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10 gennaio 2018

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

La semiotica commette quell’errore che Heidegger ascrive alla scienza, e cioè non pensa. Dopo Heidegger ci si accorge più facilmente che una dottrina, una teoria, non pensa. Se dovessimo riassumere in poche parole ciò che dice Heidegger nel suo testo Che cos’è pensare: pensare è il farsi carico del problema che la parola è. In questo modo si riassume qualcosa di molto importante, molto corposo, perché il farsi carico di quel problema che la parola è, un segno, problema non nel senso di un impiccio ma di qualche cosa che chiede di essere interrogato ancora. Dicendo questo si pongono le condizioni per accorgersi che, leggendo qualunque testo, anche un buon testo, che comunque il suo autore non pensa quanto dovrebbe a ciò che sta dicendo, non problematizza quelle parole con cui sta dicendo. E questo è un problema, nella scienza è palese, anche perché, come dice giustamente Heidegger, la scienza non deve occuparsi di questo, non deve pensare, è un’altra la cosa che deve fare, è costruire i suoi esperimenti, fare le sue congetture, ma non pensare a quello che fa. Quindi, muovendo da questa idea, da questa direttrice, che riguarda il pensare, cioè farsi carico di quel problema che la parola è, di cui la parola è fatta, allora, tenendo conto di questo, diventa più difficile leggere dei testi, difficile nel senso di trovare qualcosa di particolarmente interessante, perché, se si dà per scontate delle cose, quello che ne segue, le conclusioni che ne trae, vanno poco lontane, rischiano di essere, come direbbe Heidegger, chiacchiera. In effetti, l’unica disciplina, diciamola così, che dovrebbe farsi carico di una cosa del genere sarebbe la psicoanalisi. In teoria, sarebbe proprio lei, non lo fa, però, dovrebbe, dovrebbe perché è con questo che ha necessariamente a che fare, è, per così dire, il suo pane, e di cui ne va anche del suo interesse, posto che ne abbia qualcuno. Detto questo, andiamo avanti con Essere e tempo che, devo confessarvi, trovo appassionante. Siamo a pag. 454. La ripetizione del possibile non è una restaurazione del passato… Sappiamo che la restaurazione del passato è la ripetizione dell’Esserci in quanto possibilità, sarebbe la sua gettatezza. …né un semplice collegamento del “presente” con ciò “che fu superato”. La ripetizione, scaturendo da un autoprogettamento deciso, non si lascia sedurre dal “passato”, per farlo semplicemente ritornare come il reale di un tempo. La ripetizione è piuttosto una replica alla possibilità dell’esistenza essente-ci-stata. Come dicevamo qualche volta fa, questo essente-ci-stato è il modo che Heidegger trova per descrivere il passato nella gettatezza. Il che potrebbe apparire paradossale perché la gettatezza è qualcosa che si getta in avanti, però, lui ascrive questo piuttosto al progetto. È un po' questo il motivo per cui non ha finito la sua opera, perché gli mancavano le parole giuste per dire queste cose. Quindi, La ripetizione è piuttosto una replica alla possibilità dell’esistenza essente-ci-stata, cioè, che è sempre stata, questa possibilità dell’Esserci è possibilità pura. La replica alla possibilità nel decidersi, in quanto concentrata nell’attimo, è però al tempo stesso ciò che in quanto passato si ripercuote sull’oggi. Questa è una cosa importante. La replica alla possibilità nel decidersi, cioè, l’essere di fronte alla decisione. Questo, dice, è ciò che al tempo stesso si ripercuote sull’oggi, cioè, il fatto di replicarmi in quanto progettante è ciò che decide di ciò che faccio adesso. Questa cosa che sarebbe il passato, la gettatezza che io sono sempre stato, è ciò che decide di ciò che continuo ad essere, appunto gettatezza. La ripetizione non si abbandona al passato e non mira al progresso. Per l’esistenza autentica entrambi sono, nell’attimo, indifferenti. Quell’attimo della decisione in cui non c’è niente, perché tutto deve ancora farsi. Noi definiamo la ripetizione il modo della decisione autotramandantesi mediante cui l’Esserci esiste esplicitamente come destino. Dunque, una decisione che si autotramanda, che si tramanda da sola, questa decisione viene tramandata, nel senso che è sempre presente. Viene tramandata perché è sempre stata ma continua a prodursi ancora adesso. Questa decisione autotramandantesi mediante cui l’Esserci esiste esplicitamente come destino. Questo è il suo destino. Ciò che è sempre stato, gettatezza, è il trovarsi destinato a essere pura possibilità. Il che significa che ciascuna volta ci si trova, diciamola così, a ritrovare in ciò che sono sempre stato quell’elemento che è decisivo di ciò che sono. Ciò che sono stato è la gettatezza, è il passato, ma questo è decisivo del fatto che continuerò a essere gettatezza, cioè, continuerò a essere sempre proiettato verso qualche cosa, a essere sempre in vista di. Ma se il destino costituisce la storicità originaria dell’Esserci, la storia non ha il suo centro di gravità né nel passato né nel presente e nella sua “connessione” col passato, ma nell’accadere autentico dell’esistenza quale scaturisce dall’avvenire dell’Esserci. Questo destino in cui ciascuno si trova, destino che è il continuare a progettarsi, è questa storicità originaria, nel senso che la mia storicità è ciò che mi destina continuamente a ciò che sarò, il che non significa banalmente che ciò che sono stato decide di ciò che sarò, anche, però, questo avviene in ciascuna decisione, in ciascun atto, in ciascun momento. Ciò di cui sono fatto, la mia storicità, è ciò che decide del mio progetto, e cioè di che cosa mi occuperò, ed è occupandomi di questo qualche cosa che questo qualche cosa diventa presente, in questa sorta di intersezione tra il futuro, il progetto, e il passato, la gettatezza. È lì che qualche cosa si presentifica, nel senso che è questo progetto, che in quanto progetto è verso qualcosa, che presentifica ciò di cui mi voglio occupare. È questo progetto che rende presente l’utilizzabile, lo rende, appunto, utilizzabile, ma soltanto nel progetto questo utilizzabile è un utilizzabile. L’Esserci è sempre in questa sorta di estasi, gettato, proiettato, continuamente. Quindi, qualche cosa appare, qualche cosa si presentifica, grazie a questi due momenti, il futuro e il passato. Qualche cosa diventa presente perché è nel progetto, per dirla in modo molto spiccio. A pag. 455. Noi chiamiamo destino l’autotramandarsi anticipante, insito nella decisione, al Ci dell’attimo. Quando dico Esserci, questo Ci lui lo intende come un Ci dell’attimo, qui, in questo istante. Qui trova il suo fondamento anche il destino-comune, cioè l‘accadere dell’Esserci nel con-essere con gli altri. L’essere con gli altri, per Heidegger, è importante, non è una cosa secondaria. Da qualche parte dice che l’Esserci è un dialogo, un dialogo continuo che si fa con altri, presente o immaginario, non importa. C’è sempre questo riferirsi a quello che lui chiama con-essere, cioè essere con altri. Andiamo al § 75 La storicità dell’Esserci e la storia universale. Innanzi tutto e per lo più l’Esserci si comprende a partire da ciò che incontra nel mondo e da ciò di cui si prende cura preveggendo ambientalmente. Quindi, io posso comprendere l’essere a partire da ciò che incontro e da ciò di cui mi prendo cura. Questo non è indifferente, è un altro modo per porre la questione che poneva lui, e cioè che si nasce nella chiacchiera. Quindi l’Esserci può giungere a comprendere di essere un progetto gettato sempre e comunque a partire dalla chiacchiera, dalla banalità, da quella che Husserl chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, perché non c’è altro da cui partire. Quando incomincio a parlare, le prime cose che imparo sono delle stupidaggini, però, queste banalità, queste sciocchezze, sono comunque la base indispensabile per poi giungere a una sorta di consapevolezza dell’Esserci. Anche per fare tutte queste pensate che ha fatto Heidegger, anche lui è partito da delle banalità, non è che si parte da disquisizioni tra le più astratte e inverosimili, si parte da una domanda spesso apparentemente sciocca. Dipende poi da come si pone la domanda, certo, ma è a partire da questo domandare che è riuscito a giungere a intendere che l’essere non si pone, di fatto, come quella cosa immobile e statica ma come un qualche cosa che è sempre progettato, che deve fare qualcosa. Io sono quel qualcosa che è sempre lì che deve fare qualcosa, è questo l’essere, è questo che dà, in quanto essere, all’ente la sua enticità, cioè, fa essere l’ente quello che è. In effetti, anche nella lingua si coglie con precisione: fa essere l’ente quello che è. Capite che, dicendo questo, dice una cosa notevole, e cioè che anche la comprensione dell’Esserci, a cui lui è giunto dopo una serie di passaggi, di letture, di riflessioni, di tutto ciò che ha costituito la sua storicità, ma è giunto sempre a partire dalla chiacchiera, dalla deiezione, dal dire comune, perché non si può non partire da lì. È il discorso che aveva fatto in modo preciso rispetto, per esempio, alla scienza: anche lo scienziato più bravo, quando fa i suoi calcoli, ecc., prima di fare tutte queste cose è comunque partito da qualche cosa che è molto semplice, molto banale, che però ha saputo poi aprire in altre direzioni. Questa comprensione (dell’Esserci) non è una semplice consapevolezza di sé che solo si accompagni a tutti i comportamenti dell’Esserci. Non intende questa comprensione come consapevolezza. Comprendere significa autoprogettarsi nella rispettiva possibilità dell’essere-nel-mondo, cioè esistere in questa possibilità. Questo significa comprendere, significa comprendersi in quanto possibilità, possibilità dell’essere-nel-mondo. Io mi trovo a essere possibilità perché sono nel mondo, se non fossi nel mondo non sarei nulla. In tal modo la comprensione, come comprensione comune, costituisce l’esistenza inautentica del Si. Eccolo, ciò da cui si parte, ciò da cui ogni cosa prende l’avvio, le prime parole, le prime cose che non hanno nessun fondamento, sono delle frasi messe insieme, più o meno alla rinfusa. Nell’esser-assieme pubblico, ciò che si incontra nel prendersi cura quotidiano non sono soltanto mezzi e opere, ma anche ciò che “è dato” con essi: gli “affari”, le imprese, gli incidenti e gli accidenti. Il “mondo” ne è, a un tempo, cagione e teatro e, come tale, fa parte del fare e del disfare quotidiano. Nell’esser-assieme pubblico gli altri si incontrano in un vortice di attività in cui “si nuota insieme” “anche noi stessi”. Si conosce, si discute, si sollecita, si combatte, si conserva e si dimentica: sempre riferendoci prima di tutto a ciò che si persegue e a ciò che ne “risulta”. Questa cosa l’ha ripresa Sini, cioè, il senso delle cose è ciò che ne faccio di queste cose, è il come mi muovo a partire da una certa cosa: che cosa ne faccio, quello è il senso. Che è diverso da come lo poneva Wittgenstein: il senso come l’utilizzo che ne viene fatto comunemente, e cioè l’uso comune del termine. Certo, è possibile ricondurre questo alla medesima questione, però, con un passaggio in più, in quanto il senso è l’uso che io faccio di una certa cosa e questo uso è ciò che mi muove a fare. Anche in questo caso, ponendo la questione del senso in questo modo, cosa mi muove a fare, è sempre e comunque un essere che è fatto di possibilità e gettatezza, di progetto, di un qualche cosa che è sempre un in vista di. Progresso, stasi, cambiamento e “consuntivo” di ogni singolo Esserci, tutto è commisurato all’andamento, allo stato, al cambio e alla disponibilità di ciò di cui si prende cura. Io mi prendo cura di qualche cosa in quanto Esserci, sono gettato e mi progetto verso un utilizzabile, però, ci dice in aggiunta che è prendendomi cura di questo utilizzabile che io posso accorgermi di essere possibilità, di essere progetto. Aveva già parlato di questo movimento, che è un po' il circolo ermeneutico, cioè io mi progetto qualche cosa, quindi, progettandomi verso l’ente, faccio “esistere” l’ente ma, nel momento in cui l’ente esiste, allora esisto anch’io; nel momento in cui esisto anch’io posso far esistere l’ente, e via di seguito. È sì un circolo vizioso ma non è da prendere come qualcosa da eliminare, un problema; no, è ciò di cui si vive, continuamente, è ciò di cui occorre prendere atto. Per tornare a ciò che dicevo nelle prime battute, è ciò di cui occorre farsi carico nel pensare, perché è questo che accade mentre si pensa: pensando a qualche cosa questo qualche cosa diventa quello che è quando me ne occupo, ma occupandomene quello cambia anche me. È in questo movimento continuo che avviene la vita, direbbe Heidegger.

Ma se il riferimento alla comprensione dell’Esserci propria della quotidianità è quanto mai ovvio… Comprendo l’Esserci perché, occupandomi di qualche cosa, ho l’opportunità di accorgermi che questo qualche cosa fa parte del mio progetto, quindi, sono io questa qua. …non è perciò stesso ontologicamente trasparente. … In realtà la storia non è né la continuità mobile dei mutamenti degli oggetti né il flusso delle esperienze vissute dei “soggetti”. L’accadere della storia riguarderà allora la “connessione” fra soggetto e oggetto? Ma se si attribuisce l’accadere alla relazione soggetto-oggetto, bisogna porsi anche il problema del modo di essere di questa connessione come tale, visto che sarebbe essa ciò che in fondo “accade”. La tesi della storicità dell’Esserci non afferma che la storicità è propria di un soggetto senza mondo, ma dell’ente che esiste come essere-nel-mondo. (pagg. 456-457) L’unico ente che esiste è, per Heidegger, l’uomo, l’Esserci. L’accadere della storia è l’accadere dell’essere-nel-mondo. La storicità dell’Esserci è, in linea essenziale, la storicità del mondo, la quale, sul fondamento della temporalità estatico-orizzontale, fa parte della sua temporalizzazione. Dice, dunque, L’accadere della storia è l’accadere dell’essere-nel-mondo, la mia storia, l’accadere della mia storia, non è altro che il mio accadere nell’essere-nel-mondo, tutti i modi in cui continuamente accado nel mondo, è questa la mia storia. A pag. 458. L’Esserci quotidiano si disperde fra le mille cose che “succedono” ogni giorno. Le occasioni e le circostanze a cui il prendersi cura volge sin dall’inizio la sua attesa “tattica” danno come risultato il “destino”. Tutto ciò che mi accade, in qualche modo costituisce il mio destino in quanto è comunque gettatezza, perché qualunque cosa accada non posso evitare il mio destino. Il mio destino è la gettatezza, è l’essere continuamente progettato e, quindi, l’estasi. L’Esserci esistente inautenticamente valuta la sua storia solo in base a ciò di cui si prende cura. Vale a dire, non c’è questo momento di ritorno. Mi prendo cura di qualcosa e, certo, da quel momento quella cosa diventa quella che è ma, diventando quella che è, modifica anche me. Nella deiezione manca questo movimento di ritorno, cioè, non riviene all’Esserci. Poiché l’Esserci, incalzato dagli “affari”, deve prima raccogliersi dalla dispersione e dalla incoesione di ciò “che è successo” per giungere a se stesso, è solo partendo dall’orizzonte di comprensione della storicità inautentica che si pone il problema della costituzione della “continuità” dell’Esserci nel senso della “continuità” delle esperienze vissute del soggetto, “anch’esse” semplicemente-presenti. Qui sta proponendo esattamente ciò che dicevo prima, anzi, lo dice proprio in modo esplicito. È soltanto dall’inautenticità che si avvia questo movimento che può condurmi a comprendere l’Esserci, solo dall’inautenticità, dalla banalità, dalle cose che incontro, che mi succedono, che si dicono, che si fanno, ecc. A pag. 459. Ma l’accadere di questa decisione, cioè l’anticipante e tramandantesi ripetizione di un patrimonio ereditario di possibilità, fu da noi interpretato come storicità autentica. La storicità autentica è, sì, l’accadere di questa decisione ma, soprattutto, l’accogliere il fatto che questa decisione, il decidere, mi viene tramandato dal fatto di esser sempre stato gettatezza; è questo che si tramanda, è questo la storicità autentica. Sarà forse in questa storicità che è riposta l’estensione dell’esistenza totale, estensione originaria, indispersa e non bisognosa di continuità? Vediamo di chiarire bene. C’è la storicità autentica e quella inautentica. La storicità inautentica è quella che non si rende conto che il mio destino è di ripetere all’infinito, per così dire, la mia gettatezza. La storicità autentica è quella che accoglie questo fatto, che il mio destino è quello di trovarmi a ripetere all’infinito il fatto di essere gettato. La decisione del se-Stesso contro l’incostanza della dispersione è in se stessa la costanza estesa in cui l’Esserci, in quanto destino, tiene “inclusi” nella propria esistenza la nascita, la morte e il loro “fra”, cosicché esso, in questa stabilità, è nell’attimo per il mondanamente-storico della sua rispettiva situazione. Sta dicendo che in questo lasso di tempo fra la nascita e la morte, in questo “fra” i due momenti, c’è l’estensione dell’Esserci. Il destino, di cui parlava, non è altro che ciò che tiene incluso tra loro la nascita, la morte e il loro “fra”, è ciò che mi fa accorgere di essere sempre e comunque, dalla nascita alla morte, di essere soltanto gettatezza, perché io sono destinato a essere questo, a essere progetto. Nella ripetizione, carica di destino, delle possibilità essenti-state, l’Esserci si riporta “immediatamente” a ciò che è già stato prima di esso, cioè in modo temporalmente estatico. Anche in questo caso l’Esserci si riporta a ciò che è stato, quindi, comunque si butta fuori da sé, è gettato in ciò che è sempre stato. Con questo autotramandarsi dell’eredità… L’eredità è sempre quella del destino, cioè, del fatto di essere gettatezza, è questo che io eredito. …nel ritornare indietro dalla possibilità insuperabile della morte, la “nascita” è coinvolta nell’esistenza sia pure soltanto affinché questa, affrancata da ogni illusione, assuma l’esser-gettato del proprio Ci. Qui dice una cosa interessante. Dice, l’esistenza affrancata da ogni illusione. Dice una cosa importante, Heidegger la dice così, al volo, ma merita di rifletterci un pochino, perché quale illusione? L’illusione che la morte non mi riguardi, che la morte sia una cosa tra le altre, che la morte non sia, quindi, la possibilità suprema. Questa è l’illusione dell’esistenza, e se c’è questa illusione allora c’è deiezione. Infatti, quando si accede al linguaggio non c’è questa consapevolezza, non può neanche esserci, così come non c’è in un animale. Dal momento in cui assumo la morte come possibilità, ma l’assumo realmente, autenticamente, allora divento autentico, divento Esserci in quanto essere-per-la-morte. Tenendo conto di questa possibilità è come se prendessi atto del fatto che io, sì, sono sempre gettato, progetto, ma questo essere progettato è sempre in vista di un qualche cosa che è la morte. Morte non intesa necessariamente come lo spegnimento dell’individuo ma come la nullità, la nullificazione. Ogni volta che mi progetto l’Esserci si “estaticizza” e, quindi, in un certo senso muore. Si può intendere così la questione della morte. Certo, lui parla della morte anche come morte fisica, però, anche in questo modo: in ogni estasi, ogni che l’Esserci è gettato fuori di sé, scompare, muore. A pag. 463. Se in tal modo la storiografia getta le sue radici nella storicità, in base a essa si deve poter determinare anche cosa sia l’oggetto “autentico” della storiografia. Di che cosa si occupa la storiografia? Che cosa fa? La delimitazione del tema originario della storiografia deve esser attuata in conformità alla storicità autentica a alla corrispondente apertura dell’Esserci essente-ci-stato, cioè in base alla ripetizione. Questa comprende l’Esserci essente-ci-stato nella sua possibilità autentica essente-stata. La “nascita” della storiografia dalla storicità autentica significa allora: la tematizzazione primaria dell’oggetto storiografico progetta l’Esserci essente-ci-stato nella sua possibilità di esistenza più propria. Badate bene: la tematizzazione primaria dell’oggetto storiografico, quindi, mettere a tema ciò di cui si tratta nella storiografia progetta l’Esserci essente-ci-stato, cioè quell’ente che da sempre è stato gettatezza, è sempre stato un occuparsi di qualche cosa; dunque, lo progetta nella sua possibilità di esistenza più propria. Qui c’è una questione. Il mettere a tema qualche cosa è un po' come il porsi la domanda: di che cosa mi sto occupando realmente? Lui parla della storiografia ma si potrebbe riferire tutto ciò a qualunque cosa, ma facendo questo che cosa accade? Che io progetto il mio Esserci, in questo progetto di tematizzare la storiografia, e quindi, mettendo in atto questo progetto, metto in atto l’Esserci per quello che è, cioè come un progetto di fare qualche cosa. Naturalmente, si può dire di qualunque altra cosa. Ma che cosa significa che l’Esserci c’è “di fatto”.? Se l’Esserci è “autenticamente” reale solo nell’esistenza… Lui si domanda: ma la storiografia si occupa, sì, di fatti passati ma come può riguardare l’Esserci se l’Esserci riguarda soltanto il presente, l’attimo in cui c’è, in cui si progetta? Ma allora l’esente-stato autenticamente tale “di fatto” è la possibilità esistentiva in cui si determinano effettivamente destino, destino-comune e storia-del-mondo. Dice che queste cose che riguardano la storiografia non sono altro possibilità esistentive, possibilità dell’esistenza, niente più di questo. Solo perché l’esistenza è sempre e soltanto in quanto effettivamente gettata, la storiografia aprirà la silenziosa forza del possibile in modo tanto più efficace quanto più semplicemente e concretamente essa comprende e “soltanto” espone l’esser-stato-nel-mondo a partire dalla sua possibilità. Qui la storiografia non è più soltanto il libro di storia ma dice che è l’Esserci che si espone nella sua storia a prendere atto del fatto che è e è sempre stato solo possibilità. In questo modo la storiografia apre come possibilità. Lui sta cercando di trovare una connessione tra l’Esserci e la storiografia. La storiografia si occupa del passato, l’Esserci riguarda l’attimo, il presente. Sì, è vero, ma la storiografia si occupa di quell’attimo che è sempre stato e che continua a essere adesso.