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8 aprile 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Siamo a pag. 235. B. Quanto estensivo ed intensivo. 1. Il quanto, come si è dinanzi mostrato, ha la sua determinatezza come limite nelle volte. È un in sé discreto, un molto, il quale non ha un essere che sia diverso dal suo limite ed abbia questo limite fuori di lui. Il quanto così col suo limite, che è in lui stesso un molteplice, è grandezza estensiva. In quanto moltitudine ovviamente è qualcosa che ha un’estensione. Bisogna distinguere la grandezza estensiva dalla continua; a quella si contrappone direttamente non già la grandezza discreta, ma l’intensiva. Grandezza estensiva e grandezza intensiva sono determinatezze del limite quantitativo stesso, e il quanto è poi identico col suo limite; grandezza continua e grandezza discreta, invece, son determinazioni della grandezza in sé, ossia della quantità come tale, secondo che nel quanto si astrae dal limite. A pag. 237. Il grado è dunque una grandezza determinata, un quanto, ma non però anche una moltitudine, ossia più cose dentro se stesso; è soltanto una pluralità, e la pluralità son le più cose come raccolte in una determinazione semplice; è l’esserci, ritornato nell’esser per sé. Dunque, questo sarebbe il grado per Hegel, e cioè una moltitudine di cose prese non più come moltitudine ma come un esserci, un qualche cosa che è per sé. A pag. 241. Perfino il numero ha necessariamente in sé, in una maniera immediata, questa doppia forma. Cioè: l’uno e i molti. Il numero è una moltitudine, e in questo senso è una grandezza estensiva; ma è anche un uno, una diecina, un centinaio, e da questo lato sta sul punto di passare alla grandezza intensiva, in quanto in questa unità il molteplice si raccoglie in un semplice. L’uno è grandezza estensiva in sé; può immaginarsi come un’arbitraria moltitudine di parti. Così il decimo, il centesimo è questo semplice, questo intensivo, che ha la sua determinatezza nel parecchio che cade fuor di lui, cioè nell’estensivo. Il numero è dieci, cento, e in pari tempo è nel sistema dei numeri il decimo, il centesimo. Ambedue son la medesima determinatezza. … il grado del circolo non è, come semplice grandezza spaziale, altro che un numero ordinario; riguardato come grado esso è la grandezza intensiva, che ha un significato solo in quanto è determinata da quella moltitudine di gradi in cui è diviso il circolo, così come il numero in generale ha il suo significato soltanto nella serie dei numeri. Ciò su cui insiste e che ripete è la presenza, la simultaneità dell’uno e dei molti. Questa è una cosa che si ripete continuamente in Hegel, anzi, è il centro del suo pensiero. A pag. 246. Il quanto si muta e diventa un altro quanto. L’ulteriore determinazione di questo mutamento, che cioè prosegua all’infinito, sta in ciò che il quanto è fissato come contraddicentesi in se stesso. Il quanto diventa un altro; ma nel suo esser altro si continua; l’altro è dunque anch’esso un quanto. Questo però è l’altro non soltanto di un quanto, ma del quanto stesso, il negativo suo come di un che di limitato, e perciò è la sua illimitatezza, la sua infinità. Il quanto è un dover essere. Esso include di esser determinato per sé, e questo esser determinato per sé è anzi l’esser-determinato in un altro. Viceversa esso è il tolto esser-determinato in un altro, è un indifferente sussister per sé. L’infinità e la finità ottengono con ciò subito ciascuna in se stessa un significato doppio, e precisamente opposto. Il quanto è finito in primo luogo come quello che è in generale limitato, in secondo luogo in quanto è il riandare al di là di se stesso, in quanto è l’esser-determinato in un altro. La sua infinità invece è primieramente il suo non esser limitato, secondariamente è il suo esser tornato in sé, l’indifferente esser per sé. Ci sta dicendo che il quanto è simultaneamente finito e infinito. È finito perché è un qualche cosa che è in qualche modo determinato, limitato, ma questo limite il quanto lo trova nell’andare fuori di sé. Questo è il concetto di infinito in Hegel. Generalmente, l’infinito è contrapposto al finito, tanto che le due cose si pongono come assolutamente separate. Ciò che invece qui ci sta dicendo è che il finito è tale proprio perché, essendo il finito limitato, trova questo suo limite in qualche cosa che è fuori di lui; è in questo fuori di lui che si continua, ed è in questo esser fuori di lui che sta la sua infinità. Quindi, è simultaneamente finito e infinito, o, più propriamente, potremmo dire che il quanto è finito a condizione di essere infinito. A pag. 247. Il progresso all’infinito è in generale l’espressione della contraddizione. Qui esso è l’espressione di quella contraddizione che si contiene nel finito quantitativo o nel quanto in generale. È quell’avvicendarsi delle determinazioni del finito e dell’infinito, che fu considerato nella sfera qualitativa, colla differenza però che nel quantitativo, come venne accennato poc’anzi, è in lui stesso che il limite s’invia e si continua nel suo al di là, per il che, di rimando, anche l’infinito quantitativo è posto come tale che ha il quanto in lui stesso, poiché nel suo esser fuori di sé il quanto è in pari temo se stesso, la sua esteriorità appartiene alla sua determinazione. Il progresso infinito è ora soltanto l’espressione di questa contraddizione, non già la sua soluzione. Di quale contraddizione sta parlando? Del fatto che è impossibile determinare il finito se non attraverso l’infinito, e viceversa. Contraddizione che si pone, naturalmente, se pensiamo il finito e l’infinito come degli enti che si pongono separatamente fra loro. Per dirla in modo più semplice, io non posso pensare l’infinito; l’infinito è un qualcosa che ha sempre un altro elemento al di là di sé e, quindi, per poterlo pensare, per poterlo determinare devo pensarlo come finito. Voglio dire che ciascuna volta che penso l’infinito, di fatto, sto pensando il finito: se lo voglio pensare devo pensarlo come finito. Al tempo stesso, se penso il finito, lo penso in quanto a un certo punto è limitato e questo limite comporta un qualche cosa che è al di là del finito, cioè la sua negazione, e la negazione del finito è l’infinito. In questo senso Hegel parla di contraddizione. Però, dice anche che questo infinito, di cui si sta parlando, in realtà è quella cattiva infinità di cui parlava in precedenza. A pag. 249. Questa infinità, che è costantemente determinata come l’al di là del finito, è da designarsi come la cattiva infinità quantitativa. Al pari della cattiva infinità qualitativa, essa è il perenne andare e venire dall’un membro all’altro della permanente contraddizione, dal limite al suo non essere, dal non essere del limite di nuovo al limite. Questa è la cattiva infinità, che è quella che mantiene separati il finito e l’infinito; quindi, non già come due momenti dello stesso ma come enti separati fra loro, che quindi andrebbero presi separatamente, ma presi separatamente implica il trovarsi immediatamente nella contraddizione. A pag. 250, Nota 1. La cattiva infinità, principalmente nella forma del progresso del quantitativo all’infinito (questo continuo sorpassare il limite, che è l’impotenza di toglierlo e la perenne ricaduta di esso) suol essere riguardata come un che di sublime e come una sorta di culto, nella stessa maniera che nella filosofia cotesto progresso è stato ritenuto un che di ultimo. Il progresso all’infinito ha in vari modi servito a tirate, che vennero ammirate come prodotti sublimi. Nel fatto però questa sublimità moderna non rende grande l’oggetto, che anzi sfugge, ma soltanto il soggetto, che inghiottisce in sé quantità così grosse. La povertà di un tale innalzamento sempre soggettivo, che sale per la scala del quantitativo, si dà di per sé a vedere per ciò che nel suo vano lavoro esso confessa di non venir più presso alla meta infinita, per raggiungere la quale occorre senza dubbio prendere un’altra via. Ci sta dicendo che se manteniamo separati il finito e l’infinito in questo movimento continuo, finito e infinito, che rimanda al finito e rimanda all’infinito, senza possibilità di arrestarsi da nessuna parte, ci troviamo di fronte alla cattiva infinità, che per l’appunto non porta da nessuna parte. A pag. 261. L’infinità del quanto. Il quanto infinito, come infinitamente grande o infinitamente piccolo, è esso stesso in sé infinito; è quanto perciò ch’è un grande o un piccolo, ed è in pari tempo non essere del quanto. Quando si chiede, per es. a qualcuno “quanto è grande quella cosa?”, si dice quanto, si chiede cioè una determinazione, si chiede qual è il limite, qual è la sua grandezza. Da qui l’importanza di potere stabilire, di potere determinare il quanto. Se prendiamo dapprima il progresso infinito nelle sue determinazioni astratte così come ci stan dinanzi, abbiamo in cotesto progresso il togliere del quanto, ma anche quello del suo al di là, dunque così la negazione del quanto, come la negazione di questa negazione. La sua verità è la loro unità, nella quale esse sono, ma come momenti. Ci sta dicendo che questa finità o infinità del quanto sono da prendere come momenti del processo. C’è una nota del Moni, a pag. 262, che possiamo leggere perché sembra interessante. Quello che Hegel dice qui non può essere preso nel senso che sia da imputare come colpa all’intelletto di fermarsi alla prima negazione, invece di passar oltre e giungere anche alla negazione di quella negazione. L’intelletto è costituito come tale appunto dal suo arrestarsi alla negazione semplice;… Quindi, a mantenere separate le due cose, cioè il ciò che si pone e la sua negazione. …e si arresta alla negazione semplice appunto perch’esso è la semplice negazione, la negazione cioè del determinato in generale, e nel caso presente, del quanto. Come negazione del quanto, l’intelletto lo considera ab extra. Ab extra = qualcosa di estrinseco, che viene da fuori. Perciò il passare oltre il quanto, sia verso l’infinitamente grande, sia verso l’infinitamente piccolo, sembra all’intelletto essere il fatto suo proprio, il fatto del soggetto che considera il quanto, e non già procedere dalla natura stessa di questo. Quest’apparenza è legata così intimamente all’essenza dell’intellettualità, che il soggetto si conduce intellettualmente solo finché si lascia ingannare da essa. Ma l’inganno stesso, la negazione semplice, è d’altra parte un presupposto necessario perché possa verificarsi il dileguamento dell’inganno ed effettuarsi quella negazione della negazione, per la quale solo la mente, d’intelletto che era, passa ad esser ragione. Sta ponendo la negazione semplice come qualcosa di inevitabile, e in effetti potremmo anche pensare che sia così. Occorre farsi carico del problema – questo Hegel lo sa molto bene – per potere incominciare a ragionare, cioè, a essere nella ragione. Farsi carico del problema è un accogliere il fatto che i due momenti, cioè il porre qualche cosa e il negare la sua negazione, sono lo stesso. Che poi non è nient’altro di ciò che faceva Severino dicendo che per potere affermare in modo incontrovertibile l’essere è necessario porre, come tolto, il non essere; solo a questa condizione l’essere non è non essere, cioè, è quello che è. A pag. 263. Quell’infinito, che nell’infinito progresso ha soltanto il vuoto significato di un non essere, di un non raggiunto, ma cercato al di là, non è nel fatto altro che la qualità. Come limite indifferente il quanto va oltre se stesso all’infinito; esso non cerca con ciò altro che l’esser-determinato per sé, il momento qualitativo, che però così è soltanto un dover essere. La sua indifferenza di fronte al limite epperò il suo mancare di una determinatezza che sia per sé, e il suo uscire oltre a se stesso, è ciò che fa del quanto un quanto. Quel suo uscire dev’essere negato, e nell’infinito deve trovarsi la sua assoluta determinatezza. Il che equivale a dire che il quanto, in quanto infinito che oltrepassa se stesso, è la negazione di sé. Ma la cosa interessante è che il quanto si pone, in quanto infinito, come un dover essere, cioè non è mai quello che è; in quanto infinito si aggiunge sempre qualche cosa e, quindi, rimane sempre un dover essere, ma se è un dover essere allora ancora non è, in ogni caso non è, quindi, è nulla; quindi, in quanto infinito è nulla. in maniera affatto generale: il quanto è la qualità tolta; ma il quanto è infinito, oltrepassa se stesso, è la negazione di sé; questo suo oltrepassare è dunque in sé la negazione della negata qualità, la restaurazione di essa; e come posto è questo, che l’esteriorità, la quale appariva come Al di là, è determinata come proprio momento del quanto. Con ciò il quanto è posto come respinto da sé, mentre così son dunque due quanti, i quali ciò nondimeno son tolti, son soltanto come momenti di una unità, e questa unità è la determinatezza del quanto. Il quanto riferito così a sé nella sua esteriorità qual limite indifferente, epperò posto qualitativamente, è il rapporto quantitativo. Nel rapporto il quanto è estrinseco a sé, è diverso da se stesso. Ovviamente, se è un rapporto, rapportandosi si rapporta a qualche cos’altro, che è fuori da lui. Questa sua estrinsecità è il riferimento di un quanto a un altro quanto, ciascun dei quali vale soltanto in questo suo riferimento al suo altro, mentre il riferimento stesso costituisce la determinatezza del quanto, che è come tale unità. Il quanto non ha in ciò una determinazione indifferente, ma qualitativa; è in questa sua esteriorità tornato in sé, è in essa quello ch’esso è. Il quanto esce fuori di sé, proprio perché è infinito, ma uscendo fuori di sé trova un altro quanto, cioè pone un altro quanto. Ora, ci sta dicendo Hegel che il quanto, tornando indietro su di sé, trova quello che esso è, cioè, un rapporto, una relazione tra il quantitativo e il qualitativo, tra la qualità e la quantità. La quantità, negata, viene tolta e ritorna sulla qualità; solo a questo punto il quanto è veramente quello che è, e cioè un quanto che è determinato ma che è infinito; ha la sua infinità come tolta, esattamente come l’esser di Severino ha in sé il non essere in quanto tolto. Ora, qui Hegel pone una questione intorno all’infinito matematico. L’infinito matematico pone delle questioni interessanti, per es. attraverso la teoria dei limiti. Come vi dicevo, l’infinito è pensabile solo come finito, come qualcosa di determinato, e quindi occorre porre un limite, ma questo limite lo pongo come un qualche cosa che tende all’infinito, vale a dire, deve essere infinito ma non può esserlo. Ma deve esserlo? È sempre un dover essere. Ora, dicevo, Hegel si accorge, tra le righe, che questo problema dell’infinito non è un problema matematico e nemmeno filosofico, ma è un problema connesso al funzionamento del linguaggio. Potremmo dire che non esistono problemi matematici o filosofici, ma esistono problemi collegati al funzionamento del linguaggio. Questo Wittgenstein lo aveva intuito quando nel Tractatus dice che non esistono problemi filosofici ma che esistono solo problemi linguistici. È un’approssimazione alla questione, certo, occorre andare oltre, ma Wittgenstein avverte che questi problemi sorgono per il modo in cui funziona il linguaggio, non sono problemi di per sé, l’infinito non è un problema matematico, è un problema del linguaggio. A pag. 264. L’infinito matematico riesce interessante da un lato a cagione dell’ampliamento da lui portato nella matematica e dei grandi risultati dovuti alla sua introduzione in essa; dall’altro lato poi è degno di nota per ciò che a questa scienza non è peranco riuscito di addurre, dell’uso che ne fa, alcuna vera giustificazione basata sul concetto (prendendosi la parola concetto nel suo senso proprio). Sta dicendo che, sì, la matematica si interessa alla questione, ma non è riuscita in nessun modo a dare una ragione di questo problema. È chiaro che non può farlo, perché è un problema che riguarda il linguaggio. Le giustificazioni riposano in sostanza sulla esattezza dei resultati ottenuti coll’aiuto di quella determinazione, esattezza che vien dimostrata richiamandosi ad ulteriori principii, non già alla chiarezza dell’oggetto e dell’operazione mediante la quale si ottengono i resultati; tanto che si riconosce anzi che l’operazione stessa non è esatta. È ovvio. Se per es. l’operazione riguarda i limiti, io posso anche porre il limite come un qualche cosa di determinato, ma di fatto non lo è, non lo è perché è qualche cosa che deve essere ciò che in realtà non è. È questa la contraddizione che la matematica incontra e che non può ovviamente esaurire. Questo è già un inconveniente in sé e per sé; un tal modo di procedere non è scientifico. Ma porta poi con sé anche lo svantaggio, che la matematica, non conoscendo la natura di questo suo strumento (poiché non è venuta a capo della metafisica e critica di esso), non poté determinare l’estensione della sua applicazione, e mettersi al sicuro contro il suo cattivo uso. Dal punto di vista filosofico l’infinito matematico è però importante per questo, che, nel fatto, v sta in fondo il concetto del vero infinito, e ch’esso sta molto al di sopra del cosiddetto infinito metafisico, in base al quale si muovono le obiezioni contro il primo. Da queste obiezioni la scienza della matematica non sa spesso salvarsi altro che rigettando la competenza della metafisica, coll’affermare di non avere nulla da spartire con questa scienza, né di doversi curare dei concetti di essa, purché rimanga conseguente a sé sul suo proprio terreno. La matematica non avrebbe cioè da ricercare ciò ch’è vero in sé, ma ciò ch’è vero nel campo suo proprio. La matematica colle sue obiezioni contro l’infinito matematico non sa negare né abbattere i brillanti resultati dell’uso di esso, e la matematica non sa venire in chiaro circa la metafisica del suo proprio concetto e quindi nemmeno circa la deduzione delle maniere di procedere, che l’uso dell’infinito rende necessarie. Chiaramente, né la matematica né la filosofia possono uscire, usando le parole di Hegel, dalla cattiva infinità: finché finito e infinito si mantengono come enti separati, non c’è nessuna possibilità di risolvere la questione, si incapperà inevitabilmente in antinomie, contraddizioni, paradossi, insolubilia di vario genere. Questo perché il vero infinito, di cui parla Hegel, è un infinito che è in atto, è in atto nel finito, è nel finito che l’infinito è attuale, cioè, è presente; è presente come ciò che rende possibile il finito, come la sua condizione. A pag. 273. La serie infinita contiene infatti la cattiva infinità, perché quello che la serie deve esprimere rimane un dover essere… L’infinito non può che essere un dover essere, un dover essere qualche cosa che non sarà mai. …e ciò ch’essa esprime è affetto da un al di là che non sparisce ed è diverso da quello che dev’essere espresso. La serie è infinita non già a cagione dei membri o termini che si son posti, ma per ciò ch’essi sono incompleti, per ciò che l’altro, che essenzialmente loro appartiene, sta al di là di essi. Ciò che è presente nella serie, i termini posti siano pure quanti si vogliano, è soltanto un finito, nel vero e proprio senso, posto come finito, vale a dire come tale che non è quello che deve essere. All’incontro quello che viene chiamato l’espressione finita o la somma di una tal serie è senza difetto; esso contiene completo quel valore che la serie non fa che cercare; l’al di là è richiamato dalla sua fuga; quello che cotesta cosiddetta espressione finita o somma è, e quello che deve essere, non son separati, ma son lo stesso. Ecco: finito e infinito sono lo stesso. Più precisamente, ciò che distingue i due sta in questo, che nella serie infinita il negativo è fuori dei membri o termini di essa, i quali son presenti solo in quanto valgono come parti del numero di volte. Nell’espressione finita al contrario, che è un rapporto, il negativo è immanente come esser-determinato dei termini del rapporto uno per mezzo dell’altro, che è un esser tornato in sé, una unità riferentesi a sé, come negazione della negazione (ambedue i lati del rapporto son soltanto come momenti), ed ha perciò dentro di sé la determinazione dell’infinità. Questa è la soluzione dialettica che propone Hegel: il finito e l’infinito sono soltanto momenti, non sono enti, sono momenti di un unico processo, cioè, di un’unità. Non possono separarsi, esattamente come l’essere non può separarsi dal non essere, perché l’essere, per essere quello che è, occorre che non sia ciò che non è, che non sia non essere. A pag. 281. Ciò ch’è infinito, si disse inoltre, non è comparabile come maggiore o minore. Non può darsi quindi un rapporto dell’infinito all’infinito secondo ordini o dignità dell’infinito, come quelle diversità delle differenze infinite che vengon fuori in cotesta scienza. In fondo a questa già accennata obbiezione sta sempre la rappresentazione che qui si debba discorrere di quanti, che come quanti si confrontino; mentre delle determinazioni, che non son più dei quanti, non hanno più fra loro alcun rapporto. Ma al contrario, quello che è soltanto nel rapporto, non è un quanto. Il quanto è una tal determinazione, che deve avere un esserci perfettamente indifferente fuori del suo rapporto, ed a cui la sua differenza da un altro dev’essere indifferente, laddove all’incontro il qualitativo è soltanto quello ch’esso è nella sua differenza da un altro. Questo è importante. Il qualitativo è quello che è in quanto differisce da un altro, cioè non è un altro. Non soltanto, quindi, quelle grandezze infinite son comparabili, ma sono soltanto come momenti della comparazione, cioè del rapporto. Quindi, queste grandezze infinite sono comparabili, ma soltanto nel rapporto, non sono enti determinabili e manipolabili, esistono soltanto in quel rapporto: è questo che rapporto che le fa esistere. A pag. 284. …in quel passaggio che si fa, nel vero infinito, è il rapporto, quello che è il continuo. Rapporto tra finito e infinito. Esso è tanto continuo e tanto si conserva, che anzi non consiste che nel mettere in rilievo il puro rapporto, e nel far dileguare la determinazione irrelativa, la determinazione cioè che un quanto, il quale è lato o termine di un rapporto, sia ancora un quanto, anche quando sia posto fuor di questa relazione. Il quanto è determinato nel rapporto. La questione del rapporto è sempre presente in Hegel, è sempre molto importante perché coglie benissimo che è la relazione tra due momenti che fa di questi due momenti quello che sono - la relazione, cioè, l’Aufhebung, il ritornare del per sé sull’in sé; è a questo punto che l’in sé diventa effettivamente quello che è, attraverso la negazione. La negazione qui è sempre presente, ma non è propriamente un negare; potremmo intenderla come è posta nell’algebra di Boole, vale a dire, come il complemento booleano. Nell’algebra di Boole ci sono tre operazioni: la moltiplicazione, la somma e la negazione o complemento booleano, come dire che negare la x significa porre tutto ciò che la x non è. È in questo senso che Hegel parla di negazione: la negazione non è nient’altro che tutto ciò che è al di là di ciò che ho posto. A pag. 289. Il calcolo fa sì che si debbano sottomettere le cosiddette quantità infinitesime alle ordinarie operazioni aritmetiche del sommare, ecc., operazioni che si fondano sulla natura delle quantità finite, e che quindi si lascino valere per un istante quelle quantità come quantità finite, trattandole come tali. Il calcolo avrebbe da giustificarsi quanto a questo, che cioè una volta tira giù coteste grandezze in questa sfera e le tratta come incrementi o differenze, mentre dall’altra parte poi le trascura come quanti, proprio dopo aver applicato loro le forme e le leggi delle grandezze finite. Questo è quello che esattamente vi dicevo prima: il calcolo, la matematica, è chiaro che non può non operare se non con elementi finiti; li pone come infiniti ma per calcolarli - come nella teoria dei limiti o il calcolo differenziale, dove il differenziale è la variazione infinitesima di una variabile - è come se l’infinito dovesse togliersi a vantaggio del finito. Finché permane in quanto infinito non è calcolabile in nessun modo, e gli artifici che usa la matematica non consistono in altro che in questo, e cioè nel trasformare l’infinito in qualcosa di finito per poterlo, come direbbe Heidegger, manipolare, ecc. Siamo al Capitolo Terzo, Il rapporto quantitativo. A pag. 350. L’infinità del quanto fu determinata come quella che è il negativo al di là del quanto,… Potremmo anche dire, riprendendo ciò che dicevo prima circa l’algebra di Boole, che l’infinità del quanto è il complemento booleano, cioè tutto ciò che è al di là. …che lo ha però in se stesso. Per essere quello che è deve avere questo negativo in se stesso. Questo al di là è il qualitativo in generale. Il quanto infinito, come unità di ambedue i momenti, della determinatezza quantitativa e qualitativa, è anzitutto rapporto. Questione sempre presente in Hegel: rapporto fra i due momenti. È importante il rapporto perché il rapporto è ciò che fa di questi due momenti quello che sono. Nel rapporto il quanto non ha più una determinatezza soltanto indifferente, ma è determinato qualitativamente come riferito semplicemente al suo al di là. In questo rapporto il quanto è determinato qualitativamente, cioè è quale esso realmente è, semplicemente come riferito al suo al di là; è il suo al di là che lo pone come qualità. Non è niente altro che la stessa cosa che vi dicevo rispetto a Severino, rispetto all’essere e al non essere: la qualità dell’essere è data dal fatto che questo essere contiene il suo negativo, in quanto tolto, in quanto negato, ma lo contiene, perché altrimenti l’essere non può essere l’essere. Esso si continua nel suo al di là; questo è dapprima un altro quanto in generale. Essenzialmente però cotesti non si riferiscono l’uno all’altro come quanti estrinseci, ma ciascuno ha la sua determinatezza in questo riferimento all’altro. Così in questo loro esser altro son tornati in sé; quello che ciascuno è, lo è nell’altro; l’altro costituisce la determinatezza di ciascuno. Il sorpassarsi del quanto ha dunque ora questo senso, che il quanto non si mutò né soltanto in un altro, né nel suo astratto altro, nel suo negativo al di là, ma è arrivato così alla sua determinatezza; esso trova se stesso nel suo al di là, che è un altro quanto. La qualità del quanto, la sua determinatezza concettuale, è la sua esteriorità in generale; ora nel rapporto esso è posto così che ha la sua determinatezza nella sua esteriorità, in un altro quanto, cosicché quello che è, esso lo è nel suo al di là. Il che è esattamente ciò che vi dicevo prima rispetto all’essere e al non essere. A pag. 359. Parla degli esponenti, fa una lunga disanima del concetto di limite, del calcolo differenziale, utilizzando sia le opere di Lagrange che di Carnot e di Cartesio. Qui parla dell’esponente, cioè delle volte in cui un elemento deve essere preso. L’esponente di questo rapporto non è più un quanto immediato, come nel rapporto diretto e anche nell’inverso. Nel rapporto potenziale l’esponente è di natura interamente qualitativa; è questa semplice determinatezza, che il numero di volte è l’unità stessa, che il quanto nel suo esser altro è identico con se stesso. In ciò sta in pari tempo il lato della sua natura quantitativa, che il limite o negazione non è come un immediatamente essente, ma che l’esser determinato è posto come continuato nel suo esser altro. Perocchè la verità della qualità è appunto questa, di essere quantità, la determinatezza immediata come tolta. La verità della qualità è appunto questa: di essere quantità. Come abbiamo detto varie volte, quantità e qualità sono lo stesso. …la determinatezza posta come tolta, vale a dire la determinatezza come un limite, il quale in pari tempo non è limite, che si continua nel suo esser altro, e in questo rimane dunque identica a sé. Continua a dire la medesima cosa. A pag. 360. Sulle prime, dunque, apparisce la quantità come tale di contro alla qualità; ma la quantità è essa stessa una qualità, una determinatezza che in generale si riferisce a sé, distinta dalla sua altra determinatezza, dalla qualità come tale. Se non che essa non è soltanto una qualità, ma la verità della qualità stessa è la quantità; quella si è mostrata come trapassante in questa. La quantità all’incontro è nella sua verità l’estrinsecità tornata in se stessa, non indifferente. Così essa è la qualità stessa, e non come se fuori di questa determinazione la qualità come tale fosse ancora qualcosa. Dunque, qualità e quantità sono quello che sono unicamente in quanto prese in questo rapporto fra loro. La questione che può porsi a questo punto potremmo dirla così: Hegel ci induce a pensare che il problema dell’infinito in matematica è il problema che ciascuno incontra parlando, e cioè la necessità, per potere parlare, per potere utilizzare una parola, che quella parola sia quella che è, e cioè porla come finita. Ma questa parola dove finisce esattamente? A che punto finisce? Per dirla in modo più semplice: quando posso fermarmi nella ricerca del significato di quella parola? Teoricamente mai. Quindi, per potere usare una parola, per potere parlare, devo utilizzare lo stesso procedimento che utilizzano i matematici, e cioè porre qualcosa che è infinito come finito; solo allora posso parlare. Questo è interessante perché, in effetti, riguarda ciascun atto di parola. Ciascuna volta in cui qualcuno parla si trova di fronte a questo problema, anche se effettivamente non lo intende come tale, non lo problematizza, ma, diciamola così in modo molto rozzo, lo vive sulla sua pelle, e cioè si trova ciascuna volta a dovere inseguire una parola, un concetto, in un certo senso all’infinito per poterlo determinare senza riuscire mai a determinarlo; quindi, lo pone come finito ma, e qui sta la contraddizione, ponendolo come finito si trova a utilizzarlo come un qualcosa che quella cosa non è. Questa è la lezione che ci tramanda Hegel: questa parola è sempre un dover essere qualche cosa che non sarà mai; è sempre un dover essere e, quindi, propriamente non è, è solo in riferimento ad altro, rispetto al suo al di là, rispetto a ciò che di fatto non è. Questo apre a una serie notevole di questioni intorno al funzionamento del linguaggio, cioè, potremmo dire, intorno all’impossibile connesso con il linguaggio; impossibile che è rilevato dal fatto che ciascuna volta che dico qualche cosa, questa cosa è sempre un dover essere una qualche altra cosa e, quindi, essendo un dover essere, non è mai. Si tratta a questo punto, ovviamente, di intendere, di cogliere, di articolare tutte le implicazioni di una cosa del genere. Implicazioni che sono notevoli e che aprono a una serie di questioni di cui ci occuperemo nel prosieguo. Nel prossimo incontro ci occuperemo della Sezione Terza che è sulla misura. Forse vi ricorderete dalla lettura dell’inizio, a pag. 66, della Scienza della logica, poneva della misura tre determinazioni precise. La prima, la determinatezza di una come tale, cioè, la qualità, il quale è; la seconda, come determinatezza tolta, cioè come grandezza, perché la quantità si mostra poi come una grandezza, come un qualche cosa che ha una sua misura; infine, la quantità determinata qualitativamente, quindi, la quantità presa come qualità, e cioè nella sua integrazione.