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8 gennaio 2020

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

La questione della religione, dunque. Siamo a pag. 197. Nelle figurazioni fin qui vedute che si distinguono, in generale, come coscienza, autocoscienza, ragione e spirito, anche la religione è bensì apparsa in generale come coscienza dell’essenza assoluta;… La religione vede l’essenza assoluta, vede l’intero, ma lo vede a modo suo. …ma soltanto dal punto di vista della coscienza che è consapevole dell’essenza assoluta… La coscienza è consapevole di questa cosa ma, ovviamente, non la assume in sé. …ma in quelle forme non è apparsa l’essenza assoluta in se e per se stessa, non l’autocoscienza dello spirito. La coscienza vede l’intero, ma è come se lo lasciasse da qualche altra parte. E questa è, potremmo dire, l’essenza della religione. Andiamo a pag. 226. Il vero esserci autocosciente dallo spirito raggiunto nel linguaggio che non è la lingua dell’autocoscienza estranea, dell’autocoscienza accidentale e non universale, è l’opera d’arte che prima abbiamo veduta. Essa si contrappone alla cosalità della statua. Come questa è l’esserci quieto, quella è l’esserci dileguante; come in questa l’oggettività fatta libera manca del proprio immediato Sé, così in quella l’oggettività rimane troppo chiusa nel Sé, giunge troppo poco a figurazione e, come il tempo, immediatamente non c’è, mentre c’è. Ho letto questo brano praticamente per l’ultima riga: il tempo, immediatamente non c’è, mentre c’è. Come vi dicevo, Hegel esplora qui la questione della religione muovendo da tre momenti: la religione naturale, la religione artistica e la religione disvelata. La religione naturale è la religione della natura: le piante, gli animali, il cielo, il sole, la luna; ciascuna di queste cose viene posta come una divinità; ancor oggi si pensa alla natura come una dea. Non sono tre fasi di un percorso lineare, sono cose che sono sempre presenti, in qualunque momento. Lui pone la cosa come se si trattasse di una sequenzialità, ma non è così. Poi, c’è la religione artistica, dove il passo è dalla cosa naturale alla cosa rappresentata, l’immagine: la statua, il dipinto, l’inno (per questo prima parlava del linguaggio), cioè una serie di cose che avvicinano la religione all’intero, cioè, avvicinano la religione a coglierla come un qualcosa che appartiene all’uomo. E, infatti, poi nella religione disvelata c’è la religione del figlio, dove non è più né la natura né la rappresentazione, ma è qualcuno. È come un avvicinarsi a un prendere atto che ciò che attribuisco alla religione, in realtà, sono io.

Intervento: Per Hegel il politeismo classico è artistico?

Sì, è il passaggio intermedio tra la religione naturale e la religione disvelata, quella della rivelazione. Le statue sono il primo modo di rappresentarsi la persona; poi, ci sono i dipinti, gli inni: sono tutte modalità che compiono una sorta di percorso che porta poi all’assunzione finale del dio che sono io. Andiamo a pag. 260. Che lo spirito assoluto si sia data la figura dell’autocoscienza in sé e quindi anche per la sua coscienza, appare ora così: ch’essa è la fede del mondo;… Qui siamo già alla religione disvelata …che lo spirito è là come un’autocoscienza, cioè come un uomo effettuale… Infatti, è il dio che si è fatto uomo. Manca l’uomo che si fa dio, che è il passo finale. …ch’esso è per la certezza immediata; che coscienza credente vede e sente e ode questa divinità. Onde l’autocoscienza non è immaginazione, ma è effettualmente così. Come dire che in questo percorso si avvicina sempre di più all’uomo A pag. 262. È il concetto puro, il puro pensare o esser-per-sé, l’essere immediato e quindi Essere per altro, e come questo Essere per altro immediatamente ritornato in sé e presso se stesso; è dunque ciò che veramente e solamente è manifesto. Questo essere per sé che diventa essere per altro, questo mutarsi, questo integrarsi parzialmente, mai del tutto, come dire, sì, vedo che dio è un uomo ma ancora non sono io, rimane ancora lì. Infatti, poco più avanti dice Lo spirito vien saputo come autocoscienza ed è a lei immediatamente svelato, perché è lei stessa; la natura divina è la stessa che l’umana; e questa unità è ciò che vien intuito. Viene intuito ma ancora non accolto. A pag. 263. Questa unità dell’essere e dell’essenza, del pensare che è immediatamente esserci, come è il pensiero di questa coscienza religiosa o il suo sapere mediato, così è il suo sapere immediato; giacché questa unità dell’essere e del pensare è l’autocoscienza… È importante questo passaggio per cui l’essere e il pensare è lo stesso. …ed è là essa stessa; ovverosia l’unità pensata ha nello stesso tempo la figura di ciò che essa è. Quindi, il dio pensato è già quella figura, è già me che mi rifletto in quella figura. Dio è dunque qui rivelato come egli è; egli è là così come è in sé; è là come spirito. Dio è raggiungibile soltanto nel puro sapere speculativo, ed è soltanto in quel sapere, ed è soltanto quel sapere stesso, perché egli è lo spirito; e questo sapere speculativo è il sapere della religione disvelata. Questo sa la religione: che dio è raggiungibile soltanto dal puro pensiero speculativo, e quindi ha ancora qualcosa da raggiungere, c’è ancora qualcosa che è fuori portata. Quello sa Dio come pensare e essenza pura; e sa questo pensare come essere e come esserci, l’esserci come la negatività di se stesso, epperò come Sé, come questo Sé e come Sé universale; e tutto ciò lo sa anche la religione disvelata. Dice sa questo pensare come essere e come esserci: questo pensare non è soltanto essenza ma è anche uomo; è lui, ma questo esserci è la negatività, cioè è l’uomo nei confronti di Dio. Qui negatività è l’imperfezione, è qualcosa che ancora non è perfetto; l’esserci, l’uomo in quanto tale, è naturalmente qualcosa di finito e, quindi, non ha ancora accesso all’infinito. A pag. 267. Lo spirito è inizialmente contenuto della sua coscienza nella forma della pura sostanza… Lo spirito non è altro che l’integrazione di coscienza, autocoscienza e ragione; nello spirito c’è in più l’opera, il fare. Le prime tre sono ancora astratte, mentre lo spirito è, sì, la loro integrazione ma in quanto fare, perché è intervenuta la morale, il pensiero morale, che è quello che dice che cosa si deve fare. Pertanto, nello spirito c’è sempre l’opera, il fare. Questo elemento del pensare è il moto di discesa verso l’esserci o la singolarità. Il medio fra loro è il loro collegamento sintetico, la coscienza del divenire Altro o il rappresentare come tale. Il terzo è il ritorno dalla rappresentazione e dall’esser altro, o l’elemento dell’autocoscienza stessa. Questi tre momenti costituiscono lo spirito;… Questo moto di discesa dall’universale al particolare, cioè dal puro pensiero all’esserci; poi, il medio che, dice, è il loro collegamento sintetico, la coscienza del divenire Altro o il rappresentare come tale: l’accorgersi che questo divenire altro del puro pensiero, che vuole raggiungere Dio, in qualche modo si rappresenta, ma in questo rappresentarsi anche si perde. Il terzo elemento non è altro che il ritornare da questa rappresentazione – che io ho messo in Dio, perché in qualche modo lo devo rappresentare – all’autocoscienza, e cioè il ritorno da questa rappresentazione all’accorgermi che sono io che opero in tutto questo, che c’è la mia opera. Quindi, è sempre un avvicinarsi sempre di più alla consapevolezza che questo dio, in realtà, sono io. Il suo movimento circonstanziato è dunque questo: di espandere la sua natura in ciascuno dei suoi momenti come in un elemento; mentre ciascuno di tali cicli porta a compimento sé entro sé, questa sua riflessione in sé è nello stesso tempo il passaggio nell’altro ciclo. Nella rappresentazione, che per esempio mi faccio di Dio, c’è una determinatezza. Difatti, in qualche modo lo determino, si parlava prima della rappresentazione artistica, della statua, ecc. L’idea è quella di espandere la natura, l’essenza di questa rappresentazione in ciascuno dei suoi momenti. Dice: mentre ciascuno di tali cicli porta a compimento sé entro sé, questa sua riflessione in sé è nello stesso tempo il passaggio nell’altro ciclo: questo movimento di riflessione che metto in atto ogni volta che rappresento Dio, però questa rappresentazione è una rappresentazione e, in quanto tale, è mia, quindi, mi riapproprio di questa operazione e, facendo questo, si avvia un altro ciclo, cioè, a seguito di questa sintesi avviene la produzione di un nuovo elemento. Vedete che il meccanismo è sempre lo stesso: tesi, antitesi, sintesi. La rappresentazione costituisce il medio fra il puro pensare e l’autocoscienza come tale, ed è solo una delle determinatezze; ma in pari tempo, come si è visto, il suo carattere è di essere il collegamento sintetico esteso su tutti questi elementi e sulla loro determinatezza comune. Dice, dunque, che La rappresentazione costituisce il medio fra il puro pensare e l’autocoscienza come tale, cioè, il puro pensiero è l’autocoscienza che rappresenta il suo negativo, rappresenta il suo ritorno in quanto altro da sé. Questo movimento è, in effetti, quel movimento che costituisce il pensare religioso. Possiamo dirla così: io colgo nella rappresentazione di qualche cosa una sorta di estensione di tutto ciò che per me è il divino; metto in questa rappresentazione, sì, certo, il mio puro pensiero, so che si tratta di puro pensiero, ma al tempo stesso c’è un’autocoscienza che mi fa dire che questo puro pensiero non è soltanto puro pensiero, ma anche concetto, un qualche cosa di pensato, un qualche cosa che pertanto ha una sua esistenza. A pag. 269. Si distinguono dunque i tre momenti: dell’essenza, dell’esser-per-sé che l’esser-altro dell’essenza e pel quale l’essenza è, e dell’esser-per-sé o del sapere se stesso nell’altro. Questi i tre momenti fondamentali: essenza, esser-per-sé, che è anche esser-per-altro, e il sapere che l’esser-per-sé è sapere per altro. L’essenza intuisce solo se stessa nel suo esser-per-sé; essa in questa alienazione è soltanto presso di sé; l’esser-per-sé che si esclude dall’essenza è il sapere l’essenza di se stesso;… Cioè: l’essenza del sapere dell’essere per se stesso viene come estromesso. …è il verbo che, pronunziato, lascia alienato e svuotato chi lo pronunzia;… Dice L’essenza intuisce solo se stessa nel suo esser-per-sé, quindi, non nell’in sé ma soltanto nell’essere per sé, quindi, un essere per altro. …essa in questa alienazione è soltanto presso di sé; l’esser-per-sé che si esclude dall’essenza è il sapere l’essenza di se stesso;… In questa operazione l’essere per se stesso è escluso dall’essenza, cioè, la mia essenza esclude l’essere per me, mi esclude dal sapere che io sono questa cosa, perché questo essere per sé lo mette al di fuori. A pag. 277. È dunque qui rappresentata la conciliazione dell’essenza divina con l’Altro in generale, e precisamente col pensiero di esso, col male. Perché il male? Il male è il modo di rappresentarsi il negativo, è l’Altro, l’altro da sé; se il Sé è il positivo, l’altro da sé è il male. Se questa conciliazione secondo il suo concetto viene espressa in modo da sussistere perché in sé il male è la stessa cosa che il bene, o anche perché l’essenza divina è la stessa cosa che la natura nella sua intera ampiezza, così come la natura separata dall’essenza divina è solo il nulla,… Se io tolgo alla natura l’essenza divina diventa nulla. …allora questa dev’essere considerata come una maniera non spirituale di esprimersi, che necessariamente deve suscitare dei malintesi. Essendo il male la stessa cosa che il bene, proprio il male non è male, né il bene è bene, ma piuttosto son tolti ambedue: il male in genere, l’esser-per-sé entro se stesso essente;… Il male, cioè l’esser-per-sé entro se stesso essente, quindi, è qualcosa che non è garantito da qualche altra cosa ma è soltanto l’essere per me. Questo è il male. Il bene, invece, …il Semplice privo di sé. Questo vuol dire che è una pura astrazione; in questo senso può mantenersi come il bene assoluto, perché è una pura astrazione. Nel momento in cui diventa un Sé, in cui diventa qualcuno o qualcosa, immediatamente è il male. Lo vedevamo in parte anche nell’anima bella, nel suo non fare, perché se faccio, cioè se qualcosa diventa il Sé, allora diventa il male, diventa il cattivo. Soltanto queste due proposizioni compiono l’intiero… Cioè: il bene e il male insieme. …e all’affermazione e all’assicurazione della prima devesi con inoppugnabile pervicacia opporre l’attenersi all’altra;… Il bene non può che rivolgersi al male per esistere, e viceversa. …mentre hanno ragione ambedue, ambedue hanno torto, e il loro torto consiste nel prender per alcunché di vero, di saldo, di effettuale tali forme astratte, quali lo stesso e il non lo stesso, l’identità e la non identità, e nel basarsi su di esse. Prendono per effettuale, per reale, potremmo dire noi, delle forme che sono assolutamente astratte. Non l’una o l’altra ha verità, ma il loro movimento, che cioè il semplice “lo stesso” è l’astrazione e quindi la differenza assoluta; ma questa, come differenza in sé, da se stessa diversa, è dunque l’identità con se stessa. Questa differenza in sé è la stessa, cioè questa differenza comporta un’identità con se stessa, non può essere altro da sé. Proprio così succede con la medesimezza dell’essenza divina e della natura in genere e della natura umana in ispecie; quella è natura in quanto non è essenza, questa è divina secondo la sua essenza; ma è lo spirito quello in cui ambedue i lati astratti sono posti come sono in verità, cioè come tolti;… Sia il bene che il male vengono tolti nella loro integrazione, ciò che ne rimane è un’altra cosa, è un terzo elemento che non è più né il bene né il male. Esattamente come diceva Peirce quando parlava di A è B: nella relazione scompaiono tanto A quanto B e diventano una relazione, in quanto elementi separati vengono tolti. …porre, che non può venire espresso mediante il giudizio e la sua copula priva di spirito: è. Non basta, dice, la “è” per porre qualche cosa. Similmente la natura è nulla fuori dalla sua essenza; ma questo nulla è, ciò nonostante; è l’astrazione assoluta e quindi il puro pensare e l’esser entro-sé, e, col momento della sua opposizione all’unità spirituale, è il male. Questo nulla che sto ponendo è, dice giustamente, un’astrazione assoluta, quindi, il puro pensare, il puro essere entro sé. In quanto essere puro essere entro sé si oppone all’unità spirituale, all’infinito, perché è particolare, e quindi è il male. La difficoltà che si trova in questi concetti sta soltanto nell’attenersi a quell’è, dimenticando il pensiero, dove i momenti tanto sono quanto non sono,… Sono perché si sono posti, non sono perché vengono tolti. Vengono tolti nel momento della sintesi. …sono cioè soltanto quel movimento che è lo spirito. Lo spirito come movimento; quel movimento, come diceva Peirce, pone i due elementi in una relazione, il terzo elemento; ma nel momento in cui c’è il terzo elemento, gli altri due sono tolti in quanto elementi singoli, separati, non ci sono più ma c’è la relazione. A pag. 282. Ciò che appartiene all’elemento della rappresentazione, - vale a dire che lo spirito assoluto come uno spirito singolo o meglio come uno spirito particolare, rappresenti nel suo esserci la natura dello spirito, - è qui dunque trasferito nell’autocoscienza stessa, nel sapere che si mantiene entro il suo esser-altro; non muore dunque effettualmente, come si rappresenta che il particolare è effettivamente morto; anzi, la sua particolarità muore nella sua universalità, cioè nel suo sapere, il quale è l’essenza riconciliantesi con sé. Questa opposizione, di nuovo, tra l’universale e il particolare non scompare nel momento in cui il particolare, dice lui, muore, ma nel senso che viene assunto nell’universale, cioè nel suo sapere dell’universale. A pag. 203. Così dunque lo spirito è spirito che sa se stesso; esso sa sé;… Il particolare, che prima era considerato il male, è accolto nell’universale; quindi, nell’universale c’è sia il bene che il male. …quello che gli è oggetto, è;… Quello che gli era di contro è, nel senso che c’è, esiste. …ossia la sua rappresentazione è il contenuto vero e assoluto; esso esprime, come vedemmo, lo spirito stesso. Esso è in pari tempo non soltanto contenuto dell’autocoscienza e non soltanto oggetto per essa, ma anche spirito effettuale. Questo spirito non è più soltanto un contenuto dell’autocoscienza, ma diventa uno spirito effettuale, qualche cosa che c’è effettivamente, concretamente. Esso è tale, in quanto percorre i tre elementi della sua natura; questo movimento attraverso se stesso costituisce la sua effettualità; - quello che si muove è lui; esso il soggetto del movimento ed è anche o stesso muovere,… Questa è una questione interessante, e cioè il fatto che questo spirito è, sì, chiaramente, il movimento, ma è anche ciò che muove; è il movente e il mosso, è il movimento stesso, pur essendo lui che muove. È lui che muove nel senso che nello spirito c’è tutto ciò che consente agli umani di pensare qualunque cosa, a partire dalla coscienza, dall’autocoscienza, che è il ritorno nella coscienza del negativo, di ciò che le si oppone; quindi la ragione he mette insieme questi elementi e lo spirito che, infine, opera; opera in quanto è il movimento stesso, un movimento che continua a produrre se stesso, all’infinito. Ora, c’è una questione che andrebbe posta, che Hegel non si pone direttamente, però mi è venuta in mente leggendolo: perché la religione? Da dove arriva? Perché a un certo punto il linguaggio ha sentito l’esigenza di costruire questa cosa che chiamiamo religione? Il linguaggio, nel suo farsi, pone delle cose, delle affermazioni. Il “problema” del linguaggio, al quale la religione si pone come rimedio, è il fatto che afferma di porre qualcosa, l’affermato, ma nel fare questo non lo pone: afferma, pone qualcosa, ma non lo fa. Non lo fa perché ciò che pone, di fatto, come ci dice Hegel continuamente, è altro; linguisticamente, potremmo dire che è il suo significato, ma questo significato non è lui, è un’altra cosa. Quindi, affermando qualcosa, io dico di porre quello che sto affermando, ma in realtà non è così, non lo sto affatto ponendo, sto ponendo un’altra cosa. Potremmo anche dire, per qualche verso, che questa è la tragicità del linguaggio, i logici lo chiamerebbero paradosso: dico di fare qualche cosa, ma il fare questo ha come condizione di non poterlo fare; cioè, io posso porre qualche cosa se e soltanto se non lo posso fare, se e soltanto se ciò che pongo è altro da ciò che io dico di porre; perché soltanto in quanto altro ciò che io sto ponendo diventa effettivamente ciò che sto ponendo. È esattamente la questione che pone de Saussure: il significante di per sé è niente senza il significato, cioè senza altro da lui; ma è il significato che, tornando sul significante, lo rende effettivamente significante. Quindi, ci troviamo nella situazione in cui perché io possa porre qualche cosa è necessario che io non lo possa porre. Per porre un significante è necessario che io non possa porre quel significante perché ponendolo pongo un significato, che poi mi ritorna, ritorna sul significante rendendolo significante. Il linguaggio può affermare quello che afferma a condizione di non poterlo fare. Questo iato, questa divisione, questa apertura incolmabile, è molto simile al modo con cui Severino traduceva la parola greca θαμα, generalmente tradotta con meraviglia, ma secondo Severino è l’orrore, il terrore, l’orrore della morte. Qui, però, la morte va intesa, non è il vedere il cadavere, che di per sé non significherebbe niente; ma la morte come l’annullarsi di ciò che si sta ponendo nel momento in cui lo si pone: per poterlo porre devo annullarlo. In fondo, il messaggio di Hegel, di tutta la dialettica, è questo: nel porre qualche cosa, ponendolo, lo annullo attraverso il suo assoluto negativo, il suo contrario; quindi, lo annullo in quanto tale. È il discorso che faceva nel primo libro: la coscienza trova nell’autocoscienza il significato, la coscienza di per sé non è altro che l’avvertire qualche cosa ma senza un concetto, senza un pensiero, è l’autocoscienza che opera. Difatti, poi l’autocoscienza diviene il servo, colui che lavora, l’autocoscienza è il lavoratore, mentre la coscienza è il signore, quello che semplicemente agisce senza avere un concetto, senza un operare, ma fa in modo che sia il servo – l’autocoscienza, il significato – a lavorare per lui e a farlo essere quello che è, cioè il signore. Quindi, questo terrore del nulla, del vuoto, il famoso horror vacui. Questo vacuo non è altro che l’apertura, non è altro che lo scomparire di ciò che affermo mentre lo affermo. Uno scomparire che, in realtà, si rivela come la condizione per potere proseguire, per potere incontrare uno spostamento, quindi, un rilancio continuo, un rinviare continuo, quindi, un proseguire a parlare.

Intervento: Perché se fosse quello che è non potrebbe proseguire…

Non funzionerebbe il linguaggio, si fermerebbe tutto. A quel punto non sarebbe neanche quello che è, perché per essere quello che è ha bisogno di questo spostamento che, ritornando su di lui, lo fa essere quello che è. Ora, come dicevo prima, la religione si pone come rimedio a questa devastazione. Come? Cercando di gestire, di farsi in qualche modo il gestore dell’autocoscienza, del significato. L’orrore maggiore consiste in questo: nel non potere affermare niente o, per usare un modo figurato, nel morire ogni volta che apro bocca, cioè, nello svanire, man mano che parlo svanisco in ciò che dico. Ecco, la religione si pone come colei che sa gestire questo significato, l’autocoscienza; sa gestire questa cosa che mi fa scomparire; si pone, appunto, come colei che sa. Naturalmente, questa gestione deve avvenire attraverso una serie di espedienti per poter garantire che io non scompaia mentre parlo; ci vuole un qualche cosa o un qualcuno che rimanga identico a sé, cioè, un qualcuno, per usare le parole di Hegel, anche se può sembrare un paradosso, che non possegga il Sapere assoluto, perché il Sapere assoluto è quel sapere che sa che svanisce mentre parla. Vedremo questo nell’ultimo capitolo, quello sul Sapere assoluto, che sa questo e non può non saperlo. Il dio deve rimanere, deve essere al di fuori di questo movimento dialettico. La religione disvelata arriva ad accorgersi che questo dio, in effetti, si è fatto uomo, si è fatto carne, ma deve ancora necessariamente mantenerlo fuori dal linguaggio. Se qualcosa entra nel linguaggio è finito, si dissolve risolvendosi in altro, in quanto tale si dissolve. Quindi, il dio deve essere posto necessariamente fuori dal linguaggio; ecco la necessità della religione, e cioè che ci sia qualcuno o qualcosa che garantisca che qualcosa è fuori dal linguaggio.

Intervento: Anche la natura…

Infatti, la religione naturale considera la realtà come immutabile, ma per essere immutabile deve non svanire e per non svanire deve essere fuori di me. Ecco perché questo gesto che ha fatto Hegel è veramente di un’audacia fuori del comune, cioè ciò che ho posto sempre e necessariamente come fuori di me lo ha riportato in me, da dove è partito.

Intervento: la religione disvelata, il protestantesimo…

Sì. In effetti, questa posizione sembra avvicinare di più all’uomo, sempre lasciando il dio fuori dalla portata del linguaggio, perché è questo il punto delicato, e cioè che il dio deve rimanere fuori della portata del linguaggio, non deve cioè compiersi quel passo straordinario che ha fatto Hegel di riportare dio da dove è partito, a chi lo ha inventato.

Intervento: La religione protestante sembra compiere un passo ulteriore rispetto al cattolicesimo. La riprova è che il protestantesimo è una religione del fare, dell’opera…

Nelle parti che non vi ho letto Hegel fa una disquisizione sulla religione artistica dicendo che in questa c’è l’opera dell’uomo, cosa importante, mentre nella religione naturale non c’è. Il sole non l’ho fatto io, mentre il quadro, il dipinto, la statua, sì, l’ho fatta io.