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5 marzo 2025

 

Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo

 

Questa sera vediamo di incrementare la nostra conoscenza del linguaggio. Beierwaltes ci propone alcune sue proposizioni. Cita a pagina 120 Schlegel, che è stato un pensatore tedesco, vissuto negli stessi anni di Fichte e di Schelling, conosceva il neoplatonismo naturalmente, era amico di Novalis, di Goethe e, quindi, era avvezzo al pensiero neoplatonico e soprattutto al pensiero dell’idealismo tedesco. Qui è Schlegel che parla. Fra tutti gli Alessandrini è quello (Plotino) che dimostra più genio e si rivela più fecondo. Troviamo in lui molte idee che concordano col nuovo idealismo... Ciò che soprattutto distingue Plotino è la sua dottrina dell’estasi (un’intuizione intellettuale della divinità); caratterizza questo atto della conoscenza soprannaturale in termini rigorosamente filosofici come uno stato di rapimento, non rozzo come una sensazione, ma da intendersi piuttosto, come si esprimerebbe il recente linguaggio filosofico, come un atto dell’uscire-da-sé; egli lo chiama semplificazione dell’anima, annientamento di ogni molteplicità e diversità all’interno della medesima. A questa semplificazione dell’anima si appella Plotino come alla fonte superiore della sua filosofia. Dunque, annientamento di ogni molteplicità e diversità, il rapimento, l’uscire da sé: questa è l’estasi, letteralmente. Possiamo intendere l’estasi anche come la contemplazione dell’assoluto, dell’ineffabile. In Plotino la cosa è abbastanza evidente, perché l’Uno è ciò che letteralmente seduce, cioè, trae a sé tutto quanto, ha preso le mosse dall’Uno e poi torna all’Uno. Questo ritornare all’Uno, che possiamo chiamare seduzione dell’Uno, è esattamente l’estasi, ciò che mi porta, mi trasporta, mi muove verso l’Uno. Ed è mistica perché comporta il mistero, comporta l’ineffabile. Ora, ciò che a noi interessa a questo punto è una domanda: l’estasi mistica, quella che potremmo intendere tranquillamente come la contemplazione dell’ineffabile, ha a che fare soltanto con la mistica medievale o successiva, la mistica di Santa Teresa o di Giovanni della Croce? Oppure, investe il pensiero in ogni sua forma? Pensateci bene. Questo rapimento che avviene, rapimento del pensiero sedotto dall’Uno, non è altro che il pensiero che vuole unificare, sedotto dall’unificare le cose, perché soltanto unificandole le domina, le controlla. E, allora, potremmo dire che l’estasi mistica, intesa in questo modo, è il pensiero che non pensa se stesso? Ancora di più. L’estasi mistica come ciò che comunemente è inteso come il quotidiano, semplicemente: ciò che ciascuno fa continuamente, che organizza, che pensa, che discute. Tutte queste cose hanno una prerogativa, e cioè sono considerate, direi quasi inesorabilmente, fuori del linguaggio. Una volta, tanti anni fa, qualcuno, adesso non ricordo chi, disse una cosa che può apparire buffa, però, potrebbe anche non esserlo: il mercoledì sera ci occupiamo del linguaggio, durante la settimana di tutto il resto. In effetti, senza volere, ma soprattutto senza sapere, ha detto come funziona la cosa, e cioè non ci si accorge, in effetti, che tutto ciò che si fa quotidianamente è posto come qualche cosa che è fuori del linguaggio, cioè che è quello che è. Pensate ad Aristotele, quando parla del pensiero di pensiero. Lui sa bene che praticamente è quasi impossibile per gli umani pensare il pensiero, e, infatti, dice che è una cosa che soltanto Dio, occorre essere Dio per poterlo fare. Sennò si è presi in questa contemplazione del proprio pensiero, e cioè, anziché pensare il pensiero, lo si contempla, si è sedotti dal proprio pensiero che pensando unifica e, quindi, in fondo, dice come stanno le cose. Questo può essere importante perché ci mostra che l’estasi mistica è, sì, certo, un aspetto religioso, ma a questo punto viene da pensare che è il linguaggio. Non è che il linguaggio produce il discorso religioso, ma il linguaggio nel suo farsi, nel suo dirsi, “è” il discorso religioso. Non sarebbe sennò così difficile pensare il pensiero, perché pensare il pensiero significa esattamente questo, che ciò che il mio pensiero unifica, ciò che penso quotidianamente, lo penso come unitario, non lo penso come se fosse anche i molti simultaneamente. Lo penso come uno, potremmo aggiungere necessariamente, ma questo necessariamente ci sottolinea ancora di più che il linguaggio è il discorso religioso: nel suo farsi, nel suo dirsi, nel suo prodotto, si produce in quanto religione, e cioè come contemplazione del proprio pensiero. Perché il mio pensiero posso contemplarlo a condizione di pensarlo determinato, di pensarlo quindi come uno, che è quello che è. Ora, questa condizione cessa nel momento in cui io penso il pensiero, ma a questo punto pensare il pensiero non è nient’altro che questo, cioè, introdurre, reintrodurre o tenere conto, considerare la presenza dei molti nell’uno. Se io faccio questa operazione, allora qualunque cosa io faccia, sì, è sempre quella cosa lì, ma cessa di essere quella cosa che io credo che sia proprio quella; è anche quella, sì, certo, ma non solo, è anche molte altre cose. Delle quali cose non posso tenere conto se considero questa cosa come una, come unitaria. E considerare il pensiero come unitario è esattamente, come dicevo prima, ciò che accade nel quotidiano, in ciò che si fa, che si dice, si pensa, nel modo in cui ci si muove. E questo ci porta non soltanto a porre il linguaggio come religione, ma come qualche cosa che non può essere eliminato, ma il pensiero di pensiero, a questo punto, è qualche cosa che - per questo Aristotele dice che solo Dio si riesce a fare una cosa del genere -  come se il pensiero di pensiero dovesse essere attivo ventiquattro ore su ventiquattro, interrottamente, perché ogni volta che parlo, ogni volta che dico qualcosa, costruisco un discorso religioso. E, allora, il pensiero di pensiero mi pone nella condizione di accorgermi di quello che sto facendo. È, come dicevo, una cosa che occorrerebbe fare ventiquattro ore su ventiquattro, ininterrottamente, perché appena smetto di farlo mi trovo inevitabilmente dentro la religione, cioè, mi trovo a pensare o, meglio, a contemplare l’uno, che a questo punto è il mio pensiero che unifica delle cose e si pone come uno, come assoluto, come se stessi pensando le cose come stanno. E questo rende conto anche della enorme fortuna della religione, da sempre, da molto prima di Plotino, naturalmente, e cioè della fortuna di un pensiero che, potremmo dire così, santifica l’unificazione che il pensiero mette in atto per pensare. Lo fa santo questo uno, che poi diventa Dio, lo fa santo nel senso che è la cosa più importante riuscire a unificare le cose, poterle pensare e, quindi, di conseguenza credere che il mio pensiero descriva le cose come stanno. E, infatti, si è presi qui, dice bene Schlegel, in una sorta di rapimento: ciascuno è rapito dai propri pensieri. Essendo rapito dai propri pensieri, non pensa i propri i pensieri, proprio perché rapito. Cosa comporta ancora il trovarsi nel discorso religioso? Comporta una sospensione del pensiero. Questo Aristotele lo aveva intuito. E, infatti, torno a dire, per lui solo Dio riesce a fare una cosa del genere, gli umani no. Gli umani sono sedotti, sono rapiti da questa idea di unificare le cose, di averle unificate e, quindi, di averle determinate. Non è vero, naturalmente. Dunque, ecco, ciò che a noi interessa: che trovandosi nel discorso religioso l’effetto immediato è la sospensione del pensiero, si cessa di pensare e si è rapiti, come dice giustamente Schlegel, rapiti e sedotti, sedotti dall’uno, non necessariamente quello di Plotino, ma dall’uno in quanto unificazione delle cose, che mi consente di pensare che le cose siano così come io penso che siano.

Intervento: La propaganda….

La propaganda sfrutta questa cosa. Infatti, una delle tecniche della propaganda è fare credere che una certa cosa la credono tutti. Non è vero, magari sono in quattro, però riescono a far credere che tutti pensano così, quindi, se lo pensano tutti sarà vero e, allora, lo penso anch’io. A pag. 120. Sta parlando di un certo Ulrich Wirth, un teista speculativo che pensa nell’orizzonte di Schelling e di Schleiermacher, questi non esiste a dichiarare il “neoscellinghianesimo”, cioè la filosofia di Schelling dopo il “Sistema dell’identità”, come “il neoplatonismo del nostro tempo”… In definitiva, sta dicendo che l’idealismo tedesco è il neoplatonismo del nostro tempo. …il neoplatonismo nella forma della coscienza moderna, vale a dire il neoplatonismo in forma compiuta, scientifica”; una dichiarazione simile a quella di Feuerbach, secondo la quale Hegel è il “Proclo tedesco”. L’affinità di Schelling col neoplatonismo gli sembra evidente soprattutto nel fatto che entrambi cercano di pensare come una cosa sola i contrari: l’ideale e il reale, la trascendenza e l’immanenza. È la dialettica hegeliana. Alla base di questa idea c’è però già l’interpretazione tipicamente idealistica dell’Uno neoplatonico, secondo la quale esso, in quanto è l’Assoluto stesso, è l’identità di principio;… Quella identità di principio a cui Hegel, in fondo, aspira col pensiero assoluto. Da questo punto di vista di una dialettica dell’Assoluto, il neoplatonismo, penetrando in “quel sacro mistero” (la dialettica)… Qui la dialettica è posta come un sacro mistero. …ha raggiunto la “vetta più alta dell’idealismo di cui fosse capace il mondo antico”. Ed è diventato con ciò il prototipo del nuovo e compito idealismo. È interessante che parli della dialettica come di un sacro mistero. Apparentemente in Hegel è posta in termini differenti, apparentemente; però, in effetti, il mistero permane. Dove la troviamo la mistica nella dialettica hegeliana? In un punto ben preciso, che anche Hegel non può chiarire, e cioè come si passa dall’in sé al per sé? E come si passa poi dal per sé all’in sé? Cosa garantisce questo passaggio? Quello stesso problema della logica, anche di quella formale: cosa garantisce nell’implicazione il passaggio da A alla B nella formula “se A allora B”? Sappiamo bene come Aristotele ha risolto il problema, si è accorto che non ha soluzione, si è accorto che soltanto una decisione può consentire di andare oltre, sennò ci si ferma lì. Cosa che è accaduta, per esempio, con i matematici, che hanno risolto il problema del limite non risolvendolo ma semplicemente aggirandolo.

Intervento: Misurando l’infinito.

Cioè, rendendolo finito. Ma chi autorizza a rendere finito l’infinito? A pag. 124. Si tratta ora di verificare i due gruppi di predicati: a) Plotino pensa l’Uno come libero da una forma determinata, perché qualsiasi forma ne limiterebbe l’universalità. Se la determinazione o l’essere determinato appartiene al “finito” o limitato e tutto ciò che è distintamente (ogni ente distinto) si distingue appunto per mezza di quest’essere determinato o essere-forma da altri determinati o altre forme, allora l’Uno stesso, il fondamento determinante di ogni forma, deve essere pensato come senza-determinazione o senza-forma e quindi come in-finito. Qui un altro problema, che conosciamo bene in Plotino, perché Beierwaltes ci sta dicendo che Plotino pone l’Uno come infinito, il quale infinito poi, sappiamo che deborda e produce il finito. Ma come avviene questo fenomeno? Come dall’infinito si passa al finito? Cosa autorizza questo passaggio? Nulla. E, infatti, è il punto cardine di tutto il pensiero plotiniano e che non ha soluzione: lui stesso, alla fine, si chiede come avviene questo passaggio e si risponde con un “non lo so”. A pag. 125. …l’Uno privo di forma non può essere un qualcosa. Esso è piuttosto “prima del qualcosa”. È anche prima dell’eternità. …e cioè e cioè niente nell’ambito dell’ente: essenzialmente diverso (mediante il non-essere) da tutto l’ente e detto perciò anche sopra-essente. Per Schelling è incontestabile il fatto che l’Assoluto o Dio è Uno, l’Uno o l’unità originaria pura e semplice; nient’altro che identità che non lascia emergere in sé nulla di distinto, ovvero “indifferenza assoluta”, da concepire come unità priva di ogni ulteriore determinazione. Però, almeno uno ce l’ha, quella di essere unità. Infatti, lui dice priva di ogni ulteriore determinazione; sì, ma questa ce l’ha, necessariamente. Questo assolutamente Uno ovvero l’Uno in quanto Assoluto è la totalità di un universo ideale. Per totalità si intende qui l’insieme di tutto ciò che è e può essere. Per questo è impensabile che ci siano parti in lui che si limitino o si escludano a vicenda. “Indifferenza assoluta” caratterizza dunque l’Assoluto in quanto Uno, il quale è “tutto in tutto, ciò che è del tutto e sotto ogni riguardo privo di determinazione. Tranne una, come abbiamo visto: quella di essere Uno. Però, sappiamo e dovrebbero averlo saputo anche loro dalla logica di Aristotele, che, se anche un solo elemento contraddice l’universale, la contraddizione schianta tutto il sistema. Oggi, direbbero i logici, lo rende banale, nel senso che ex falso quodlibet, come dicevano gli antichi, dal falso si può dedurre tutto e il suo contrario. Quindi, il fatto che ci sia già una determinazione confuta il fatto che sia Uno-tutto; perché la determinazione, che ha necessariamente per essere Uno, lo rende qualche cosa più di Uno. Ma, allora, l’Uno non è più tutto perché, se fosse tutto, dovrebbe comprendere anche quest’altro. Indifferenza come Assoluto e unità dell’Uno plotiniano si illuminano dunque la vicenda, insistendo entrambi sulla libertà dalla forma, dalla finitezza, e con ciò sulla libertà dalla differenza. L’assoluta indifferenza che Schelling pensa caratterizzi l’Assoluto si distingue tuttavia dall’assenza di relazione immanente all’Uno plotiniano per il fatto che Schelling ammette sì l’esistenza dei contrari nell’Assoluto, ma li può concepire soltanto come superati. Lo avevano già detto i medievali: la contraddizione, certo che c’è, tutti la vedono, è sotto il naso di tutti, ma Dio è al di sopra della contraddizione, perché è lui che la produce, quindi, i contrari ci sono. La potenza di conformazione in una cosa unica che vige nell’Assoluto non lascia emergere i contrari come tali, cioè come finiti o determinati, ma li rende essi stessi in-finiti o “indifferenti”. Anche qui il nostro amico Schelling la dice grossa, perché o sono contrari o sono indeterminati. Le due cose assieme non stanno bene perché, se sono contrari, vuol dire che li ho determinati entrambi per potere stabilire che sono contrari, e quindi non sono indifferenti. Ma tutti questi problemi naturalmente sorgono nel tentativo estremo di giustificare l’uno che ingloba i molti. Il passaggio da giustificare è sempre questo dei molti verso l’uno, che li ingloba. Neanche Hegel ci riesce: in fondo, questo passaggio dall’in sé al per sé e poi dal per sé all’in sé non viene chiarito, c’è e basta. Se l’Assoluto è l’indifferenza (l’unità) dell’identità e della differenza, Schelling non è costretto, come Plotino, a concepire il pensiero dell’Assoluto come un modo del molteplice e con ciò della differenza. Se c’è pensiero c’è differenza. Il fatto che l’Assoluto pensi lo rivela anzi appunto come il “punto centrale” che sintetizza, che non lascia sussistere la differenza, in quanto essa rimanga in sé. Altro problema. Schelling pensa di avere di avere risvolto il problema di Plotino, ma non ha risolto assolutamente niente. Anche lui vuole fare questa operazione di unificazione assoluta, ma vuole farla con il pensiero e dice che questa unificazione del pensiero non lascia sussistere la differenza. Ma il pensiero è differenza, sennò non è pensiero. E, allora, come la mettiamo? A pag. 129. Il pensare-se-stesso dello Spirito è di conseguenza da intendersi come la “sintesi” ad unità dell’alterità o come la compenetrazione della differenza identica a se stessa in direzione di un’identità in sé differente. Continua a essere sballottato fra l’uno e i molti, sempre nel tentativo, perché è questo che crea il problema, di volere ricondurre i molti all’uno. I molti non si riconducono all’uno perché i molti sono l’uno. È questo che non si è inteso mai: non posso ricondurre i molti all’uno, perché i molti sono già l’uno, e viceversa. Ma il problema contrario non si pone perché nessuno vuole porre l’uno come i molti, se non Hegel quando parla del per sé. A pag. 130. Poiché questa molteplicità in sé differente e tuttavia non divisa è una medesima cosa con i suoi costituenti, l’unità è ciò che fonda e mantiene il tutto. Questo è molto hegeliano: l’unità che fonda il tutto e lo mantiene perché ogni cosa viene ricondotta all’in sé. Questo per riprendere ciò che dicevo prima, del pensiero che unifica: ciascuno, quando pensa, si trova ininterrottamente a compiere questa operazione di unificazione. O, come accade, si sospende il pensiero, immaginando che ciò che si pensa definisca la cosa, oppure si mette in atto quella cosa che, secondo Aristotele, appartiene solo Dio, e cioè pensa il pensiero. Pensare il pensiero qui non è altro che lasciare che l’uno sia i molti: questo è il pensiero di pensiero, non è un pensiero che pensi chissà che cosa, ma è lasciare che l’uno sia quello che è, cioè, sia i molti. A pag. 132. Il possibile in quanto non-reale in senso temporale è impensabile nell’Assoluto perché distruggerebbe la sua infinitezza;… Perché l’Uno è l’Assoluto, quindi, è necessario. Ma è impossibile, dice, in quanto non-reale in senso temporale, ecc. Questi personaggi qui conoscevano Aristotele, l’hanno letto, ma l’hanno letto sempre attraverso il neoplatonismo. Perché, se qualcosa è necessario, è a fortiori anche possibile. A meno che non stabiliamo che non è possibile, ma allora giungiamo a dire che ciò che è necessario è impossibile e ci troviamo di fronte a un problema abbastanza consistente. Un problema fondamentale nella filosofia schellinghiana e della metafisica in generale è quello che si esprime nella domanda: “Perché esiste l’essere e non piuttosto il nulla?”. È la domanda che si era posto anche Leibniz: “Perché esiste qualcosa anziché nulla? Impossibile rispondere. Invece, la risposta è facilissima: perché parliamo, ecco perché esistono le cose. Modificata in senso plotiniano, questa domanda potrebbe suonare: “Perché oltre all’Uno non-essente e sopra-essente esistono altri enti, e non piuttosto null’altro di diverso da lui?”. Domanda legittima. Porsi questa domanda equivale a interrogarsi sul passaggio dall’identità o indifferenza alla differenza,… Questo passaggio non si può in nessun modo articolare, dimostrare, non si può produrre una dimostrazione di questo passaggio.  …dall’unità alla molteplicità,… Come si passa dall’Uno ai molti? Non si passa, perché l’Uno è i molti: ἒν πάντα εἰναι (Eraclito). …equivale a interrogarsi sulla possibilità e l’origine della molteplicità. Perché il problema è quello: perché c’è il molteplice, perché ci sono i molti, perché esistono le cose anziché solo l’Uno? Mentre il problema riguarda in Plotino già la processione dello Spirito dall’Uno, esso si propone per Schelling a proposito del rapporto di assoluto o infinito col real-finito (Uno-molti), riguarda cioè primariamente l’effetto o l’attività dell’Assoluto in direzione del mondo che si concentra e si concretizza nel problema della creazione. Il problema della creazione è il problema dell’Uno e dei molti: come si passa dall’Uno ai molti e, soprattutto, chi garantisce questo passaggio? In che modo? Ricordate bene Aristotele: ύμάρχειν. Lo decido e bell’e fatto. Perché due assi a poker battono due re? Perché lo ha deciso il gioco. Schelling rifiuta tassativamente una concezione del passaggio mediatore, del passaggio che pone l’essere, che renda finito l’Assoluto stesso... Un uscire dell’Assoluto da se stesso. Questo è il tentativo, in fondo, anche di Plotino, che esclude che si esca dall’Assoluto, cioè dall’Uno: l’Uno non esce da sé stesso, non può farlo, c’è soltanto la processione. …un traboccare dell’essenza non è pensabile da parte di una vera filosofia. Se è vera filosofia non trabocca. “Se Dio potesse uscire da sé stesso, vorrebbe dire che non è Dio, che non è assoluto. L’assolutezza, ovvero l’infinita autoaffermazione è piuttosto l’eterno ritorno, non come azione, ma come l’eterno essere e sussistere di Dio in se stesso”. Non vi evoca l’eterno ritorno di Nietzsche? Nietzsche non poteva ammettere che ciò che è stato non sia più. Dice che la volontà di potenza, sono proprio le sue parole, digrigna i denti di fronte a una cosa del genere, perché non può dominare più il passato, in quanto non c’è più E, allora, ecco che Nietzsche si inventa l’eterno ritorno dell’identico, eterno ritorno di ciò che continuamente si ripropone. Ciò che è identico è il suo riproporsi continuo, incessante. Che è un modo, in fondo, se ci si pensa, da parte di Nietzsche, di provare a risolvere il problema dell’uno e dei molti. Questi molti vengono inglobati nell’uno, però poi ritornano e si innesca questo processo, che poi è il processo della conoscenza: dai molti all’uno, poi dall’uno ai molti, dai molti all’uno. È questo l’eterno ritorno. Se però all’Assoluto in quanto autarchico non è intrinseca nessuna necessità di uscire da se stesso, come e perché il finito giunge all’esistenza? Per Schelling sembrano in discussione tre possibilità, diversamente plausibili e non completamente armonizzabili l’una con l’altra. A) La prima consiste in ciò che Schelling trova nella tradizione filosofica sotto il nome di “dottrina dell’emanazione”. In fondo, è la processione di Plotino. Per essa Dio è il “fondamento immoto delle cose”. Ciò significa che egli, analogamente alla μονή plotiniana (la permanenza dell’Uno in se stesso), rimane in se stesso indiminuito. Dio crea ma non diminuisce creando. “Ciò che trabocca”, dice la dottrina dell’emanazione nell’interpretazione di Schelling, “trabocca non in grazia di un’attività di ciò da cui trabocca, ma come a causa della propria gravità. Non viene rigettato, ma ti stacca invece da solo. Ciò da cui trabocca non viene per questo diminuito nella sua pienezza relativamente a se stesso, mentre la realtà infinita, essendo infinita, non può essere da nessuna parte diminuita quando trabocca nel mondo”. Un tale sistema di emanazione pare a Schelling il sistema di Plotino. Il problema della emanazione è il problema della creazione. È sempre esattamente lo stesso problema: come si passa dall’Uno ai molti, come accade che dall’Uno si producano i molti. Naturalmente, senza avere mai, neanche lontanamente per la testa che l’uno è già da sempre i molti. È lo stesso problema di Hegel: tiene separati l’in sé e il per sé, ed è per questo che avvia questo processo, che poi per lui è il processo della conoscenza: l’in sé che si riflette nel per sé e poi torna e determina l’in sé. Questo percorso, che chiama Aufhebung, potremmo indicarlo come integrazione: l’in sé che integra il per sé e diventa uno, diventa Spirito assoluto. Questo sempre a partire dalla pre-supposizione che l’in sé sia esattamente quello che è, determinato in quanto in sé, e che ugualmente il per sé sia se stesso, determinato in quanto per sé. Cosa che già pone un problema, perché come posso muovere dall’in sé se l’in sé non è ancora determinato? Sì, il movimento retroattivo, dice lui, va bene, ma questo movimento, non solo non sarebbe necessario, ma non avverrebbe, e non avviene, se l’in sé e il per sé fossero la stessa cosa. Per Hegel non lo sono affatto, tant’è che c’è la necessità di questo processo di Aufhebung, di integrazione. tra i due. Se, invece, fossero stati pensati l’in sé come il per sé e il per sé come l’in sé, perché inscindibili necessariamente, ecco che allora questo passaggio non c’è più, non c’è l’Aufhebung, scompare; il per sé non torna sull’in sé perché non si è mai allontanato, mai, neanche per sbaglio. A pag. 136. Se Dio è tutto, e quindi da lui non può nascere nulla che “già non fosse”, se cioè Dio “emana” soltanto “cose infinite”, a rigore non ha nemmeno senso porre il problema dell’origine dell’essere finito da Dio. Un “derivare”, ossia un passaggio costante dall’infinito al finito, sarebbe in contraddizione con l’identità infinita dell’Assoluto. È sempre lo stesso problema.: cos’è che giustifica il passaggio dei molti all’Uno? L’eterno creare dell’idea di Dio si riferisce solo a lui stesso: per mezzo di questo creare è il tutto, che è Dio stesso, è per mezzo di esso (del creare) il particolare non è, ossia: questo particolare è posto come non-reale in relazione al tutto. Questo particolare, dice, è posto come non-reale in relazione al tutto, cioè, non esiste ancora per il tutto, esisterà quando tutto il concreto sarà compiuto. Se dunque il fondamento e motivo della finitezza consiste nel “non-essere-in-Dio delle cose in quanto particolari”, allora non rimane, sotto questo aspetto, come soluzione del problema del passaggio dall’infinito al finito, che il “salto”. Quel salto, che Aristotele chiama ύμάρχειν, che significa che non è giustificato da niente, salvo che dalla fede. Finitezza o mondo sensibile non devono la loro origine e sussistenza a un comunicarsi dell’Assoluto verso il fuori, ma risultano piuttosto da un distacco completo dall’Assoluto, da una “frattura”, ovvero da una “caduta” da esso. Questi sono i pensieri che hanno fatto per giustificare questo salto. Dice bene Beierwaltes, per loro è un salto. Non c’è modo di giustificare il passaggio dall’uno ai molti, di giustificare quindi, cosa ben più grave, la validità dell’inferenza. A pag. 138. Perché dunque, e in virtù di che cosa è il tempo? Perché l’eternità, in sé è sufficiente a se stessa, non è rimasta essa stessa? Philosophie und Religion (scritto di Schelling) risponde a questa domanda, come risulta chiaro da quanto sopra detto, con la categoria della caduta, non ulteriormente esplicabile. Ecco, non si spiega ulteriormente, c’è la caduta e tanto basta.