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9 aprile 2025

 

Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo

 

Beierwaltes ha in serbo ancora un po’ di cose da dirci. Nelle pagine che seguiranno riprende la questione di Hegel e di Proclo. Il fatto che insista molto su questo aspetto è significativo. Come dire che tutto ciò che Hegel, quindi la filosofia moderna, ha costruito si è costruito sul neoplatonismo, più o meno rendendosene conto, il più delle volte no. Hegel e in parte Schelling si rendono conto che il neoplatonismo ha anticipato delle questioni essenziali, per esempio per Hegel la questione della dialettica. La necessità per Hegel è quella di fondare lo Spirito assoluto. Lo Spirito assoluto, lo vedremo tra poco, non è nient’altro che l’in sé che si estroflette sul per sé e poi torna sull’in sé, cioè, torna e diventa uno, diventa assoluto. A pag. 178. In antitesi ad una logica puramente formale, Hegel fonda la logica come processo dello spirito, ovvero come sviluppo dell’idea assoluta dal suo attratto in-sé al suo concreto in-sé e per-sé. Quindi parte dall’astratto, dall’in sé. L’in sé per Hegel, e per tutto l’idealismo, non è altro che l’ineffabile, che diventa dicibile dopo che il per sé torna sull’in sé. La logica non è dunque un insieme di strumenti di natura formale già pronti per essere applicati di volta in volta, ma comprensione, che la riflette e la fonda, dell’unica cosa che c’è, anche se non c’è ancora compiutamente: dello spirito, dell’idea o della verità. La verità può venire identificata soltanto con lo spirito o con l’idea, dal momento che, in contrasto con tutta la tradizione precedente, essa non viene intesa esclusivamente come verità di un enunciato, come tratto ontologico fondamentale di ogni ente, e nemmeno come sostanza o essenza di un essere in sé già da sempre perfetto e quindi immutabile, nel senso che la metafisica compilata su base onto-teologica, ma viene intesa Invece come indice del processo compiuto dallo e dello spirito: come la certezza, fattasi assoluta, del soggetto assoluto che sa se stesso. Questo sapere assoluto, questa certezza assoluta, bisogna sempre tenere conto, non era presente prima di Platone. Di qui la frase nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito: “Il vero è l’intiero. Ma l’intiero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo”. Il suo sviluppo non è nient’altro che questo ritorno. “La logica è quindi da concepire come il sistema della pura ragione, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, quale essa è, senza avere in sé e per sé. Ci si può dunque esprimere così: che questo contenuto è la esposizione di Dio quale egli è nella sua essenza eterna, prima della creazione della natura e di uno spirito finito. Che sarebbe l’in sé, Dio, che poi per emanazione produce le altre cose, e queste altre cose poi tornano a dio. Qui c’è la differenza sostanziale, ne parlerà tra poco, tra Proclo e Hegel. Per Proclo l’uno procede verso l’intelletto e l’anima, come per Plotino; però, tornando in sé, non è che migliora o peggiora l’uno: l’uno rimane assolutamente identico a sé, non necessita di questo ritorno per completarsi, è già completo, l’uno non si aspetta da altro che lo completi, perché è già tutto. Invece, per Hegel no, e qui sta la dialettica, l’uno, cioè l’in sé, è tale come risultato di questo processo di ritorno del per sé sull’in sé, e quindi l’in sé a questo punto si arricchisce del per sé; cosa che in Proclo e in Plotino non c’è, l’uno non si arricchisce di niente perché, essendo già tutto, non c’è niente che possa né arricchirlo né impoverirlo. A pag. 180. La storia della filosofia è dunque essa stessa la logica o la sua manifestazione nella storia. Nell’orizzonte di questa concezione si può ammettere un errore nella storia - l’intero in quanto in quanto tale, tuttavia, rimane inconfutabile. Gli opposti, infatti, vi si superano nella unità della verità: non ci sono nel processo verità che si escludano a vicenda, ma la verità è soltanto una, quale “unità degli opposti”. Questo nelle Ricerche sulla storia della filosofia di Hegel. La verità di ogni filosofia collabora così alla verità del tutto, lo faccia anche per mezzo di antitesi che sembrano contrarie al fine universale. “La via dello spirito è la mediazione, la via indiretta”. Paradossalmente, è proprio l’intenzione di Hegel di determinare il singolo come momento dell’intero, a preparare la coscienza che ogni filosofia e ogni posizione di pensiero, anche in arte e in religione, ha il suo significato e la sua legittimità particolari, condizionate dalla storia. Dice paradossalmente l’intenzione di Hegel di determinare il singolo come momento dell’intero, quindi farlo esistere all’interno dell’intero: è proprio questo a preparare quella coscienza a cui porta la dialettica. L’idea è che comunque all’interno dell’intero ci siano dei particolari, che quindi non sono del tutto eliminati. A pag. 181. Ciò che alla fine si impone sull’estraneo (l’antitesi) è solamente il proprio; l’estraneo non ha neppure la possibilità di agire in senso correttivo o euristico (per la verità). Questo estraneo non ha nessuna possibilità di esistere nella dialettica hegeliana, deve essere tutto ricondotto all’uno. Oltre a molti dettagli all’interno dei singoli sistemi, di cui, nel preconcetto hegeliano, non si fa parola, ma che sarebbero in grado, quanto a sé, di modificare notevolmente l’aspetto dell’intero, viene soppressa, per esempio, un’intera epoca - il Medioevo: esso rappresenta infatti, rispetto al livello di pensiero raggiunto in precedenza dalla filosofia greca e più tardi da quella idealistica. un’”antitesi” da annullare in quanto astratta, in quanto non vera, in quanto essa aliena il fine della riflessione filosofica. La conoscenza, di fatto assai ridotta, che Hegel possedeva della filosofia medievale, viene così incontro all’esigenza, da parte della logica, di un momento storico di alienazione del pensiero inizialmente raggiunto. Qui sarebbe interessante articolare, di più e meglio, il fatto che Hegel cancelli il Medioevo. Perché? Cosa c’è nel Medioevo? Nel Medioevo c’è una ricerca, un pensiero proprio intorno alla possibilità o meno di eliminare i molti dall’uno. Poi, naturalmente la teologia aggiusta il tutto e risolve le cose a modo suo, però la questione è questa: i molti si possono togliere dall’uno? Dio è quindi soltanto l’assoluto o c’è qualche cos’altro? Questo per Hegel era un problema, tutta la dialettica di Hegel è questo processo di eliminazione dei molti a vantaggio dell’uno. A pag. 182. Il télos della storia della filosofia è pensare il soggetto assoluto, ovvero lo spirito e l’idea come soggettività assoluta. Il rapporto riflessivo di oggetto e soggetto, la loro mediazione assoluta, diventa un movimento interno alla soggettività assoluta. Quindi, un qualche cosa che sta all’interno della soggettività e che la soggettività controlla. È un po’ come il discorso che facevamo rispetto alla teologia, della contraddizione: c’è ma è all’interno del discorso, quindi, è gestibile, è gestita, perché non fa parte di Dio; l’importante è che sia Dio a non contraddirsi mai perché se si contraddice è una catastrofe totale. Quindi, Dio è al di sopra della contraddizione. Qualsiasi cosa esterna, passibile di essere oggetto e soggetto, è assunta e annullata nel soggetto, è mediata in esso attraverso la riflessione. È la riflessione che “riempie”, che “porta a compimento” l’oggetto inizialmente vuoto, astratto, (l’in sé) - che lo rende concreto. L’in sé è originariamente astratto, è nulla finché non c’è il per sé, che ritorna sull’in sé. L’inizio immediato, e perciò astratto, si fa risultato mediato attraverso la riflessione: concreto assoluto o Assoluto concreto. Se il télos della storia è la certezza assoluta del soggetto assoluto che concepisce se stesso, allora questo télos è raggiunto nell’idealismo speculativo di Hegel. Così almeno Hegel intende se stesso. Il télos diventa per lui la misura della storia. Come la logica, così anche la storia inizia col momento più astratto, più vuoto, cioè con una filosofia che si consegna interamente all’oggetto astratto, non ancora interiorizzato attraverso la riflessione. Come dire che tutto nasce dall’ineffabile, tutto sorge ed è sostenuto dall’ineffabile. Ma la tendenza della storia è la concrezione: la mediazione appunto dell’oggetto nel soggetto per mezzo della riflessione; concentrazione come un penetrare sempre più profondamente in sé del soggetto, che ha l’oggetto come superato in sé. Il soggetto è come se inglobasse gli oggetti, tutti quanti, diventando così soggetto assoluto, quindi, diventando un intero. Da un da un punto di vista storico questo significa che i singoli momenti, o gradi, diventano sempre più ricchi, perché conservano in sé, nel processo verso la riflessione mediante, tutti i momenti precedenti. La concrezione descrive un cerchio o, meglio, un cerchio di cerchi, che è il suo ritorno in sé. Il risultato “concreto”, ovvero la fine, si ricongiunge quindi con l’inizio – con l’inizio ora però mediato. Quindi, non è più inizio vuoto, ineffabile, ma essendo stato mediato è diventato il concreto. Hegel considererà dunque come filosoficamente produttivi - perché favorevoli allo sviluppo in direzione dell’idealismo - i sistemi per i quali sono costitutive la “riflessione” e l’idea “concreta”. Questo è il motivo per cui, secondo Hegel, Platone, Aristotele e il Neoplatonismo costituiscono il culmine della filosofia greca;… Qui ha fatto bene a mettere Aristotele insieme col neoplatonismo perché, di fatto, è stato il neoplatonismo che lo ha tradotto. …ma soprattutto Platone, in quanto Hegel lo considera come il πρώτος έυρετής (lo scopritore del principio) di una dialettica speculativa in grado di pensare unicamente l’essere e il non-essere, l’uno e il molto, di pensare l’indifferenza o l’identità nella differenza… Naturalmente, il tèlos, il compimento, è trasformare la differenza in unità, in totalità. Grazie a questa articolazione interna concepita da Platone, l’ente non rimane rigido e indistinto, ma diventa - nella sua qualità di universale, ma di universale attivo, vivente, in sé distinto - il movimento dell’essere in quanto essere logico: diventa idea. La trasformazione dell’ente in un’idea, certo, è opera di Platone. L’ente - naturalmente non l’ente, quello che ciascuno ha a che fare, ma l’ente assoluto - è l’idea; è l’idea che è il qualche cosa, è il concreto per Platone; anche se è astratta per lui è il concreto, è l’unica vera realtà. Tant’è che dice che le cose con le quali invece abbiamo a che fare tutti i giorni, gli aggeggi vari, sono copie, immagini di questa idea, che è l’unica cosa reale, concreta. Questa interpretazione si basa soprattutto sui dialoghi speculativi Sofista e Parmenide. Aristotele è determinante per Hegel soprattutto per aver pensato il concetto di un’attività pura fondata in se stessa (ἐνέργεια), per la quale è possibile definire l’essenza assoluta come puro pensiero, come idea sempre uguale a se stessa. ἐνέργεια è quello che è in virtù della δύναμις; δύναμις è ἐνέργεια simultaneamente sono l’entelechia, ed è questa simultaneità che entrambi siano quello che sono. Ma ciascuna cosa è quella che è in quanto è l’altra, cioè, lἐνέργεια è ἐνέργεια perché è δύναμις, e la δύναμις è δύναμις perché è ἐνέργεια: è questa l’entelechia. Illuminante per il senso di questo “rifarsi” di Hegel ad Aristotele è la citazione di Metafisica XII da lui stesso posta senza commento alla fine della sua Enciclopedia. Dal momento che il passo contiene il pensiero centrale della teologia aristotelica - e cioè che Dio pensa se stesso e appunto in quanto pensiero di se stesso è realtà pura, vita ottima e infinita - ci pare plausibile la conclusione che Hegel intendesse il Dio aristotelico pensante se stesso come forma preliminare, incompleta ma essenziale, della “ragione che sa se stessa”, che sarà appunto la conquista dell’idealismo, “dell’idea eterna che è in sé e per sé, che, quale spirito assoluto, muove, genera e gode se stessa. Ora, tutto questo in Aristotele non c’è. Proprio questo punto viene sottolineato da Hegel nell’interpretazione che egli stesso dà di Aristotele: interpreta Aristotele che era già stato interpretato dai neoplatonici. Dice Hegel nell’Enciclopedia: “Dunque, anche Aristotele si è adoperato intorno a queste forme speculative, ancora oggi le più profonde, e le ha espresse nella loro suprema determinatezza”. Stando all’interpretazione di Hegel, Aristotele non pensa l’Assoluto come “identità morta”, ma come unità della soggettività e dell’oggettività, che “nell’atto del distinguere rimane tuttavia identica a se stessa. Qui ci sarebbe da dire parecchio perché questo assoluto, che rimane identico a se stesso, che cosa sarebbe di fatto se non l’universale? Ma sappiamo del modo in cui Aristotele parla dell’universale, lontanissimo dall’idea di assoluto. La differenza fra il proprio pensiero e quello di Aristotele è costituita, secondo Hegel, dal fatto che Aristotele non concepisce ancora il pensiero come unica verità (non = Tutto sia pensiero), ma soltanto come “il primo, il più forte, il più egregio”. “Noi invece diciamo (qui è Hegel che parla) che il pensiero, in quanto è ciò che è in relazione con se stesso, è, che è la verità; che il pensiero è tutta la verità … Sebbene dunque Aristotele non si esprima nel modo in cui parla oggi la filosofia, alla base vi è tuttavia la stessa opinione”. Gadamer ha contestato in modo assai convincente questa tesi di Hegel, mostrando come Hegel esponga la forma greca della “riflessione su di sé” partendo dalla propria idea di Assoluto quale attività, vita, spirito, e non dall’essere pensato di un ente supremo da parte di quell’ente supremo stesso, cioè dall’unico punto di partenza adeguato ad Aristotele. Da dove parte Aristotele? Parte sempre da ciò che ha di fronte. Quindi, se vogliamo proprio seguire Aristotele fino in fondo, il pensiero, l’essere pensato di un ente, con che cosa io penso l’ente? Ce lo dice lui nella Metafisica: con la doxa. E, allora, il pensiero che pensa se stesso non è altro che la doxa che rileva di sé di essere doxa, quindi, di non essere niente di assoluto. A pag. 185. L’idea concreta è l’Assoluto. Qui siamo vicini a Severino. Poiché ora l’idea non soltanto è concreta (come in Platone), ma viene anche saputa come concreta (principalmente attraverso se stessa), viene saputo come concreto anche l’Assoluto, “l’idea nella sua determinazione del tutto concreta come trinità, come una triade di triadi, le quali in tal modo continuano sempre ad emanare. Cosa vuole dire? La triade emana perché il tre è quello che garantisce l’uno e il due; in questo senso continua a emanare: finché c’è il tre siamo salvi perché l’uno e il due sono determinati e non si mescolano assieme. A pag. 186. Il fatto che Hegel. Intendesse il sapere-se-stesso del concreto come la conquista sostanziale del neoplatonismo, e che considerasse poi il concetto di triade come costitutivo del suddetto pensiero, è uno dei motivi per cui egli vide in Proclo “il culmine della filosofia neoplatonica”. La riflessione descriverà ora ad ogni livello un circolo ermeneutico: essa constata dapprima che l’interpretazione di Proclo da parte di Hegel procede in modo eminentemente hegeliano… Come se Proclo avesse copiato Hegel. Poi, è interessante il fatto che Hegel fa la stessa cosa sia con Aristotele che con Proclo, cioè, se li interpreta a modo suo, in modo da farli diventare idealisti tedeschi. …così facendo essa mette tuttavia in luce alcuni pensieri genuinamente “procliani”; è chiaro al tempo stesso che ciò che Hegel è soprattutto in grado di riconoscere in Proclo corrisponde ad elementi essenziali della sua propria Logica; è difficile così distinguere improprio dall’alieno. L’elemento “procliano” nella Logica - simile in questo all’elemento platonico o aristotelico - è dunque l’unità, impossibile da differenziare con sicurezza, di pensiero originariamente proprio e di ciò che Hegel stesso identifica, quale cosa propria, con Proclo. Non si riesce a capire nella Logica fin dove arriva Proclo e dove arriva Hegel. A pag. 187. Proclo contiene quanto vi è di “migliore e di più maturo nei neoplatonici”, perché ha meditato fino alle sue ultime conseguenze il concetto di “totalità concreta” e lo ha fondato in un essere riflessivo o per mezzo di esso. La struttura di questa totalità concreta è triade o triplicità. La totalità è poi concreta perché i singoli elementi della triade non vengono intesi come in sé stabili, come unità rispettivamente fisse, ma come momenti di un tutto, di una unità in sé differenziata, o addirittura come momenti nel processo di emanazione dall’Unico principio. Qui siamo a Plotino. Proclo non lascia la “trinità nei suoi momenti astratti”, ma ne fa anche “una totalità della triplicità, ottenendo così una trinità reale;… Questa trinità per Proclo non poteva essere come in Plotino, ipostatizzata, ma è un processo: sta qui la differenza, l’elemento di aggancio di Hegel per la sua dialettica. Ogni triade è così concreta in se stessa, ma anche la totalità delle triadi è pensata come qualcosa di concreto. Può darsi che la deduzione che Hegel dà per esempio della triade “Essere – Vita – Spirito” sia qua e là confusa e fonte di confusione; il fatto, tuttavia, che egli sottolinei la “concretezza” della triade, fa della nuova interpretazione un suggerimento legittimo, verificabile sui testi: la triade di Proclo, nonostante la differenza subordinativa fra i membri che la determina, è da concepirsi come unità ovvero come identità dinamica. Una identità che però non è ipostatizzata, è dinamica, è un processo continuo, che è quello della dialettica hegeliana. A pag. 188. “Nella vera triade non si ha soltanto unità, ma esseri-uniti, si ha la conclusione all’unità piena di contenuto e reale, la quale, nella sua determinazione interamente concreta, è lo spirito”. Il significato qualitativo e la portata filosofica dell’interpretazione hegeliana di Proclo risultano più evidenti a partire dalla Logica. Se meta sia della logica che della storia della filosofia è che lo spirito, quale spirito assoluto, concepisca se stesso, ciò è possibile, secondo Hegel, soltanto nel superamento universale di ogni opposto nell’unità del pensiero. I molti devono sparire. Se dunque Hegel sottolinea in Proclo il concetto della totalità o trinità concreta, lo fa certamente soltanto per mostrare che nella triade, nonostante la differenza dei suoi momenti, l’inizio da cui essi prendono origine si mantiene in loro e garantisce l’unità dialettica dei tre. Il punto di partenza, l’in sé, l’ineffabile, Dio, quello che volete, è quello che garantisce l’unità dialettica, perché tutto torna lì. A pag. 189. La triade plasma logicamente sia il moto dell’essere che il movimento del soggetto in un’unità concreta; nel primo caso in un’identità relazionale, nel secondo nell’identità riconquistata, divenuta ora assoluta. “Riconquistata” è la parola chiave. A pag. 190. Alla riflessione positiva di Hegel sul concetto procliano-hegeliano della triade come totalità concreta, corrisponde l’affinità di Hegel con la triade μονή – πρόοδος -έπιστροφή: permanenza – processione – ritorno. Permanenza, in sé; processione, per sé; ritorno, Aufhebung. È questa la legge fondamentale - preparato già da Plotino e formulata espressamente da Proclo - dell’essere e del pensiero. È il fondamento che muove ogni singola triade e l’unità di tutti gli elementi dell’essere nella loro totalità: fondamento del moto e dell’unità del cosmo, principio del ritorno ciclico del mondo al suo fondamento, ma soprattutto principio strutturale dello Spirito… /…/ immediatezza iniziale (μονή), che implica già il tutto come quello che è ancora in sé; uscire-da-sé o alienazione dell’inizio nell’esser-altro dello spirito; nella natura (πρόοδος)... Quindi l’in sé esce da sé. Certo, uno dice che se esce da sé si diminuisce… no, perché se lo poniamo come l’ipostasi di Plotino né aumenta né diminuisce; anche se trabocca rimane sempre lo stesso. L’ultimo momento determina già il primo: tutto il movimento è un atto della riflessione in sé, dell’autoriflessione del soggetto che si fa sempre più certo di se stesso e con ciò sempre più ricco, automediazione dell’Assoluto come identificazione del proprio inizio con la propria perfezione. E qui sembra di sentire parlare Peirce, la Primità, la Secondità e la Terzietà, dove, in effetti, la Terzietà è quella che garantisce la Primità, che la fa esistere in quanto tale. A pag. 191. Il punto di partenza è il νούς. Per Plotino il νούς è – secondo Hegel – “trovare-se-stesso da parte di se stesso”, “ripiegarsi indietro in un movimento circolare” intorno all’unità assoluta; “egli converte in sé il mondo intellegibile” ... Il νούς converte in sé il mondo intelligibile, cioè, si appropria di tutto ciò che è comprensibile. …nel pensiero di se stesso annulla in sé le differenze. Così facendo, è universo vivente. Il νούς di Proclo è - nell’interpretazione di Hegel - in primo luogo “ciò che ritorna indietro”. Il fatto che Proclo, diversamente da Plotino, non faccia procedere il νούς immediatamente dall’Uno, costituisce per Hegel un progresso, dal momento che il νούς coinvolge nella sua riflessione anche tutte le differenziazioni che hanno luogo prima di lui. È come se Proclo parzialmente reinserisse i molti all’interno di questo processo. Questo è il motivo per cui Hegel dichiara Proclo “più logico”; Proclo, infatti, mediante “una distinzione più netta, più differenziata dei momenti”, rende il νούς “più ricco”, cioè più concreto. Non è vero, è un’idea di Hegel, andava bene a lui perché nella dialettica questo ritorno deve arricchire. Qual è il vantaggio della dialettica? È che il punto da cui si è partiti viene arricchito dalle negazioni, dalle contraddizioni. Il principio dialettico del νούς è però io nel ritorno o conversione (πρόοδος, έτερότης) supera la negazione, nega il νούς con se stesso. Tutto nel νούς e - secondo l’interpretazione idealistica - anche tutto ciò che è prima di lui, è “Un Solo pensiero, Una Sola idea: permanenza, processione, ritorno”. Ritorno significa però sempre ritorno all’unità, significa concrescere a totalità. /…/ Tutte le determinazioni devono dissolversi in se stesse e ritornare all’unità. sereno. Qui è Severino: tutti gli astratti a un certo punto dovranno partecipare nel concreto e a quel punto il concreto sarà l’intero. “Il negativo è precisamente ciò che sdoppia, che produce, che è attivo, contrapposto, semplice (in sé) … per mezzo della dialettica egli (= Proclo) vuole ricondurre tutte le differenze all’unità”. È questo, l’obiettivo: ricondurre tutte le differenze all’unità, questo è il motivo ricorrente di tutto il pensiero fino a oggi. Rimane tuttavia la differenza fondamentale: l’inizio idealistico diventa ciò che deve essere, cioè soggetto assoluto, il più ricco e il più concreto, mentre. l’inizio ontologico è già da sempre il più ricco e il più concreto, è già da sempre ciò che è e che può essere: il ritorno a lui di ciò cui ha dato origine non gli aggiunge nulla. Questa è la differenza di cui vi dicevo prima tra Hegel e Proclo: questo ritorno, che per Hegel arricchisce, è una dialettica, per Plotino invece non arricchisce e non sminuisce alcunché, perché l’uno è tutto. A pag. 193. Il termine “speculativo” viene da lui (Hegel) identificato col termine neoplatonico “mistico”: “Mistico significa in senso proprio speculativo”; “il carattere mistico consiste nel fatto che queste differenze sono determinate come … totalità, vengono concepite come Uno”. Questo è il carattere mistico: tutte le differenze vengono determinate e vengono concepite come Uno, vengono unificate come Uno. Questo è il mistico, o speculativo, secondo Hegel. A pag. 197. Proclo vuol dire che l’Uno, quale assolutamente Non-molteplice, è proprio il Primo di tutto e dunque anche la possibilità positiva del molteplice, che, appunto in quanto è impossibile da nominare in un’enunciazione categoriale - in quanto è nulla di tutto - è tuttavia causa di ogni qualcosa categorialmente qualificabile. Qui rende in modo molto esplicito questa idea dell’ineffabile a fondamento di tutto: deve essere qualcosa che non si può dire. Si tratta in definitiva di dimostrare che l’Uno non è enunciabile in modo lui è adeguato nemmeno per mezzo della negazione, ma che anzi deve essere “tolto” anche da questa negazione (negazione della negazione). Hegel invece generalizza la funzione della negazione e la intende come elemento motore nell’emanazione nello sviluppo dell’Uno, in cui egli ritiene che il tutto sia “idealmente” contenuto. Questo è il modo in cui Hegel recupera la negazione; per Plotino la negazione è eliminazione di tutto, per Hegel no. La negazione della negazione di Proclo è quindi intesa da Hegel non come modo dell’enunciazione, ma come atto produttivo dell’Uno stesso: “negazione producente, affermativa”. L’antitesi non è la negazione della tesi, ma è ciò che contrapponendosi alla tesi aggiunge qualche cosa; la tesi si appropria dell’antitesi e diventa più ricca.

Intervento: …

Infatti, è così che, in fondo, descrive l’in sé: l’in sé è ciò che “deve” essere in sé, non è ancora ma deve esserlo. Lo sarà quando il processo sarà compiuto, quando avrà raggiunto il télos, il compimento. E, infatti, inizialmente ci sono questi tre momenti dove il primo è ineffabile, è il nulla assoluto, perché non può dirsi, non può determinarsi, non può localizzarsi, non può fare niente finché non c’è il per sé. Come dire che il significante è come se attendesse il significato per essere significante. Non è che lo attende, il significante è già il significato, e il significato è il significante: è questo che non è mai stato posto appieno. L’essere-tolto dalla negazione vuol dire allora che le negazioni “non possono rimanere assolute” nell’Uno… Sarebbe una contraddizione. …cioè che l’Uno le supera in sé stesso e così si “sdoppia”, diventa “attivo”, “produttivo”. Infatti: “La negazione è anche qui la cosa perfetta, l’uscire da sé e il ritornare in sé dell’unità”. Lo sviluppo neoplatonico dell’Uno dovrebbe quindi iniziare esattamente come la logica di Hegel: con la negazione attiva di se stesso da parte dell’inizio. L’inizio che si nega attraverso l’antitesi; negandosi produce appunto l’antitesi, che torna sull’inizio, sull’in sé e diventa in sé e per sé. Che invece l’Uno di Proclo non abbia bisogno di giungere alla perfezione per mezzo della negazione creativa, in quanto è già da sempre ciò che è, né faccia nascere da sé stesso qualcosa, ne faccia nascere se stesso qualcosa di più perfetto perché più differenziato: questo è qualcosa che non può e non vuole entrare nell’orizzonte di comprensione di Hegel. Scombinerebbe tutti i piani. A pag. 198. Se si considera il punto di partenza delle rispettive filosofie, Hegel e Proclo sono certamente incompatibili. La differenza fra essere che si fonda sull’Uno al di là dell’essere e del pensiero, da una parte, e soggetto che, inizialmente vuoto, si sviluppa a idea assoluta che sa se stessa dall’altra, è una differenza incolmabile. Cioè, quello di Plotino e Proclo è ontologico, quasi ipostatico; quello di Hegel è un processo, è dinamico. Il processo di Hegel è antitetico allo sviluppo all’emanazione dell’Uno neoplatonico, in quanto quest’ultimo non si perfeziona, ma non si diminuisce nemmeno, nell’atto del causare; soltanto il causato diminuisce di grado in grado quanto all’intensità con cui è essere e unità. Lo Spirito che ha origine dall’Uno è sempre soltanto spirito per così dire “reso finito da un punto di vista quantitativo”, diviso com’è nel Molteplice, non è mai però spirito assoluto, spirito cioè che nel finito o per mezzo del finito quale momento proprio richiude il cerchio con se stesso, facendosi autocoscienza del soggetto. Questa lo dice senza dire il perché il pensiero di Hegel è fondamentalmente incompatibile con quello di Proclo. Ciò che hanno in comune è questa idea della trinità, della tripartizione, di questo tre che insiste. E anche di questo processo, del ritorno, solo che in Plotino c’è, sì, questo ritorno all’Uno, ma l’Uno non cambia; per Hegel invece sì, perché ciò da cui parte non è l’Uno di Plotino ma è un qualche cosa che è ineffabile e che non esiste se non in attesa dell’antitesi; quando l’antitesi torna sulla tesi o il per sé torna sull’in sé allora esiste propriamente, sennò è nulla.

Intervento: …

Fino a un certo punto perché per Plotino questa processione è quella che lascia intatto l’Uno, che non viene modificato per nulla. L’intelletto e l’anima sono consustanziali ma conservano qualcosa dell’Uno, ma l’Uno, in quanto tale, non viene minimamente scalfitto da questo processo. Per Hegel, invece, è come se questo Uno potesse in qualche modo diventare, quindi pensarsi se stesso, solo in questo processo. Quindi, la negazione, che per Plotino è un fatto che sì c’è, però non ha un grande rilievo, per Hegel invece è determinante.

Intervento: …

Il problema è sempre lo stesso: provare a escogitare un sistema più o meno raffinato, più o meno convincente, per eliminare i molti a vantaggio dell’Uno, dell’unità assoluta, cioè, della verità epistemica, perché solo così posso continuare a pensare che quello che credo sia vero.