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7 maggio 2025

 

Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo

 

Ciò che abbiamo appreso ultimamente è che la teologia trinitaria è il modo in cui il pensiero occidentale, la Chiesa, ha cancellato i molti, a vantaggio dell’uno. Con la teologia trinitaria c’è un Uno che produce, crea i molti; quindi, i molti sono una creazione dell’Uno e, pertanto, sono gestibili, per cui diciamo che non sono più un problema. Questo grazie alla teologia trinitaria, al tre. Dicevamo che il tre, in fondo, mette in ordine le cose: un primo, un secondo, un terzo. In questo modo si è eliminato, o si è tentato di eliminare, il problema dei molti. I molti non esistono più in quanto Uno, che è fatto di molti, ma sono una creazione dell’Uno, è l’Uno che li crea e, quindi, li gestisce facilmente o almeno ci prova. Naturalmente, questo Uno deve rappresentare la verità assoluta, cioè la verità assoluta come il riferimento ultimo: è questa la sua funzione. Però, questa verità assoluta ha la prerogativa che non viene posta attraverso un’argomentazione, ma viene imposta. Il Padre, l’Uno, Dio, non può essere determinato, descritto, non può essere argomentato, non è il risultato di un’argomentazione. Quindi, ci si trova di fronte a questa situazione bizzarra per cui la verità assoluta è indicibile. Perché è questo che dice la teologia trinitaria. Dunque, questa è l’invenzione straordinaria della Chiesa: la verità assoluta non è il risultato di un procedimento argomentativo, logico, razionale, ma è l’indicibile, è l’ineffabile. Per questo è ciò che poi consente tutto quanto, perché è dalla verità che procede tutto, cioè, dall’Uno, da Dio. Qui Beierwaltes, citando Agostino, dal De Trinitate, dice: Tutti gli uomini vogliono essere beati e, se essi veramente la desiderano, essi desiderano nel contempo essere immortali. Il desiderio di una vita felice e immortale, che duri intemporalmente, è presente nell’essere dell’anima umana. Esso (desiderio) è legato alla verità assoluta, che è l’essere assoluto, idea è La sapienza. Il movimento conoscitivo intratemporale può compiere la sua funzione solo perché si basa sull’essere in sé sovratemporale, verità, idea, sapienza, ed è consapevole di esso, a causa di questo legame ontologico con l’essere l’anima è immortale. Quindi, tutto dipende da questa verità assoluta. Ecco dov’era finita la verità epistemica, la verità assoluta: era diventata Dio, era diventata l’ineffabile. La verità assoluta è l’ineffabile. E prosegue Beierwaltes: Una delle argomentazioni di cui Agostino si serve per dimostrare l’immortalità dell’anima, rifacendosi alla trama concettuale, è la seguente: l’anima riceve il suo essere dall’essere originario, Dio. In quanto pura essentia e pura substantia, questo essere è anche verità e sapienza. Esistendo nel modo supremo, non ha alcun contrario rispetto a se stesso, ossia in quanto essentia non può non essere. Base dell’argomentazione agostiniana è quindi l’unità di essere e essere vero. Per questo Agostino tenta di dimostrare il legame essenziale e insolubile che intercorre tra l’anima e l’essere che la sovrasta. Se l’anima ha da questo essere supremo originario la proprietà di essere, non esiste nulla per cui essa perde tale proprietà, poiché nessuna cosa è contraria all’essenza dalla quale essa ha tale qualità e, quindi, non cessa di essere, non può perire. Quindi, la dimostrazione di Agostino, in fondo, è questa: se l’anima è connessa con l’essere e l’essere è l’assoluto, è la verità assoluta, allora l’essere, se è sostanza, se è veramente essenza, non ha un suo contrario, perché l’essere non è non-essere; quindi, se l’essere non è non-essere, non ha nessun contrario e, pertanto, non cessa, non può morire, perché la morte comporterebbe la cessazione dell’essere; quindi, è immortale. Questa argomentazione è di tipo platonico. Nel Fedone Platone espone la terza dimostrazione dell’immortalità dell’anima muovendo dal concetto di vita, il carattere essenziale dell’idea è proprio anche della vita, essendo identica a se stessa non può avere in sé il contrario di sé medesima. Sta sempre parlando della verità assoluta: la verità assoluta non può avere il suo contrario, se è assoluta. Anche per Plotino una delle caratteristiche di fondo dell’anima è che essa arreca vita a ciò di cui entra in possesso. Com’è che entra in possesso? L’Uno non ha bisogno di niente, perché dovrebbe entrare in possesso di qualcosa? L’anima è quindi causa dell’automovimento di un essere. Il contrario della vita e la morte, se l’anima è per essenza vita, essa non può accogliere in sé il suo contrario, la morte. Qui c’è già un’allusione importante, e cioè la verità assoluta, se è tale, non può accogliere in sé il suo contrario, non può accogliere in sé molti, ma deve restare una, identica a sé e i morti eliminati. Ma ciò che non accoglie in sé la morte è il non morto, il non mortale, θάνατος. Se l’anima si separa dal corpo, essa non viene meno e sfugge alla morte. La sua vita va intesa a partire dalla partecipazione alla idea nel pensiero. Quindi, vedete, la verità assoluta viene subito chiarita come un qualche cosa che deve essere identico a sé; per essere identico a sé non devono esserci i molti insieme: vita-morte, Uno-molti. Questo capitolo è il decimo e suona così: La suprema forma di felicità consiste nel raggiungimento della verità. Naturalmente, la verità assoluta. Tutti i testi (di Agostino) sono caratterizzati da un assunto comune. Il pensiero dell’uomo deve allontanarsi dall’irretimento della sensibilità e nella temporalità e deve ritornare all’interiorità, perché quest’ultima è in grado di chiarire ciò che viene esperito mediante la sensibilità. Come dire che questa verità assoluta non si può dimostrare ma ciascuno la porta dentro di sé come retaggio del Dio che lo ha creato. Quindi, se guarda dentro di sé, vede la verità assoluta. Altrimenti, non ci sarebbe modo di sapere nulla di questa verità, visto che non è il risultato di un’argomentazione. Di che cosa è fatta? Per saperlo devi guardare dentro di te, lì trovi il divino in te. La concessione agostiniana si contrappone alla tesi secondo cui l’esperienza sensibile è in grado, per sé sola, di donare la conoscenza vera. Tale mediazione può avvenire solo in forza di una presenza preliminare del concetto nei sensi, ma il principio alla potenzialità e la portata di questo concetto possono essere messi in luce solo mediante il ritorno nell’interiorità. La verità assoluta c’è, non può essere provata, non può essere detta, è l’ineffabile; l’unico modo per accedere alla verità assoluta è guardare dentro di sé. Dice Agostino nel De vera religione: Non andare verso l’esterno, ritorna in te stesso. Nell’uomo interiore abita la verità. L’uomo interiore è l’autocoscienza pensante, o la mens che è consapevole del suo fondamento, cioè di essere creata da Dio. Mens, nella quale e mediante la quale, la verità può essere scoperta. Ecco come conosciamo la verità: attraverso l’autocoscienza, cioè, la riflessione su di sé. Che poi, in fondo, è il processo dell’Aufhebung: è un’autoriflessione che ritorna su di sé. Il principio è lo stesso. Con una identica esortazione inizia anche il passo di Confessiones 7, 10: Sotto la tua guida penetrai nel mio intimo e ci riuscii perché tu fosti in mio aiuto, entrai e vidi. Nell’accordo con il supremo autoaccordo, cioè il pensiero che si accorda con il più intimo pensiero, con quello più vero, cioè quello rivolto verso la verità assoluta, il pensiero raggiunge ciò che è, nel palpito di una trepidante visione. Questo sempre nelle Confessioni. Mediante il pensiero in se stesso significa giungere alla serie veritas-æternitas-caritas. Il concetto dell’essere in sé. Ciò che è può essere inteso esclusivamente come l’essere assoluto, puro, l’essere che è sempre immutabilmente se stesso e che si manifesta nell’autoaffermazione “Io sono colui che sono”. Questo è ciò che “dice” la verità assoluta, è la verità assoluta che dice “io sono colui che sono”, e può dirlo perché ha eliminato i molti. Altrimenti, dovrebbe dire “io sono quello che sono, ma sono anche questo, questo, questo, ecc. L’essere in sé è la realtà più certa, e Agostino afferma di avere più dubbi rispetto alla sua esistenza che non rispetto all’esistenza della verità che viene vista e compresa nel creato. Su questa non c’è dubbio. Non c’è dubbio perché, se si leva questa verità, la verità assoluta, cioè Dio, l’Uno, crolla tutto il sistema, non sta più in piedi niente. Questa convinzione conserva la sua validità, anche se il pensante deve riconoscere che, dopo l’accadimento immediato di questa evidenza, viene di nuovo rimandato, a causa della sua debolezza, nella situazione esistenziale che gli è abituata, situazione che è dominata dall’immagine, dall’ombra e dall’enigma. Rimane a lui, pertanto, l’amoroso ricordo e l’impulso a conservare questa evidenza come costitutiva per l’essere di conoscere l’agire. Qui è chiaro che c’è un riferimento abbastanza preciso alla teoria della reminiscenza di Platone, da cui tutto quanto procede. Questo apparire della verità costituisce, per così dire, la visione propria di colui che è beato, nella speranza e si differenzia dalla beatitudine ventura che coincide con la visione e il possesso stabile della assoluta verità. La felicità provvisoria consiste quindi nell’astrazione dalla molteplicità…. Bisogna sempre astrarre dalla molteplicità ...dalla sensibilità della temporalità, dalla dispersione e nel ritorno del pensiero nell’interiorità, nell’unità e nella verità che lo fondano. Nell’accrescimento del proprio essere, che viene determinato dallo spirito identico in sé alla verità. Come dire che dentro c’è qualche cosa di identico alla verità assoluta. La libertà dell’essere, dell’uomo, consiste nell’apertura all’essere in sé e alla suprema modalità di senso. Questa è la nostra libertà: sottometterci a tale verità. La libertà, dunque, è sottomettersi a questa verità. Questo è il criterio supremo della felicità, che deve essere raggiunta. Sottomettendosi alla verità. È una questione importante questa, perché dire una cosa del genere è come dire che non c’è qualche cosa che sia al di sopra di questa verità, che poi è Dio, naturalmente. E, quindi, sottolinea il carattere ineffabile di questa verità assoluta, di qualche cosa che non può vedersi, non può dirsi, non può pensarsi. Si può soltanto, attraverso l’autocoscienza, guardandosi dentro, coglierne degli aspetti, e si possono cogliere perché questi aspetti sono ciò che rimane del Dio creatore. Il pensiero raggiunge il suo principio tramite il ritorno in se stesso, πιστροϕή. Proclo la chiama πιστροϕή, Hegel la chiama Aufhebung. …il ritorno in sé stesso prendendo coscienza di sé. Questo atto, come nella filosofia di Agostino, si attua nel pensiero e insieme trascende il pensiero. Il pensiero che incomincia a pensarsi, ma si trascende, si trascende, cioè, va oltre se stesso, va verso appunto la verità assoluta, va verso Dio. In Aristotele non c’è mai questa idea del pensiero che trascende se stesso, il pensiero fa quello che deve fare, cioè, costruisce sillogismi uno dietro l’altro. Il principio è l’Uno assoluto, il quale è in sé privo di relazioni ed è insieme origine di qualsiasi forma di unità e di pensiero. Questo è un altro punto fondamentale, privo di relazioni, che significa dire che è privo dei molti, perché le relazioni sono i molti. Plotino fa iniziare il processo dell’autoconsapevolezza con un imperativo etico simile a quello agostiniano. Afferma infatti Plotino che l’uomo deve liberarsi dall’irretimento nella sensibilità e nella molteplicità. Immagini. Liberarsi dei molti: liberarsi della sensibilità, della temporalità, ecc. Questo ritorno è al tempo stesso ascesa attraverso i diversi gradi di intensità del νούς e della ψυχή, ossia del pensiero nella sua complessità. Nel ritorno in se stesso, l’uomo raggiunge il suo vero Dio. Uomo interiore, il nome autentico che si basa sull’ambito dell’essere puro intellegibile è presente nell’esistenza temporale dell’uomo. Il suo vero io è già presente. È ciò di cui dicevamo prima, cioè, questa connessione con la verità assoluta, cioè con Dio, che c’è già, sennò non potrebbe trovarla, ovviamente. Ritornando in sé, il principio del pensiero non diventa soltanto consapevole del pensiero, ma diventa questo stesso principio, si trasforma in νούς. Conformemente al punto di partenza, il ritorno del pensiero comporta una sempre maggiore semplificazione, una profonda unificazione, in quanto il pensiero si fa determinare sempre più intensamente dal suo fondamento. Il suo fondamento è l’Uno. È come se l’Uno - diciamola così in modo un po’ rozzo - chiedesse di sbarazzarsi di tutti i molti per tornare all’Uno. Il fine di questo processo è l’unificazione con l’Uno. L’unificazione con la verità assoluta. È possibile credere in una verità assoluta, però, se e soltanto se questa verità assoluta è scevra dei molti, sennò non è verità assoluta. L’Uno non può essere pensato e in esso non esiste coscienza. Perché l’Uno è al di sopra della determinazione… È prima dell’eternità. …e della forma che sono accessibili soltanto al pensiero dianoetico. Solo l’Uno in noi può essere pensato... L’Uno in noi, cioè, la verità assoluta che conserviamo dentro di noi. …e solo dell’Uno in noi possiamo avere consapevolezza, poiché esso è causa di unità del pensiero e rimanda, al di là di sé, al suo fondamento. Noi pensiamo e pensando unifichiamo. Facciamo questo perché c’è un Uno da qualche parte, sennò non ci verrebbe in mente di unificare. Invece, grazie all’Uno, ecco che lui ci fornisce l’elemento di riferimento per unificare tutto. L’Uno che esiste preliminarmente nel pensiero, in quanto fondamento dell’unità del pensiero, costituisce quindi il presupposto dell’esperienza non più pensante dell’Uno in sé. Quindi, l’Uno che esiste preliminarmente, cioè, l’Uno-uno, è la condizione per l’esperienza dell’Uno che possiamo avere, cioè dell’Uno-che-è. Contro la condanna per lo più generale del concetto, ossia del pensiero concettuale e razionale, colpevole di avere creato un sistema sociale pianificato in modo… Qui è Beierwaltes che dice quello che pensa lui. …colpevole di avere creato un sistema sociale pianificato in modo razionale e finalizzato ma impenetrabile, sarebbe auspicabile che la filosofia sostenesse l’idea secondo cui soltanto il pensiero concettuale è giustificato in modo argomentativo e fondato può salvare dall’irretimento della non felicità che caratterizza la nostra epoca. C’è naturalmente il risvolto soteriologico, cioè l’idea di dover salvare qualcuno da qualcosa. Quindi, non il pensiero che procede in modo concettuale, ma rimane legato al procedimento formale o formalistico, né l’atteggiamento ideologico che conosce precisamente e senza tolleranza critica ciò che è vero, ma il concetto che al contrario si orienta alla realtà e alla sua verità con intensa fatica e autocritica, assumendo queste due modalità esistenziali come criterio orientativo del pensiero e l’insieme della prassi all’interno di un processo dialettico. Quindi, tolleranza critica e autocritica. Qui, in effetti, è abbastanza hegeliano, perché sta in qualche modo ponendo l’anima bella. La storia del pensiero ci ha forse insegnato che, davanti alle dolorose esperienze storiche, non possono promettere ed arrecare felicità né l’atteggiamento filosofico incondizionatamente fiducioso nella scienza o l’ottimismo, addirittura ingenuo, dell’Illuminismo, né la remitizzazione della coscienza, che finisce nell’irrazionalismo disordinato. Questo compito può invece essere proprio di un pensiero responsabile, che crea uno spazio per sé stesso e per la prassi che da esso deriva e che si armonizza con l’affettività e con l’immaginazione produttiva, la verità della realtà di cui si è parlato. L’essere, il fondamento, le idee o la ragione dovrebbero possedere in modo analogo quel carattere cogente che possedeva il principio della teoria e della regio beatitudinis nel pensiero greco e cristiano. Tutto un bel discorso che non significa niente. È proprio Beierwaltes che parla e dice quello che pensa lui, e cioè che ciò che importa, in fondo, lo dice qui: L’essere, il fondamento, le idee o la ragione dovrebbero possedere in modo analogo quel carattere cogente che possedeva il principio della teoria e della regio beatitudinis nel pensiero greco e cristiano. Cristiano, soprattutto. Ma c’è sempre l’allusione naturalmente a questa verità. Insomma, ciò che lui propone, di fatto, è intendere il fondamento, l’essere e tutto quanto, in base al principio cristiano. D’altra parte, lui è cristiano, che deve fare? È chiaro che anche tutte queste cose che lui pensa procedono da un’idea di una verità assoluta che deve essere posta, di un bene assoluto da raggiungere. Ora, qui siamo all’interpretazione di “Ego sum qui sum”, che abbiamo visto essere l’enunciato della verità: Filone, Gregorio Nazianzieno e Gregorio Nisseno. Qui fa una disquisizione filologica dall’ebraico. Nell’interpretazione di Esodo 3, 14, fornita da Filone, il nome di Dio è “Colui che è”. Siccome Filone usa le due forme del participio, il maschile e il neutro, risulta evidente che, almeno in questo contesto, l’essere vero, ossia la denominazione suprema dell’intelligibile e la non personalità, è il primo carattere della sua concezione di Dio. Il nome το ν non è di per sé un nome proprio che intenda rendere dicibile Dio, che in sé è indicibile; esso indica piuttosto che soltanto Dio, al contrario di tutti gli altri enti, è in senso proprio, mentre gli enti, che sono dopo di lui, sembrano solamente essere. Gregorio Nazianzieno concepisce i termini “Colui che è” come nomi che esprimono l’essenza o l’essere di Dio e che sono posti dall’essere di Dio addirittura in modo necessario. Invece, Nisseno sviluppa le sue considerazioni sulla conoscenza di Dio in termini simili; anche esse si presentano come interpretazione della proposizione “Io sono colui che sono”. In essa Dio esprime se stesso dandosi un nome. La sua essenza è designata come atemporale o eterna. Qui tutti questi discorsi che appaiono un po’ squinternati, diventano chiari se si intende che di fatto sta parlando della verità. “Io sono colui che sono”, è la verità che dice questo, cioè, io sono identica a me, quindi, non c’è altro, quindi non ci sono più i molti, ci sono soltanto io, l’Uno. “Tu sei” è il solo appellativo che spetta per assenza al dio Apollo. Apollo, come sappiamo, viene da αόλλων, non-molti. L’appellativo nomina la sua essenza, essere. Questo essere di Dio costituisce il rovesciamento strutturale della situazione umana. Noi non siamo, la nostra natura si presenta in quanto imprigionata nell’eraclitismo dell’ente mondano. Anche noi siamo in noi stessi molteplicità e, quindi, siamo determinati alla differenza dall’alterità che non ci fa mai giungere a una stabile presenza a noi stessi. Perché non riusciamo mai a stabilire chi siamo veramente? Perché ci sono sempre i molti di mezzo. Al contrario, Dio è essere vero, essere nel senso autentico ed originale, l’eterno l’indiveniente e l’indistruttibile, nel quale il tempo non introduce mutamento. Carattere fondamentale dell’essere è quindi quello di negare il tempo... Il tempo è movimento. …di rimanere se stessi in modo aprocessuale, di essere costitutivamente presente a se stesso. Sono tutte definizioni e descrizioni della verità assoluta. L’espressione “essere sempre” è formulata in termini temporali, ma deve essere intesa in termini intemporali e come tale rappresenta l’eternità dell’essere divino. Dio è ed è non secondo un tempo ma secondo l’eternità: immobile, atemporale, immutabile, per la quale non esiste prima e poi futuro e passato, più vecchi, più giovani. L’eternità è soltanto unitaria ed ha riempito il sempre con il suo unico ora. Solo ciò che esiste conformemente all’eternità è vero. Ciò che non muta. Ciò che non ha inizio né cesserà. Il tempo sarebbe distractio, mentre l’ora atemporale, in quanto sempre, è unità. È Uno. L’essere è quindi unità. L’identità, in quanto espressione dell’eternità indiveniente, esclude dall’essere l’alterità. Alterità è principio della causa del non-essere. L’alterità, cioè, i molti. È tutto un discorso costruito sulla necessità di sbarazzare la verità assoluta dai molti, per poterla rendere assoluta. L’appellativo “Tu sei” è perciò identico all’appellativo “Tu sei l’Uno”. Quindi, ciò che non ne dice di per sé, αόλλων, il non molteplice privo di differenza. L’unità come carattere fondamentale di Apollo (Dio) giustifica anche l’altro suo nome, il puro e il santo. L’Uno è limpido e puro solo perché libero dalla differenza. La purezza è la eliminazione dei molti. L’Uno non è essere… Questo è Plotino, mentre poi Porfirio accosta i due, per Aristotele sono la stessa cosa. Mentre l’essere esiste a causa dell’Uno e mediante l’Uno, l’essere è caratterizzato dal non essere l’Uno in sé. L’Uno procede nell’essere e l’essere è il procedere dell’Uno. L’Uno procedendo… ma verso dove se è tutto? L’essere in quanto è senza particolare (ipostasi) fa tornare all’Uno originario il suo procedere, ovverosia se stesso come processione dall’Uno. Di nuovo Hegel. Questo ritorno dell’essere o dell’Uno che è nell’essere nell’Uno in sé, si realizza come riflessione o pensiero. L’essere che esista al di fuori dell’Uno, perché proceduto dall’Uno, è pertanto essenzialmente spirito, che si rapporta a se stesso e al suo principio nel pensiero. Lo spirito è quindi l’autoriflessione dell’essere. L’essere autoriflettendosi produce lo spirito, cioè, le cose, tutto quanto. Tutto ciò ci introduce alla questione importante che ci dice come, in effetti, tutta la teologia trinitaria non sia nient’altro che un modo di sbarazzarsi dei molti. Questo è stato un principio importante per tutta la teologia medievale e, infatti, ha lavorato sempre sulla teologia trinitaria. Leggeremo il De Trinitate di Agostino. È il testo principale di teologia. Ci sono altre cose, certo, però lì è il nucleo, come grazie alla Trinità si producano le cose. Il problema irrisolto è sempre lo stesso, quello che Plotino non ha saputo risolvere: come si passa dall’Uno all’Intelletto e poi allo Spirito? Come si passa dall’Uno ai molti? C’è un passaggio? No, non c’è un passaggio, c’è un salto. Lui risolve con un salto quella cosa che invece Aristotele aveva intesa con l’ύπάρχειν. È un comando, non c’è passaggio, non c’è nessun passaggio, non c’è nulla al mondo che autorizzi il passaggio dall’1 al 2, niente.