poi, individua delle istanze e sembra che siano ben precisamente determinate, come se queste istanze fossero quelle che sono, fuori del mondo in cui sono. Come dicevo, è un po' ambigua qui la questione in Freud, non è così semplice da dipanare, anche perché Freud non è che si occupasse di queste questioni. Rimane il fatto che una qualunque istanza si ponga in termini teorici, seguendo il percorso di Heidegger, questa istanza dovrebbe tenere conto che è nel mondo, e cioè che non è altro che un progetto dell’Esserci, un progetto esistenziale e non un’istanza fuori del mondo. L’Io, il Super-Io, così come ne parla Freud, se poste come progetto dell’Esserci che, incontrando qualche cosa, cerca di determinarlo e di coglierlo ma pur rimanendo sempre all’interno del mondo di cui è fatto, è diverso dal porlo come una entità a se stante, che si comporta sempre allo stesso modo. La visuale è troppo ristretta se si assume la “vita” come problema, e poi si tiene conto anche della morte, ma solo in un secondo tempo e casualmente. Sta dicendo che vita e morte non sono scindibili. L’oggetto tematico risulta artificiosamente e dogmaticamente amputato se ci si limita, “innanzi tutto”, a un “soggetto teoretico”, per integrarlo poi “dal punto di vista pratico” con l’aggiunta di un’”etica”. Per dirla in modo più semplice… Prendiamo l’oggetto tematico, l’oggetto che mettiamo a tema, di cui ci occupiamo, risulta amputato, dice, se ci si limita a un soggetto teoretico. C’è un soggetto teoretico che individua l’Io, che individua l’oggetto, e siamo quindi in pieno cartesianesimo, soggetto-oggetto, che poi integra, dice lui, ma questa aggiunta sarebbe anche superflua, per integrarlo poi dal punto di vista pratico con l’aggiunta di un’etica. Vale a dire, a questo soggetto gli si aggiunge un aspetto più pratico, anziché teoretico, mostrando che fa queste certe cose per certi motivi. Ma dice che questo oggetto risulta amputato se noi lo consideriamo soltanto come il prodotto di un soggetto teoretico. Questo soggetto teoretico, che a sua volta, per Heidegger, non è altro che un altro progetto dell’Esserci, di fatto, isolato così, lui stesso cessa di esistere, così come l’oggetto. Io aggiungerei: non soltanto amputato ma addirittura cancellato, se lo si isola dal mondo.