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5 settembre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Cosa ci sta dicendo, dunque, Severino? Sta dicendo che ogni affermazione, ogni asserto, è autocontraddittorio. Come peraltro dicevamo anche noi: ogni volta che affermo qualche cosa, che dico che cos’è una certa cosa, devo dirne un’altra; quindi, dico ciò che quella cosa non è e, pertanto, dico che quella cosa è qualcosa che non è; ecco la contraddizione. Ora, come vi ricorderete, lui tenta di risolvere il problema soggetto-predicato: A è B, uno è il soggetto e l’altro è il predicato, quindi, uno non è l’altro – con un sistema: (A=B) = (B=A), come dire che vuole porre un’identità assoluta tra questi elementi, in modo da evitare il problema che lui si era posto. Ma il problema non è che si elimina in quella maniera perché quando dico che (A=B) = (B=A), anche se le metto tra parentesi una rimane una cosa e l’altra rimane l’altra. Non credo, quindi, che si risolva così, lui la risolve con un atto di volontà: decido che è così. Anche riguardo la contraddizione, non è che si tolga. Difatti, lui si accorge di questo alla fine quando trova la contraddizione C, di cui parlerà poi in modo più dettagliato. La contraddizione C, cioè che la contraddizione si toglie quando qualunque determinazione entra nel tutto, ma come fa entrare nel tutto? Sì, all’infinito potrà entrare nel tutto ma nell’immediato no, e anche nell’infinito non lo sappiamo. È come se, in effetti, cercasse di togliere il problema del linguaggio, perché questo problema che lui rileva, e che abbiamo rilevato anche noi da tanto tempo, è un problema connesso con il funzionamento del linguaggio. Il fatto è che occorre distinguere fra la contraddizione e quella cosa che noi chiamiamo contraddizione. Non sono la stessa cosa, non è che la contraddizione sia un fatto naturale, voluto da un dio beffardo; la contraddizione è qualcosa che noi chiamiamo così in seguito al rilevamento di un modo di funzionare del linguaggio. Non è né bene né male, non è niente, è semplicemente un modo in cui il linguaggio funziona. Non può togliersi perché non posso dire immediatamente che cos’è la cosa. Anche quando parlerà, dopo l’Introduzione, dell’immediatezza, dell’immediato… l’immediato sarebbe ciò che non è mediato dal linguaggio; sarebbe la semplice presenza o, come diceva Husserl, cogliere le cose in carne e ossa, così come sono. Sì, ma se le colgo, già solo il fatto di coglierle - questo Heidegger lo ha mostrato molto bene - comporta che siano all’interno di un progetto, cioè che siano all’interno del linguaggio. Altrimenti, con che cosa colgo. È come se Severino stesse cercando, senza riuscirci peraltro, di arrivare all’essenza della cosa immediatamente, in modo non mediato, cioè senza linguaggio. Solo che il linguaggio ovviamente se lo ritrova dappertutto, anche solo nell’intenzione di trovare questo. Questo non toglie nulla all’interesse che ha il lavoro che ha fatto e che continua a fare. A pag. 34. L’immediatezza della struttura del dire. Qui parla dell’immediatezza logica. L’immediatezza logica è l’immediatezza dell’identità-non contraddittoria dell’ente in quanto ente… Questa è l’immediatezza logica: una cosa è necessariamente quello che è e non può essere un’altra cosa: La contraddittorietà dell’ente in quanto ente, cioè in quanto qualcosa. Come dire che se qualcosa è qualcosa non può essere nulla. Questa è l’immediatezza logica, cioè, sarebbe il principio di non contraddizione. L’immediatezza fenomenologica è l’immediatezza dell’apparire dell’ente che appare… L’ente appare così come appare. Quindi, abbiamo due immediatezze: l’una, quella che riguarda il principio di non contraddizione, ciò che mi appare non può non essere ciò che mi appare, qualcosa non può non essere qualcosa, o è qualcosa o non lo è; l’altra, l’immediatezza fenomenologica, dice che è l’immediatezza con cui l’ente mi appare, l’immediatezza per cui mi appare così. Ora, come dicevo prima, andrei più cauto a parlare di immediatezza perché, generalmente, l’immediatezza è qualcosa che non è mediato, ma se non è mediato è molto difficile che mi appaia qualcosa, ancora più difficile che io me ne accorga, ancora più difficile che io lo sappia. L’identità-non contraddittorietà di un certo ente, quindi, è necessaria non perché questo ente è questo ente, ma perché questo ente, come ogni altro ente, è ente. Questa è la non contraddittorietà: questo ente è un ente, cioè qualcosa che c’è. A pag. 42. Sta distinguendo tra il concreto e l’astratto. Che cos’è il concreto per Severino? Nel suo significato essenziale, il “concreto” è la strutturazione stessa dell’originario, ossia quell’unificazione dei tratti dell’originario, per la quale la negazione dell’originario è autonegazione. Per Severino, il “concreto” è il darsi necessario della non contraddittorietà dell’ente. La concretezza per lui è che l’ente non è autocontraddittorio. E l’“astratto” è il tratto o l’elemento particolare della struttura (ad esempio una predicazione particolare o un contenuto non predicativo, come questa lampada). La Necessità è appunto la struttura originaria, come struttura del contenuto la cui negazione è autonegazione originaria. All’interno dell’isolamento della terra e del nichilismo, la “necessità” è invece (nella varietà delle sue forme storiche) quella forma della volontà di potenza che vuole dominare il divenire (l’uscire e il ritornare nel niente) dell’ente, e che è destinata ad essere travolta dalla fede nella novità imprevedibile del divenire. Quindi, abbiamo il “concreto”, che è la semplice non contraddittorietà dell’ente, e l’“astratto” che è una determinazione di questo concreto, come questa lampada, per esempio. Questa lampada è questa lampada, c’è un pensiero concreto che mi impedisce di dire che questa cosa non questa cosa. L’“astratto” mi consente di cogliere questa lampada particolare, determinata; è poi ciò con cui ciascuno ha a che fare, non ha a che fare con il principio di non contraddizione in quanto tale, questo c’è sempre ovviamente ma uno ha a che fare con le cose non con il principio di non contraddizione. È come quando Aristotele parlava della materia: io non posso vedere la materia in quanto tale, io ho a che fare con la materia signata, in quanto formata, in quanto forma di qualcosa, ma la materia non la vedo. Così il concreto, il principio di non contraddizione, che impera su tutto, non lo vedo, ho soltanto delle determinazioni particolari, cioè l’astratto. È interessante che Severino ponga il concreto come il principio di non contraddizione, questa è la concretezza, cioè ciò che in nessun modo può togliersi. L’astratto, invece, è la determinazione particolare, che per lui è un’astrattezza, una determinazione particolare del principio di non contraddizione. A pag. 55. Fa un accenno al metodo dialettico hegeliano. …il metodo dialettico hegeliano è, insieme, una teoria del significato e una teoria del divenire: teoria del significato come divenire. Per Hegel la questione del divenire è importante: tesi, antitesi e sintesi. È un divenire: la tesi è ciò che si pone, l’antitesi è ciò che si oppone a ciò che si pone, cioè, la sua negazione; la sintesi è l’Aufhebung, cioè, il sollevarsi di tutto questo a un terzo elemento che accoglie entrambi, che è la sintesi dei due, quindi, non toglie la contradizione ma la acquisisce come elemento essenziale per giungere alla sintesi. Come teoria del significato consiste sostanzialmente nel principio che il significato (cioè la determinazione, l’astratto), isolato, è il significante come altro da sé, e che questa contraddizione è tolta togliendo il significato dall’isolamento dal suo altro. Cosa vuol dire questo? Dice che per Hegel il significato è significante come altro da sé, perché se io prendo la tesi e l’antitesi, è chiaro che il significato per la tesi è quello che è insieme con l‘antitesi; quindi, il significato di tutto ciò è che una cosa è altro da sé, perché è il suo contrario, la sua negazione. Dice che questa contraddizione è tolta togliendo il significato dall’isolamento dal suo altro, come dire che questa contraddizione io la tolgo perché isolo un elemento dall’altro, cioè la tesi e l’antitesi, e quindi, non mettendoli insieme, secondo Severino, in Hegel si toglierebbe la contraddizione, perché non sono più l’uno la negazione dell’altro ma la sintesi li pone come un tutt’uno. A pag. 61. Un modo della specificità della contraddizione è già presente quando sono espressi i valori determinati delle variabili – quando, ad esempio, A è questa lampada posta sul tavolo. Isolata dal concreto… Dal principio di non contraddizione. … (=concepita astrattamente)… Concepita come lampada. …questa lampada non è questa lampada, ossia è un non-A, e il concetto astratto dell’isolamento (cioè del concetto astratto) identifica A (ossia il tratto del concreto, concretamente concepito) a questo non-A. Sta dicendo che se io individuo questa lampada isolata dal concreto, isolata cioè dalla considerazione che è un qualche cosa e che se è un qualche cosa allora non è nulla (principio di non contraddizione) allora succede che questa lampada può diventare qualche altra cosa, può diventare cioè questa lampada che non è questa lampada, questa lampada che è sul tavolo. Se io isolo questa lampada dal fatto di essere sul tavolo allora questa lampada non è “essere sul tavolo”, sono due cose diverse; quindi, la prima cosa la identifico con l’altra ma non è quell’altra. È la stessa cosa di A=B, sembra più complicata ma è esattamente la stessa cosa. Dice, infatti, che questa lampada non è questa lampada, ossia A è un non-A, perché questa lampada è la lampada che è sul tavolo; se io isolo la lampada dall’esser sul tavolo ho due cose differenti, che io identifico ma, identificandole, dico che una cosa è ciò che non è, perché la lampada non è un “essere sul tavolo” e l’“essere sul tavolo” non è la lampada. Sono tutte cose che servono a iniziare a pensare come Severino. A pag. 66. L’apparire degli enti appartiene alla struttura originaria della Necessità… La struttura originaria della Necessità è il concreto, è il principio di non contraddizione, è il fatto che quella che lui chiama L-immediatezza e F-immediatezza, l’immediatezza logica, cioè il principio di non contraddizione, e l’immediatezza fenomenologica, cioè ciò che mi appare mi appare così come mi appare. L’apparire degli enti appartiene alla struttura originaria della Necessità, a condizione che la totalità degli enti che appaiono (cioè di cui si predica l’apparire) non sia intesa come una “classe”, l’omogeneità dei cui termini sia data dal loro essere enti che non siano a loro volta un apparire dell’ente. È sulla base del concetto di “classe” che, soprattutto nell’empirismo e nel neopositivismo, l’apparire è stato inteso come “esperienza”, che si riferisce da ultimo a “individui”, a “oggetti semplici”, a “fatti atomici” (categoricamente o ipoteticamente assunti come “semplici” e “atomici”), e comunque a oggetti che non sono a loro volta un apparire di oggetti. Qui è l’apparire dell’oggetto che a lui preme porre in evidenza. Ci sta dicendo che l’apparire va preso per quello che è, non deve essere ricondotto a un’altra cosa, perché sennò si perde quella che lui chiama l’immediatezza fenomenologica, cioè l’apparire della cosa così come appare, mentre, trasformandola in classi, in categorie, ecc., questa cosa che mi appare la trasforma in un’altra cosa che quella cosa non è. Siamo sempre nella formuletta “A è B”. A non è B, eppure io sto affermando che A è B. Torniamo indietro per un momento. A pag. 51. Parla della determinazione. La determinazione in sé è “fissa” … Lo dice la parola stessa “determino”: chiudo, taglio. …”ferma”, proprio perché è il cominciamento del movimento… Qualcosa di fisso, di fermo, è ciò da cui può cominciare il movimento. …è possibile “andare oltre”, solo se ciò oltre cui si va riesce innanzitutto a stare, a restar fermo presso di sé. Che è esattamente ciò che dicevamo rispetto alla parola, al dire, al linguaggio: per potere andare avanti con il discorso devo fermare qualche cosa, questo qualche cosa deve essere fisso, deve essere quello che è. Solo a questa condizione io posso muovermi da lì verso un’altra cosa, cioè questa cosa deve essere determinata, quindi, finita. Se fosse infinita mi troverei nella mala parata, perché come faccio a partire da lì se questa cosa non è mai finita, non c’è più movimento. Il movimento è appunto la negazione, l’oltrepassamento di questa fissità iniziale;… Il movimento nega la fissità iniziale, ovviamente. Essa è, proprio per essere negata; ma se essa non esiste affatto, non esiste nemmeno il movimento della negazione di essa. Se non c’è la negazione di questa fissità non c’è neanche il movimento, perché il movimento nega la fissità. Quindi, la negazione della fissità deve esserci; deve esserci la fissità e deve esserci la sua negazione. Ma intanto: proprio perché la fissità del cominciamento esiste per essere negata nel movimento, nel cominciamento come tale non appare la negazione del cominciamento, e questo “momento astratto unilaterale”, “questa limitata astrazione vale per l’intelletto come qualcosa che è e sussiste per sé”. Quindi, perché qualcosa incominci occorre che qualcosa sia fermo. Perché un discorso possa farsi occorre che muova da qualcosa che è fermo, altrimenti non può partire. Sta dicendo questo. A pag. 73. E come l’isolamento di una determinazione dell’originario (dall’originario)… Cioè, come se isolassi la lampada dal concreto, dal principio di non contraddizione. …implica la contraddizione dialettica… Come abbiamo visto, se isolo la lampada dall’essere sul tavolo costruisco immediatamente la contraddizione: la lampada non è lo stare sul tavolo. …così la contraddizione dialettica è implicata dall’isolamento dell’originario dal Tutto. Qui c’è anche un richiamo a Heidegger. Dice: l’originario è unito da un legame necessario al tutto pieno dell’ente. L’originario, cioè il principio di non contraddizione, è legato al fatto che l’ente sia quello che è, quindi, al Tutto dell’ente, perché se l’ente fosse non-Tutto o fosse infinito non avrei nessun modo di coglierne la sua essenza. Dice: E come l’isolamento di una determinazione dell’originario (dall’originario), cioè l’isolamento della lampada dal suo essere sul tavolo; se io considero che la lampada è la lampada che è sul tavolo, allora prendo questo come un ente; se, invece, io isolo questi due termini, allora ho una contraddizione. E dice così la contraddizione dialettica è implicata dall’isolamento dell’originario (del principio di non contraddizione) dal Tutto.  Il Tutto: la totalità degli enti, la totalità assoluta, ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà. L’isolamento dell’originario dal Tutto è lo stesso nascondersi del Tutto all’originario, lo stesso non svelarsi totalmente del Tutto all’originario. L’isolamento dell’originario dal Tutto, cioè l’isolamento del concreto, di qualche cosa che riguarda il principio di non contraddizione, dal Tutto, perché il principio di non contraddizione deve valere per ogni ente, quindi, deve valere nel Tutto. Non può esserci un ente per cui non vale il principio di non contraddizione, perché sarebbe e non sarebbe, quindi, deve valere per il Tutto. Quindi, come dice lui, L’isolamento dell’originario dal Tutto è lo stesso nascondersi del Tutto all’originario, lo stesso non svelarsi totalmente del Tutto all’originario, come dire che il Tutto non si manifesta tutto nell’originario, non si manifesta tutto nel principio di non contraddizione, qualcosa rimane fuori. E questo è un problema perché vuol dire che c’è almeno un elemento che è quello che è ma non è quello che è. La contraddizione (C) dell’originario sta dunque in questo, che poiché l’originario è e significa ciò che esso è, solo nel suo legame col Tutto… Sta dicendo che perché un qualche cosa significhi e sia quello che è, questo può farlo soltanto se è legato al Tutto, nel senso che se io lo isolo dal Tutto allora c’è una parte del Tutto che non risponde più al principio di non contraddizione. Quindi, l’originario, cioè il principio di non contraddizione, significa perché fa parte del Tutto, perché è dappertutto, per dirla in modo semplice. …(questo essere e significare dell’originario viene indicato nel libro col simbolo S), nell’isolamento dell’originario dal Tutto (cioè nel non manifestarsi del Tutto nell’originario) l’originario non è l’originario, S non è S. Dice nell’isolamento dell’originario dal Tutto, c’è qualcosa nell’originario che non risponde al principio di non contraddizione. Ma perché questo? Perché il Tutto non si manifesta tutto insieme. Voi forse vedete tutto ciò che è, tutto ciò che è stato e che sarà fino alla fine dei tempi? Lo vedete qui, adesso? No, e quindi il Tutto non si manifesta, si sottrae questo Tutto all’originario. Ecco che, allora, l’originario non è l’originario, perché l’originario è solo se fa parte del Tutto, ma questo Tutto non si manifesta, non c’è. Ecco allora la contraddizione C: l’originario, per essere originario, deve appartenere al Tutto, ma questo Tutto non si manifesta tutto. E allora, come la mettiamo? Che l’originario non è l’originario. Se dovessimo tirare la cosa fino all’estremo limite, diremmo che il principio di non contraddizione non è il principio di non contraddizione. E l’originario è la struttura la cui negazione è autonegazione, struttura della Necessità. Quale struttura la cui negazione è autonegazione? È la struttura della Necessità, cioè ciò che è necessario, ciò che non può non essere. Se io nego il principio di non contraddizione nego il fatto stesso di negare il principio di non contraddizione, perché per negare il principio di non contraddizione necessito del principio di non contraddizione, cioè è necessario che ciascun elemento della mia proposizione, in cui dico che non esiste il principio di non contraddizione, perché tutte queste parole messe in fila siano quelle che sono e non siano altro da sé, perché se lo fossero non direi più che non esiste il principio di non contraddizione. Quindi, vedete la questione della metafisica, come è posta bene qui, cioè per affermare qualche cosa o per negare qualche cosa occorre che questi elementi della proposizione, che affermano o negano qualche cosa, siano quello che sono. E perché sono quello che sono? Perché il linguaggio possa funzionare. Non lo sono per natura divina, ma semplicemente perché il linguaggio possa funzionare, perché io possa continuare a dire, a parlare. Questo è il “problema” per Severino, è quello che dicevo all’inizio, cioè la differenza tra principio di non contraddizione e quella cosa che noi chiamiamo principio di non contraddizione. Sono due cose totalmente diverse: la prima allude a un principio primo, metafisico; con la seconda proposizione, invece, si allude a una regola del gioco. Siamo a pag. 76. Cap. 8. L’apparire dell’intramontabile. Cos’è che è intramontabile? Lo si può facilmente immaginare, è la struttura della Necessità, è ciò che non tramonta, l’eterno, di cui parla Severino spesso e volentieri. La struttura originaria della Necessità… Qual è la struttura originaria della Necessità? È quella che se negata produce un’autonegazione. La struttura originaria della Necessità è, come tale, struttura di costanti: costante di una determinazione è la determinazione che appartiene necessariamente al significato della determinazione di cui essa è costante. Lo strutturarsi delle costanti è un modo emergente della cooriginarietà della L-immediatezza e della f-immediatezza. È infatti perché una certa determinazione y è costante di una cert’altra determinazione x, che è necessità che l’apparire di x implichi l’apparire di y. Sta soltanto dicendo che ci sono delle costanti che sono necessarie perché all’apparire di una certa cosa ne appaia una certa altra. Il contenuto dell’apparire (la configurazione dello spettacolo he appare) non può essere cioè stabilito da una semplice riflessione fenomenologica, cioè da una fenomenologia isolata da logico, ossia dal senso originario della necessità del nesso (= predicazione). Alla semplice riflessione fenomenologica sfuggono necessariamente i legami necessari che uniscono ci che appare, e che rendono ogni determinazione costante di ogni altra determinazione; le determinazioni che appaiono, appaiono nel loro isolamento e quindi come altro da ciò che esse sono e significano. Sta facendo una critica alla fenomenologia, in particolare quella husserliana, perché dice che alla riflessione fenomenologica sfugge la necessità di questi nessi. Ma qual è la necessità di questi nessi? La lampada è sul tavolo. Ecco la necessità di questi nessi. Il nesso necessario è la lampada che è sul tavolo; quindi, è il nesso che connette la lampada a l’essere sul tavolo. Secondo Severino, ciò che la fenomenologia non intende è che se isolo l’uno dall’altro costruisco una struttura autocontraddittoria. Uno potrebbe dire: e se la costruisco, che succede? Succede che da un elemento che è autocontraddittorio, cioè è se stesso e anche no, io non posso partire, non è quella cosa ferma, fissa, immobile, da cui posso muovere per costruire un discorso. Ecco perché occorre  che non siano autocontraddittori. La più rigorosa delle indagini fenomenologiche, affidata unicamente a se stessa, è completamente incapace di dire ciò che appare. Perché non dice che questa lampada è la lampada che appare. Heidegger lo dice, Husserl no. Questa lampada è questa lampada che è sul tavolo, quindi, la lampada è la lampada sul tavolo, non la lampada. Non posso isolare queste due cose; se le isolo, certo, diventa una contraddizione, ma, soprattutto, non colgo il fenomeno. Il fenomeno non è la lampada, è la lampada che appare sul tavolo. Il linguaggio de La struttura originaria compie un passo essenziale nella testimonianza dello spettacolo che autenticamente (αϑ-εντχς, cioè da sé, a partire da sé, non da altro) appare. Qui c’è una questione importante sulla quale occorre riflettere bene, perché ha, sì, torto ma anche ragione. Dice nella testimonianza dello spettacolo che autenticamente (αϑ-εντχς, cioè da sé, a partire da sé, non da altro) appare, va bene, ma se con questo altro intendiamo il linguaggio allora questa affermazione non sta più in piedi, perché come si manifesta qualcosa da sé e non mediato da altro? In base a che cosa a questo punto si manifesta? Si manifesta una rappresentazione, si manifesta un qualunque accidente che, comunque, si manifesta perché io me ne sto occupando. Quindi, non è proprio così semplice la questione. Nel capitolo X, da un lato si esprime la forma più ampia che compete alla contraddizione dell’originario in quanto esso non è l’apparire della Totalità delle sue costanti (cioè non è l’apparire del Tutto); dall’altro lato viene indicato il campo delle costanti che è necessario che appaiano, delle costanti cioè il cui non apparire non implica semplicemente il contraddirsi dell’originario, ma l’impossibilità che, in generale, qualcosa appaia e che quindi l’originario stesso appaia. Qui corregge un po’ il tiro. Sta dicendo che, sì, ci sono delle costanti… Intanto, sappiamo che queste costanti non possono apparire nel Tutto perché il Tutto non appare, però, dice, ci sono delle costanti che se non apparissero non apparirebbe questa cosa. il campo di queste costanti è il “campo persintattico”, ossia il campo delle costanti che sono “costanti sintattiche” di ogni significato (= di ogni ente). Costanti sintattiche di un certo significato sono le costanti il cui non apparire implica necessariamente il non apparire di questo significato in quanto tale (e non semplicemente il suo apparire in una contraddizione), perché esse sono determinazioni necessarie della “sintassi”, cioè dell’essenza, della forma in quanto tale del significato. La grammatica. Se non appare la grammatica, la struttura del linguaggio, non appare più niente. Togliete la grammatica, quindi, la sintassi, togliete tutto, cosa resta? Ad esempio, il non esser non-x è costante sintattica di x. Cioè, ha dovuto usare espedienti grammaticali per segnare non-x. Questo vuol dire che il non essere non-x è una costante sintattica di x. La costante sintattica è quella che ci dice che cosa si sta dicendo esattamente. L’esser-ente, che è costante sintattica di ogni significato… Se io do un significato a un qualche cosa sto già dicendo che è un qualche cosa. Questa sarebbe la costante persintattica, quella che è necessaria perché io possa dire di qualche cosa che è, ad esempio, un posacenere; occorre che intanto sia un qualche cosa. L’esser-ente, che è costante sintattica di ogni significato, è quindi una costante persintattica. Il fatto di essere un ente interviene in ogni costante sintattica del significato di questo aggeggio. L’apparire in quanto tale – cioè sia come apparire della verità, sia come apparire della non verità, come apparire dei mortali e degli immortali, come apparire finito e come infinito – è dunque, necessariamente, apparire del campo persintattico. È un apparire di un ente. Se io indico l’apparire in quanto tale, questo apparire è qualcosa che riguarda qualunque cosa e, quindi, qualunque determinazione dell’apparire avrà comunque questa costante, e cioè che l’apparire è necessario che ci sia. Se questo mi appare, allora l’apparire è necessario che sia. A pag. 80. Ciò di cui la struttura originaria è il predicato necessario è il Tutto dell’ente. La struttura originaria sappiamo qual è, è quella la cui negazione comporta un’autonegazione. È il Tutto dell’ente che predica la struttura originaria, che dice della struttura originaria. E il Tutto che in verità appare come ciò di cui la struttura originaria è il predicato, è il Tutto che, nascondendosi, appare nella struttura originaria, cioè nello sguardo di essa. Se il Tutto è nello sguardo originario, l’originario è nel Tutto. L’originario è uno degli enti di cui esso stesso è il predicato; non è l’unico. L’originario si predica originariamente di tutto ciò che del Tutto appare, e quindi anche, e in certo senso in modo primario, di tutti gli enti che entrano ed escono dall’apparire (e che in questo loro avvicendarsi costituiscono ciò che gli abitatori dell’Occidente chiamano “storia” e “cicli della natura”, e pertanto sono “varianti” del contenuto che appare – e, appunto, si distinguono dalle “costanti” di tale contenuto. Dice semplicemente che ci sono delle costanti, che lui chiama sintattiche, cioè il fatto che questo sia un ente e il suo apparire sia necessario perché appaia. Poi, dice che ci sono degli enti che sono delle varianti: il fatto che l’apparire di una certa cosa appaia non è una variante, non possiamo farne a meno. In Essenza del nichilismo la totalità delle varianti è chiamata “la terra”. Ciò che della terra appare, appartiene al contenuto che appare all’interno della struttura originaria – cioè le varianti appartengono alla struttura originaria – ma quando si dice che tale struttura è il predicato necessario del Tutto e che quindi nulla può apparire se essa non appare, non la si intende come inclusiva, ma come distinta dalle varianti. Tutte queste distinzioni che fa è costretto a farle per mantenere l’idea della possibilità di potersi affrancare dal linguaggio, quando, per esempio, dice che la struttura è il predicato necessario del Tutto e che, quindi, nulla può apparire se essa non appare, inclusiva, ma distinta dalle varianti. C’è una struttura originaria del Tutto, che è fondamentale perché è la struttura per la cui negazione si autonega, però ci sono delle varianti in cui, evidentemente, qualche cosa non appare come assolutamente necessario, così come è assolutamente necessario che l’apparire di una certa cosa ci sia perché appaia. Tutte le varianti che possono accadere lui le chiama “la terra”, la totalità delle cose ecc., però non necessarie nell’accezione che indicava prima. A pag. 82. Le costanti iposintattiche sono individuazioni di costati sintattiche. Il non-questo-rosso è, come negato, costante sintattica di questo rosso (quindi non è costante persintattica). Il fatto che io dica “questo libro” è una costante sintattica del “non-questo libro”, perché ciò che permane in “questo libro” è il fatto di non essere “non-questo libro”. Questo verde è costante iposintattica di non-questo-rosso, perché non costituisce l’essenza formale di non-questo-rosso, non ne determina sintatticamente la sintassi, ma sottostà ad essa, la determina iposintatticamente, cioè come il contenuto specifico determina la propria forma. Se dico “questo-libro non è non-questo-libro”, questo è necessario che sia, ma se io dico “questo libro non è un tavolo” è, vero, ma questa seconda forma non appartiene così necessariamente, e infatti la chiama iposintattica, che sta sotto la sintassi. A pag. 97. Nella storia dell’Occidente la “necessità” compare sin dall’inizio divisa in sé stessa: come la “necessità” degli immutabili che dominano la ribellione del divenire, e come la “necessità” del divenire che continua a sopravvivere sotto il dominio degli immutabili dell’Occidente e prepara la loro distruzione. C’è questa lotta tra gli immutabili e il divenire. La volontà di potenza sta alla radice di questa divisione della “necessità”… La necessità per il discorso occidentale è duplice: la necessità degli immutabili e la necessità del divenire. Per Severino la necessità è una: la struttura della necessità, come sappiamo, è quella che negandosi si autonega. … la volontà di potenza esige l’esistenza del dominabile e se la procura separando la terra dalla Necessità e cioè le cose dal loro essere, rendendole così disponibili al dominio che le assegna all’essere e al niente: nella storia dell’Occidente la forma originaria della volontà di potenza è la volontà che il divenire esista, cioè che esista la separazione dl loro essere. La volontà di potenza, dice, è la volontà di tenere separate queste due necessità, da una parte gli immutabili e dall’altra il divenire. Perché? Perché mantenendo questa divisione mantiene la contraddizione, cioè mantiene la credenza, quella che lui chiama la follia, che una cosa sia e non sia. Ma soltanto se io posso pensare questo, cioè che una cosa sia e non sia, che venga dal nulla e torni nel nulla, solo a questa condizione è possibile separare la cosa dal suo essere, perché se una cosa è ma anche non è, quando non è io separo questa cosa dal suo essere e, quindi, non è più. E questa sarebbe la condizione per potere controllare le cose, la condizione del nichilismo, e cioè il pensiero che al tempo stesso una cosa possa essere e non essere. Perché la controllo in questo modo? Se la cosa fosse, come dice Severino, eterna, se fosse necessariamente quella che è, come la domino, come la controllo? Se è quella che è non posso fare nulla. Se, invece, può anche non essere, ecco che allora io posso intervenire su questa cosa, posso intervenire perché non è quello che è ma diviene e, quindi, posso intervenire nel suo divenire, posso manipolarla, posso farla diventare pertanto altro da sé, perché per poterla manipolare devo farla diventare altro da sé: se io manipolo un pezzo di vetro e lo faccio diventare un posacenere, non ho più un pezzo di vetro ma un posacenere. Quindi, questa condizione è la condizione della manipolazione dell’ente, è cioè la condizione della tecnica. La tecnica può avvenire soltanto se c’è il nichilismo, cioè soltanto se c’è questa credenza, questa follia, che le cose possano essere e possano non essere. Cosa faccio quando le cose non sono? Metto in atto questa cosa: isolo l’ente dall’essere, perché dico che l’ente non è, tolgo l’essere. Isolato l’ente dall’essere l’ente è nulla. Solo a questa condizione è possibile il divenire, il trasformare una cosa in un’altra. Il divenire, la tecnica: annientare una cosa, farla diventare nulla, a vantaggio di un’altra. Ma la volontà di potenza, evocando il divenire, sprigiona le forze imprevedibili del divenire, dalle quali essa si difende evocando la “necessità” degli immutabili che dominano e anticipano il divenire. È in questo senso essenziale (ed essenzialmente sconosciuto a Nietzsche) che nella storia dell’Occidente la medicina è stata peggiore della malattia – “peggiore”, dal punto di vista della volontà di potenza, giacché la medicina dell’immutabile ha finito col rendere impensabile e impercorribile quello stesso campo di dominio in cui il divenire consiste e che, in quanto imprevedibilità assoluta, determina sì la malattia della minaccia, ma che agli occhi stessi della volontà di potenza che evoca le “necessità” dell’Occidente è anche l’evidenza suprema. Questa idea di tenere separate le due cose, e cioè l’immutabile e il divenire, per Severino è stato un rimedio peggiore della malattia, perché in questo modo io mi trovo di fronte all’imprevedibilità del divenire. Ecco l’imprevedibilità, l’incontrollabilità della tecnica, che dovrebbe essere l’apoteosi del controllo. La tecnica, all’apice della sua controllabilità, si scontra con la totale incontrollabilità, che è insita nel divenire.