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10 febbraio 2016

 

“Parmenide” di M. Heidegger[1]

 

Heidegger sta riflettendo intorno alla verità così come è stata posta all’inizio dai primi pensatori greci, in questo caso Parmenide, dicendo che noi usiamo il termine verità nell’accezione latina di veritas mentre per gli antichi non era affatto così. L’ἀλήθεια di cui parlavano loro, e che si traduce normalmente con verità, non ha niente a che fare con la verità così come noi la intendiamo, è un’altra cosa, e adesso ci dice che cosa.

 

Ora, però, poiché verum si usa come parola opposta a falsum, e giacché, sia per il verum e il falsum sia per la loro opposizione, resta decisivo l’ambito essenziale dell’imperium, … (pag. 106)

 

Sta dicendo che la parola latina veritas è stata utilizzata in questo modo dai latini sotto l’Impero romano, la parola veritas era adeguata al modo di pensare dei Romani rispetto all’Impero, come qualcosa che si impone.

 

… il significato di ver-, vale a dire la chiusura e la copertura, assume il tratto fondamentale del riparo finalizzato all’assicurazione-contro; ver è ora l’affermar-si, il rimanere in alto; ver è l’opposto del cadere; verum è ciò che resta in piedi, l’eretto, ciò che è diretto verso l’alto, poiché è ciò che dall’alto dirige e regge: verum è rectum (regere, “il regime”), das Rechte, il retto, il giusto, iustum. Anche se già nel ver viene sfiorato, nel mondo romano l’ambito del velamento e dello svelamento non diventa affatto l’ambito essenziale decisivo in base al quale si determina l’essenza della verità. Compreso in base all’imperiale, il verum si pone immediatamente come il rimanere in alto, che indica il retto; veritas è rectitudo, noi diciamo “correttezza” (Richtigkeit). Ora, però, questa caratterizzazione originariamente romana dell’essenza della verità, che fissa il tratto fondamentale onnidominante della struttura essenziale dell’essenza della verità occidentale, accoglie spontaneamente uno sviluppo dell’essenza della verità che si profila già in seno alla grecità e che contrassegna al tempo stesso l’esordio della metafisica occidentale. (pag. 106)

 

Sta qui riflettendo su come il termine veritas, che è la traduzione del greco ἀλήθεια, ma di fatto non lo è perché l’ἀλήθεια è un’altra cosa, come la parola veritas abbia determinato il modo di pensare occidentale e in particolare della metafisica determinandola in un certo modo, che è diverso da quello greco. Intendendo la verità in modo diverso il greco pensava in modo diverso; determinando la verità in modo romano, cioè nel modo imperiale, tutto ciò che ne è seguito ha portato con sé questa traccia, questa direzione, questo verso, quindi, la verità come rectitudo, come ciò che sta in alto, che domina, che controlla.

 

A partire da Platone, e soprattutto con il pensiero di Aristotele, nell’essenza greca dell’ἀλήθεια si compie un mutamento che, da un certo punto di vista, scaturisce necessariamente dall’ἀλήθεια stessa. Fin dai tempi più antichi l’ἀλήθεια è lo svelato e il disvelante. Lo svelato può venire disvelato come tale per l’uomo e dall’uomo solo se il comportamento disvelante si attiene allo svelato e conviene con esso. Per definire questo comportamento Aristotele utilizza il termine ἀλήθεύειν che significa: “Nel dire che-fa-apparire attenersi in modo disvelante allo svelato”. (pag. 107)

 

Nel dire che fa apparire le cose “attenersi in modo disvelante allo svelato”, quindi, di fatto, attenersi a ciò che sta facendo la parola che sta mostrando, disvelando, qualche cosa. Quindi, restare in questo ambito del disvelamento, quindi nulla a che fare con l’ambito della veritas latina che è, invece, l’imposizione di qualche cosa

 

Questo convenire con lo svelato, che a esso attiene, si dice in greco όμοιωσις, vale a dire, “il corrispondere disvelante che esprime lo svelato”. Tale corrispondere prende e tiene lo svelato per ciò che esso è. “Tenere qualcosa per qualcosa” si dice in greco οϊεσθαι. Il λογος, che adesso significa l’asserzione, si costituisce come οϊεσθαι. Tale corrispondenza disvelante si mantiene e si compie ancora totalmente nell’ambito essenziale dell’ἀλήθεια in quanto svelatezza. Nel contempo, tuttavia, la όμοιωσις, cioè la corrispondenza conveniente, in quanto modalità di compimento dell’ἀλήθεύειν, assume per così dire la “rappresentanza” (Repräsentation) decisiva dell’ἀλήθεια. Quest’ultima, in quanto non occultamento dell’ente… (pagg. 107-108)

 

Già qui c’è la questione della verità come ἀλήθεια. Nel caso del latino veritas è ciò che sta dritto, fermo, ciò che si impone in quanto tale, ciò che dall’alto domina. Nell’accezione greca, invece, si parla di “non occultamento dell’ente”, il che è completamente diverso.

 

… diviene l’adeguazione (Angleichung) del dire svelante all’ente svelato, che si mostra: è όμοιωσις. (pag. 108)

 

Dice che si mostra, όμοιωσις, un corrispondere a ciò che viene svelandosi.

 

D’ora in poi l’ἀλήθεια si presenta ancora soltanto in questa forma essenziale, ed è solo così che viene intesa.

Ora, però, la veritas in quanto rectitudo, che proviene da un’altra origine, sembra fatta apposta per assumere in sé l’essenza dell’ἀλήθεια nella forma d’ora innanzi di “rappresentanza” della όμοιωσις. La correttezza dell’asserzione è un regolarsi su ciò che è eretto, stabile e retto. La όμοιωσις greca intesa come corrispondenza disvelante e la rectitudo romana intesa come “regolarsi su” (sich richten nach) hanno entrambe il carattere dell’adeguazione dell’asserzione e del pensiero a uno stato di cose stabile e già presente. La parola tedesca Angleichung significa adæquatio. A partire dall’Alto Medioevo l’ἀλήθεια rappresentata come όμοιωσις, mediata dalla lingua latina, è diventata adæquatio. Veritas est adæquatio intellectus ad rem. (pag. 108)

 

È quindi con il Medioevo che la verità diventa adeguamento della parola con la cosa.

 

L’intero pensiero occidentale da Platone a Nietzsche pensa nel senso di questa delimitazione dell’essenza della verità in quanto correttezza. (pag. 108)

 

Tutta la metafisica intende la verità come correttezza. Abbiamo visto, invece, che non è affatto così, almeno nel pensiero iniziale greco. Heidegger stesso dice che da Platone in poi è stata posta come adeguamento, ma nel pensiero iniziale, come quello di Parmenide e vedremo in seguito anche quello di Eraclito, questo adeguamento non c’è perché si parla di corrispondenza a ciò che si disvela, non come adeguamento a qualcosa. Infatti, prendete la nozione di oggetto e di soggetto, sono invenzioni, concetti relativamente recenti, nel senso che è da Cartesio in poi che vengono formalizzati e stabiliti nell’accezione con cui noi li usiamo correntemente oggi. La nozione di oggetto non esiste per il Greco, non è neanche pensabile. L’oggetto è objectum, letteralmente ciò che è gettato contro, objacere, gettare contro. Anche il tedesco, che usa sia Objekt, di derivazione latina, che Gegenstand, di derivazione sassone, anche in questo caso gegen vuol dire “contro” e stand “sta”, quindi, sta contro. Quindi, l’oggetto è l’Objekt, come ciò che è gettato contro, o Gegenstand, come ciò che sta contro, cioè è fermo lì, piantato lì, non si muove, è un ostacolo, sta contro. Per il Greco questo non è pensabile se si pensa che le cose appaiono nel loro disvelarsi, cioè escono dalla velatezza per disvelarsi, si lasciano apparire. C’è pertanto una differenza immensa nel modo di pensare dal Greco antico al pensiero contemporaneo rispetto all’oggetto. Tra l’altro in greco oggetto si può dire sia κρημα quanto πρᾶγμα, dove κρημα riguarda più l’oggetto di valore, la ricchezza, ecc., e πρᾶγμα, ecco, pensate a una persona pragmatica, è una persona che si attiene alle cose, πρᾶγμα è il modo più comune per indicare in greco la cosa.

Tutta la metafisica sorge sul fatto che le cose debbano essere controllate, la veritas è qualcosa che si impone sulle cose, le controlla, le gestisce. Le cose costituiscono un pericolo finché non vengono gestite, finché non vengono in qualche modo addomesticate.

 

Questa delimitazione dell’essenza della verità è il concetto di verità della metafisica o, più precisamente, la metafisica riceve la sua essenza in base all’essenza della verità così determinata. Ma proprio a causa del fatto che la όμοιωσις greca diventa rectitudo, scompare quell’ambito dell’ἀλήθεια, cioè del disvelamento, che per Platone e per Aristotele è ancora essenzialmente presente nella όμοιωσις. (pag. 108)

 

Certo, loro (Platone e Aristotele) venivano da questi pensatori, da Parmenide, Eraclito, Anassimandro, quindi loro pensavano l’όμοιωσις come qualcosa di connesso con il disvelamento anche se c’era già in loro, dice Heidegger, la questione della verità posta come adeguamento e non più come un disvelamento, cioè erano già sulla via della metafisica

 

È vero che anche sulla rectitudo, sul “regolarsi su”, riposa ciò che i Greci chiamano οϊεσθαι, cioè tenere e quindi prendere qualcosa per qualcosa. (pag. 108)

 

Tenere qualcosa per qualcosa non è il regolarsi su qualche cosa. Capite che è diverso, il regolarsi su qualche cosa comporta il prendere questo qualche cosa come l’oggetto di cui dicevo prima, c’è dunque un calcolo, un tentativo di gestione, di controllo, che invece nell’antico οϊεσθαι non c’è, non c’è perché è soltanto un prendere qualcosa per qualcosa.

 

Ma mentre pensato in senso greco il “tenere qualcosa per qualcosa” viene ancora esperito entro l’ambito essenziale dello svelare e della svelatezza, pensato in senso romano esso rimane senza tale ambito essenziale: In termini romani “tenere qualcosa per qualcosa” si dice reor, mentre il sostantivo corrispondente è ratio. Variando il detto romano: res ad triarios venit, possiamo dire: res ἀλήθειας ad rationem venit. L’essenza della verità in quanto essenza della veritas e della rectitudo trapassa nella ratio dell’uomo. L’ἀλήθεύειν greco, il disvelare lo svelato, che ancora per Aristotele domina completamente l’essenza della τέχνη, si trasforma nell’installarsi calcolante della ratio. (pagg. 108-109)

 

Questo è il momento in cui Heidegger descrive il passaggio dalla téchne greca alla téchne moderna, cioè alla ratio, alla razionalità calcolante, che deve fare i calcoli per stabilire che cos’è, come funziona e come soprattutto si adopera, come manipolarlo (conoscenza, manipolazione ed elaborazione dell’ente).

Questa idea del possesso, del controllo della cosa appare inesistente nel pensiero greco antico. I Romani, invece, elaborazione questo concetto di veritas che indica lo stare diritto, eretto, fermo, stabile e immobile e dall’alto controllare ciò che sta sotto. Come abbiamo visto la volta scorsa, porsi in alto e controllare chi sta sotto… che soprattutto rimanga sotto e che non gli mai in mente di innalzarsi.

 

È quest’ultima che in seguito, in virtù di una nuova metamorfosi essenziale della verità, determinala tecnicità della tecnica moderna, cioè della tecnica delle macchine, che ha la sua origine nell’ambito originario da cui proviene l’imperiale. (pag. 109)

 

Sta dicendo che la tecnica, così come è intesa oggi, come tecnica o addirittura come tecnologia, ha come necessità per la sua esistenza il concetto di verità come adeguamento, che è il concetto di veritas latina ma che già da Platone e da Aristotele in poi è già stato pensato; anche se usavano la parola ἀλήθεια ma la pensavano già in un modo metafisico, cioè come adeguamento e non più come svelatezza, anche se ἀλήθεια letteralmente significa svelatezza, la pensavano in un modo quindi già latino e cioè come adeguamento, come correttezza, come rectitudo. È stata questa variazione, questo passaggio dall’ἀλήθεια, intesa nel modo del greco antico, all’ἀλήθεια come adeguamento, come όμοιωσις prima e come veritas latina poi, è stato dunque questo passaggio a determinare la possibilità della tecnica così come la conosciamo oggi. Come dire, per farla breve, che senza metafisica non c’è la tecnica.

Intervento: Si può dire che è stato a questo punto che la tecnica si è separata dall’arte?

Sì, certo, tèchne in greco significa il produrre qualche cosa ma un produrre che si produce nel senso del venire alla luce. L’artista trae qualche cosa con il suo materiale, porta alla luce qualche cosa, lo disvela.

 

L’imperiale scaturisce dall’essenza della verità intesa come correttezza… (pag. 109)

 

Qui con imperiale intende tutta la romanità, quindi la cristianità, quindi la volontà di potenza. L’imperiale è la volontà di potenza.

 

L’imperiale scaturisce dall’essenza della verità intesa come correttezza nel senso dell’assicurazione direttiva e instaurativa della sicurezza del potere. (pag. 109)

 

Instaurare il potere, mantenere il potere. Questo può prodursi in seguito al concetto di verità come veritas. Come dire che la costruzione della veritas latina, cioè il passaggio dall’ἀλήθεια, pensata dai primi pensatori come disvelamento, all’όμοιωσις, come adeguamento ma un adeguamento ancora a metà tra l’ἀλήθεια e la veritas, in quanto è un rapportarsi a qualcosa che appare, e poi la veritas latina. Questo mutamento del modo di pensare è stato decisivo per la costruzione, della invenzione della metafisica e, quindi, di tutto il pensiero occidentale. Vale a dire, oggi noi pensiamo in seguito a questo mutamento. L’idea di potere, di una sicurezza del potere, viene da lì, dal concetto di veritas, cioè di qualche cosa che può essere stabilito, fermato, eretto in modo stabile e duraturo, cosa che è totalmente assente nel concetto antico di ἀλήθεια, nel disvelamento non c’è nulla né di stabile né di sicuro, è qualche cosa che appare, che può disvelarsi. L’oggetto come ciò che è gettato contro non era neanche pensabile dai greci antichi.

 

Il “tenere per vero” della ratio, il reor, diventa il porre al sicuro anticipante e di vasta portata. La ratio diventa conto, calcolo. La ratio è l’installarsi in base al corretto. (pag. 109)

 

L’idea del corretto è quella che determina la ratio, cioè tu sei razionale se pensi correttamente e pensi con correttezza quando la tua parola è adeguata alla cosa.

 

L’essenza della verità in quanto veritas e rectitudo è priva di spazio e di terreno. La veritas in quanto rectitudo è un carattere dell’atteggiamento psichico-mentale interno all’uomo. Perciò riguardo alla verità bisogna chiedere: come è mai possibile che un processo psichico-mentale interno all’uomo venga fatto coincidere con le cose all’esterno? (pag. 109)

 

L’adeguamento. Nessuno al mondo è mai stato in grado di stabilire con certezza in che cosa consista propriamente questo adeguamento, com’è che un mio pensiero si adegua a una cosa? In che modo, che cosa c’è in mezzo, che cosa consente una cosa del genere?

 

Cominciano così i tentativi di fare chiarezza all’interno di una regione non chiarita.

Se riflettiamo sul fatto che già da lungo tempo l’essenza dell’uomo viene intesa nel senso dell’animal rationale, cioè dell’essere vivente che pensa, ne risulta che la ratio non è una facoltà tra le altre, ma la facoltà fondamentale dell’uomo. Ciò che l’uomo è in grado di fare in virtù di tale facoltà decide del suo rapporto con il verum e il falsum. Per ottenere il vero nel senso del retto e del corretto l’uomo deve essere certo e sicuro dell’uso retto di questa sua facoltà fondamentale. L’essenza della verità si determina in base a questa sicurezza e certezza. (pagg. 109-110)

 

L’uomo è sicuro delle sue deduzioni, delle sue inferenze. Tempo fa ponevo la questione: perché siamo così certi del sistema inferenziale? Cos’è che ci rende così sicuri che le inferenze che vengono prodotte dal sistema inferenziale conducano a qualche cosa che è degno di essere utilizzato per costruire altre cose?

 

Il vero diviene ciò che è assicurato e certo. Il verum diviene il certum. La questione della verità si trasforma nella questione se e come l’uomo possa essere certo e sicuro sia dell’ente che egli stesso è, sia dell’ente che egli stesso non è. (pag. 110)

 

Si tratta, quindi, di sapere in che modo si possa essere sicuri del nostro pensiero, che il nostro pensiero, se portato avanti rettamente, ci condurrà al vero.

 

Nella forma della dogmatica ecclesiastica della fede cristiana, l’elemento romano ha dato un contributo essenziale al consolidamento dell’essenza della verità nel senso della rectitudo. Ed è al medesimo ambito della fede cristiana che si prepara e prende avvio il nuovo mutamento dell’essenza della verità, che porta dal verum al certum. (pag. 110)

 

La Chiesa ha preso ovviamente un po’ da tutto, ma soprattutto la verità intesa come rectitudo e adesso ci dice perché.

 

Lutero si chiede se e come l’uomo possa essere certo e sicuro della salvezza eterna, cioè “della verità”; se e come possa essere un “vero” cristiano, vale a dire un uomo retto, pronto per ciò che è giusto, un giustificato. La questione della veritas cristiana diviene in senso accentuato la questione della iustitia e della iustificatio. Secondo la concezione della teologia medioevale, la iustitia è la rectitudo rationis et voluntatis, ovvero la rettitudine della ragione e della volontà. Detto in breve: la rectitudo appetitus rationalis, la rettitudine della volontà, l’aspirazione alla rettitudine, è la forma fondamentale della volontà di volere. Già secondo la dottrina medioevale la iustificatio è il primus motus fidei – il movimento fondamentale dell’atteggiamento di fede. La dottrina della giustificazione, e precisamente come questione della certezza salvifica, diviene il centro della teoria evangelica. L’essenza della verità nell’età moderna si determina in base alla certezza, alla rettitudine, all’essere giusto e alla giustizia. (pagg. 110-111)

 

Ci sta dicendo che l’essenza della verità, così come la usiamo oggi, si determina in base alla certezza, alla rettitudine, il che vuol dire che si basa su concetti religiosi, che sono serviti alla religione per sostenersi, per mantenersi. E dice, infatti,

 

L’inizio della metafisica moderna consiste nel fatto che l’essenza della verità si trasforma in certitudo, in certezza. (pag. 111)

 

Quindi, siamo passati dall’ἀλήθεια, come disvelamento, all’όμοιωσις, come un rapportarsi alle cose in un modo che è quasi un adeguamento, poi a un adeguamento e, infine, dall’adeguamento alla certitudo. Questo è tutto il passaggio storico della nozione di verità fino ad arrivare a quella di oggi, che è la certitudo, cioè la certezza.

 

“Critica della ragione pura” significa delimitazione essenziale dell’uso retto e non retto della facoltà razionale umana. La questione dell’”uso retto” corrisponde alla volontà di assicurare la sicurezza in cui deve e vuole collocarsi l’uomo che, posto su se stesso, sta in mezzo all’ente. La veritas concepita in termini cristiani come rectitudo animae, quindi quale iustitia, plasma l’essenza moderna della verità nel senso della sicurezza e dell’assicurazione della sussistenza (Bestandsicherung) propria dell’atteggiamento umano e del suo modo di comportarsi. Il vero, il verum, è il retto (das Rechte) che garantisce la sicurezza ed è, in tal senso, il giusto (das Gerechte). (pagg. 111-112)

 

Qui c’è tutta la volontà di potenza di Nietzsche. Che cosa è vero? È ciò che dà potenza, ciò che mi consente di aumentare la mia potenza, ciò che mi dà la sicurezza, che mi garantisce di poter proseguire. Quindi, ciò che mi dà la sicurezza, ciò che mi dà la possibilità di poter proseguire, di aumentare la mia potenza, questo è il giusto. Arriverà poi a dire, poco più avanti, che la volontà di potenza è la realtà, né più né meno.

Adesso parla di Nietzsche, che Heidegger considera l’ultimo metafisico.

 

Nietzsche (con il cui pensiero la metafisica occidentale raggiunge il suo culmine) fonda l’essenza della verità sulla sicurezza e sulla “giustizia” (Gerechtigkeit)? Anche per Nietzsche il vero è il corretto (das Richtige) che si regola sul reale per installarsi conformemente a esso e per assicurarsi in esso. (pag. 112)

 

Ecco, vedete, compare sempre l’assicurazione, l’essere sicuri, l’essere certi.

 

Il tratto fondamentale del reale è la volontà di potenza. Il corretto deve regolarsi sul reale e dunque esprimere ciò che il reale esprime, vale a dire la “volontà di potenza”. È quest’ultima che stabilisce ciò su cui ogni correttezza deve regolarsi. (pag. 112)

 

In altri termini, è la volontà di potenza che dice ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

 

La corrispondenza con quanto è stabilito dalla volontà di potenza è il retto, cioè la giustizia. (pag. 112)

 

Heidegger qui, certamente sulla scorta di Nietzsche, sta ponendo delle questioni piuttosto grosse per quanto riguarda tutto il pensiero occidentale, la società e il modo in cui viviamo generalmente. Ci sta dicendo che non soltanto la verità, la realtà in cui viviamo, ma anche ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, questi stessi concetti non sono altro che un effetto, una produzione della volontà di potenza.

 

Alla fine della metafisica occidentale la giustizia ha la propria essenza nell’imperativo della volontà di potenza. In conformità al modo di pensare “biologico” diventato abituale dalla seconda metà del diciannovesimo secolo in poi, per dire “volontà di potenza” Nietzsche adopera per lo più anche la denominazione “vita”, sicché egli può asserire che “la giustizia è il sommo rappresentante della vita stessa”. Ciò è pensato in termini cristiani, e tuttavia alla maniera dell’Anticristo. Ma ogni “anti” pensa nel senso di ciò contro cui è “anti”. La giustizia nel senso di Nietzsche presenta (präsentiert) la volontà di potenza.

In termini occidentali la verità è veritas. Il vero è ciò che, su basi di volta in volta differenti, si afferma, rimane in alto e giunge dall’alto: è il comando. Laddove peraltro ciò che sta “in alto”, l’”altissimo” e il “signore” del potere, appaiono in forme diverse. “Il signore” è il Dio concepito in termini cristiano; “il signore” è “la ragione”; “il signore” è lo “spirito del mondo”. “Il signore” è la “volontà di potenza”. Secondo l’esplicita formulazione di Nietzsche, la volontà di potenza, nella sua essenza, è il comando. Nell’epoca in cui l’età moderna si compie dando forma a uno stato storico complessivo della terra, l’essenza romana della verità, la veritas in quanto rectitudo e iustitia, appare come la “giustizia”. Essa è la forma fondamentale della volontà di potenza. L’essenza del “diritto” (Recht), che resta correlata a quella della giustizia, viene definita Nietzsche in modo inequivocabile nella seguente annotazione dell’estate del 1883, redatta in occasione della lettura di un libro apparso a quel tempo (Schneider, Der thierische Wille): “il diritto – la volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo”. (pagg. 112-113)

 

È un’affermazione potente. Che cos’è il diritto? È la volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo. Supponiamo che io abbia un rapporto di potenza su di voi, ma è momentaneo perché poi ve ne andate via e io… Invece, il diritto, la legge consente alla mia volontà di rendere questo momentaneo eterno, cioè “voi sarete sempre soggetti alla mia volontà”.

 

La veritas romana è diventata la “giustizia” della volontà di potenza. (pag.113)

 

Qui è la volontà di potenza come giustizia, non più come arbitrio, come inizialmente la poneva Nietzsche, rispetto al superuomo, all’uomo antico, a questa belva feroce che sottomette il più debole, e dove questa volontà di potenza non era ancora la giustizia ma solamente volontà di potenza allo stato puro. No, e a un certo punto la volontà di potenza diventa giustizia, cioè diventa giustificata, legittima.

 

L’anello, nella storia essenziale della verità esperita metafisicamente, si è chiuso. Eppure fuori dall’anello è rimasta l’ἀλήθεια. Entro il dominio della veritas occidentale il suo ambito essenziale si è come estinto.

L’ἀλήθεια sembra essersi sottratta alla storia dell’umanità occidentale. Al posto dell’ambito essenziale dell’ἀλήθεια pare sia subentrata la veritas romana, nonché, come suo sviluppo, la verità in quanto rectitudo e iustitia, correttezza e giustizia. Non soltanto pare, ma è così. L’ambito essenziale dell’ἀλήθεια è sepolto. Tuttavia, se fosse solo sepolto, non dovrebbe essere difficile sgomberare i detriti e liberarlo nuovamente. Invece, l’ambito essenziale dell’ἀλήθεια non è solo sepolto, bensì è bloccato dal gigantesco bastione dell’essenza della verità “romanamente” determinata in molti sensi. (pag. 113)

 

Sta dicendo che non pensiamo più l’ἀλήθεια non perché ce ne siamo dimenticati o perché non è più di moda, ma perché il concetto di veritas si è imposto così fortemente, così potentemente e così prepotentemente, che non riusciamo più a pensare la verità se non nei termini della veritas romana. Non riusciamo più a pensare quello che gli antichi pensavano intorno all’ἀλήθεια, non è più pensabile. Anche se diciamo ἀλήθεια diciamo comunque veritas.

 

Nel “romano” rientra anche il “romanico” e tutto ciò che di moderno si determina in base a esso, e che nel frattempo si sviluppa su un piano storico-mondiale, non restando più limitato all’ambito europeo. Non è questo il momento di discutere approfonditamente il nesso che emerge tra la τέχνη, intesa come una modalità dell’ἀλήθεύειν, e la moderna tecnica delle macchine.

Ma il bastione del consolidamento dell’essenza della verità in quanto veritas, rectitudo e iustitia non si è semplicemente posto davanti all’ἀλήθεια, giacché quest’ultima vi stata piuttosto murata, dopo che la reinterpretazione l’ha trasformata in una ben squadrata pietra da costruzione. Ecco perché da allora l’ἀλήθεια viene spiegata solo ed esclusivamente partendo dalla veritas e dalla rectitudo.

Com’è quindi ancora possibile esperire l’ἀλήθεια nell’essenza iniziale che le è peculiare? (pag. 114)

 

Come possiamo riuscire a tornare a pensare come pensavano gli antichi? Perché lui ci dice che, sì, anche se sappiamo che l’ἀλήθεια è disvelamento, svelatezza, ecc., pensiamo comunque ancora alla veritas, che quella è la verità.

 

E se ciò ci rimane precluso, com’è ancora possibile, nell’ambito in cui dominano la veritas e la rectitudo, esperire anche solamente il fatto che questo stesso ambito della veritas si fonda nondimeno sull’ambito essenziale dell’ἀλήθεια, e anzi, sia pure senza conoscerlo e senza rammentarsene, lo reclama costantemente? Com’è possibile che nell’ambito in cui dominano la veritas e la rectitudo vi sia, o almeno tenti di sorgere, una cognizione del fatto che la veritas, la rectitudo e la iustitia non solo non esauriscono, a tutti gli effetti, l’essenza iniziale della verità, ma non potranno mai esaurirla, giacché sono ciò che sono soltanto in seguito all’ἀλήθεια? La metafisica occidentale può sviluppare il vero fino allo spirito assoluto della metafisica di Hegel, a favore del “vero” si possono chiamare in causa “gli angeli” e “i santi”, tuttavia l’essenza della verità si è da lungo tempo allontanata dal suo inizio, cioè dal suo fondamento essenziale, è caduta fuori dal suo inizio, ed è così un cascame (Abfall). (pag. 114)

 

È caduta fuori dal suo inizio, la parola iniziale non c’è più. Ma perché tornare alla parola iniziale? Non soltanto perché, dice Heidegger, tornando alla parola iniziale sappiamo da dove viene ciò con cui parliamo, ciò con cui ci muoviamo, il modo in cui pensiamo, ma anche per potere ripensare in termini greci, in termini iniziali, il pensiero. Ciò potrebbe consentire, per Heidegger, sì, l’uscita dalla metafisica, io ci andrei più cauto e direi che potrebbe consentire almeno il rendersi conto che ci si trova all’interno di un sistema metafisico mentre si pensa, comunque e inesorabilmente. Per potere fare questo, per potere tenere conto di questo in modo consapevole e attento, occorre sapere da dove e come si è formata la parola “verità”, perché in seguito al modo con cui si è formata parola “verità” possiamo tenere conto di come la stiamo utilizzando e del perché la stiamo utilizzando in quel modo. Parlando della verità appare normale che ci si riferisca a qualcosa di certo, di stabile, di fermo, per cui la verità è quella ma non è così, è un’invenzione, che è iniziata con la metafisica e poi consolidata e sancita dall’Impero Romano, che aveva la necessità di un qualche cosa che servisse a controllare l’Impero e che desse la possibilità di trattare le persone dall’alto.

 



[1] M. Heidegger, Parmenide, Adelphi, 1999, Milano