5 febbraio 2025
Giovanni Reale Verso una nuova immagine di Platone
Le dottrine non scritte di Platone. Come sapete, Platone ha scritto tantissimo; tuttavia, ha sempre pensato che il libro dovesse essere unicamente un supporto mnemonico, o poco più, ma che le questioni importanti si sarebbero potute affrontare soltanto con il dialogo diretto con l’interessato: il libro, se io formulo una domanda, non risponde, mentre l’interlocutore ha questa possibilità, può farlo. Le dottrine non scritte, in realtà, non sono altro che degli insegnamenti di Platone volti a portare l’interlocutore a dipanare, a risolvere delle aporie attraverso la dottrina delle idee. Quello che hanno notato alcuni, Beierwaltes e altri, è interessante perché mostra che Platone ha sollevato una serie di aporie. Una di queste, per esempio, è quella di Parmenide. Aporie che nel dialogo di Platone non vengono risolte; vengono risolte parzialmente in altri dialoghi, ma sempre con un unico riferimento alle idee, che sono l’unica nostra salvezza. Quando parlo di Parmenide in questo caso mi riferisco sempre e soltanto al Parmenide di Platone, cosa che non va mai dimenticata. Qual è l’aporia? L’uno e i molti. L’uno, che possiamo dire l’Uno-uno, identico a sé, e l’Uno-che-è, perché l’Uno deve essere, ma se è, è già un’altra cosa, perché gli mettiamo vicino l’essere, quindi, non è più soltanto uno, diventa molti. Invece, l’altro uno, l’Uno-uno, non è l’Uno-che-è, quindi non ha l’essere, dunque, non è. Dunque, questo Uno-uno non è. Se lui non è, allora non è neppure l’Uno-che-è, perché non c’è l’uno e, quindi, non può essere niente. E, allora, se non c’è l’uno non ci sono neanche i molti, non c’è il movimento, quindi, non c’è la conoscenza, non c’è assolutamente niente.
Intervento: Problema metafisico della differenza tra l’esistenza e l’essere.
L’esistenza è un’attribuzione dell’essere: l’essere è, quindi esiste.
Intervento: Questo Uno-uno, che esiste sebbene irrelato…
Se esiste vuole dire che è in relazione con qualcosa, con l’essere in questo caso, appunto l’Uno-che-è, ma, se è relato, non è più l’Uno-uno, è l’Uno-due, quantomeno. Ecco l’aporia. Qual è la soluzione di Platone? Molto semplice. C’è un Uno, che non è quello di cui parliamo, né l’Uno-uno né l’Uno-che-è, ma c’è l’idea dell’Uno che sta lassù, che è al di sopra sia dell’Uno-uno sia dell’Uno-due. Siccome sta lassù, abbiamo risolto il problema e bell’e fatto. Poi, di fatto, è la via che ha preso Plotino. Beierwaltes, in questo suo saggio, dice alcune cose che ho annotate. Plotino non interpreta né citazioni né brani più lunghi presi nel loro contesto. Si riferisce alla lettura di Platone da parte di Plotino. Nei confronti del dialogo stesso, di quanto viene da esso citato, si osserva che Plotino procede in modo rigorosamente selettivo. I dialoghi della giovinezza di Platone, proprio a causa della loro struttura aporetica, non attirano il suo interesse. Egli ricerca in Platone non delle aporie ma soluzioni alle proprie aporie, non un metodo ma una dottrina. Quindi, tutti i problemi che solleva Platone, Plotino li ignora totalmente; semplicemente, non li prende neanche in considerazione. Platone si è accorto dell’uno e dei molti, del fatto che sono insieme, però questo creava dei grossi problemi, appunto delle aporie. L’aporia sorge nel momento stesso in cui si cerca di eliminare i molti a vantaggio dell’uno o l’uno a vantaggio dei molti, preferibilmente l’uno togliendo di mezzo i molti. Qui dice La parità di origine dei principi. /…/ così come va pensata secondo Platone, si è dunque trasformata in un essere, un agire gerarchizzato di vari principi. Ecco il passaggio da Platone a Plotino: una gerarchia di principi. Quindi, non più una simultaneità, com’era per esempio per Eraclito, ma una gerarchia: Uno, Intelletto e Anima. L’interesse preminente rivolto da Plotino al tema dell’interiorità appare chiaro già nella tesi che egli fa valere universalmente: tutto è interiore. Tutto è interiore, dice Plotino, tutto è l’Uno, e l’Uno posso soltanto sentirlo dentro. Anche l’intenzione di Plotino di fondare una Platonopolis non basta a modificare questo punto. Essa avrebbe dovuto sicuramente limitarsi ad essere un centro filosofico, certo non un segnale di radicale trasformazione dello Stato, ma soltanto un’oasi di pace, una città fatta per filosofi, fatta per chi voleva vivere una vita in una comunità che rendesse possibile il raggiungimento del fine supremo, ossia l’unione con il divino. È una prima idea di Chiesa, in fondo. Passiamo a questo saggio di Maurizio Migliore sul Parmenide. Parmenide ha costituito una pietra di inciampo. Sia Porfirio che Proclo hanno scritto entrambi testi su Parmenide, perché poneva delle questioni, tra le quali appunto questa dell’uno e dei molti, aporie, insolubilia, dicevano gli antichi. Qui è una citazione dal Parmenide di Platone. Se qualcuno non vorrà ammettere che esistono le idee della realtà, a causa di tutte le difficoltà già dette altre ancora, non vorrà porre un’idea per ogni singola realtà… Per Platone: per ogni cosa c’è un’idea, che sta lassù, mentre la cosa sta quaggiù. …non avrà un punto di riferimento per il suo pensiero, in quanto non ammetterà un’idea di ciascuna delle realtà che esistono, che sia sempre la stessa per ciascuna realtà. Così distruggerà la forza dialettica. Sta dicendo che è necessario che ciascuno pensi che ciascuna idea sia quella che è, immutabile, identica a sé, come unica condizione della conoscenza o, meglio, per garantire la conoscenza.
Intervento: L’idea ha la funzione di unificare…
Certo. L’idea è l’uno, l’idea in fondo è il tutto. Si può pensare l’idea anche come l’intero o come il concreto di Severino: io ho un’idea, quest’idea è un tutto, è un qualche cosa di compiuto. Per questo le idee possono fissarsi, perché vengono prese come un tutto, come un intero, che quindi deve eliminare i molti, deve rimanere identica a sé. La strutturazione logica delle varie argomentazioni è diversificata, ma il ragionamento centrale e ricorrente è che, comunque si ponga la questione, l’Uno diverrebbe due. In qualunque modo lo si prenda, questo Uno diventa sempre due, perché se lo determinassi diventerebbe due. Tutto si basa, quindi, proprio sulla natura assolutamente monistica di questo principio, che lo blocca e ne impedisce qualsiasi articolazione che lo conduce all’auto dissolvimento. Se deve essere identico a sé, bisogna togliergli le determinazioni, quindi, togliere anche l’essere e, dunque, non è. Di conseguenza, questa argomentazione in positivo non apre alcuna prospettiva e non la richiama più. Tuttavia, sul piano storico, esso è risultato centrale ed ha posto numerosi problemi, perché si tratta di una facile rilettura della fisica. L’affermazione Uno-uno, l’Uno in sé, non è, può essere intesa anche nel senso che tale Uno è più e prima dell’essere. Questa è la posizione di Plotino: non è che l’Uno non sia, è, ma sta al di sopra. Tutte le affermazioni sull’Uno fatte nella prima tesi e volte a dimostrare la sua estraneità rispetto a qualsiasi determinazioni allo stesso essere, possono quindi anche aver dato luogo a quella visione metafisica, che trovava la sua massima espressione negli autori neoplatonici. Questo è stato il passo compiuto dai neoplatonici, a partire da Platone. Platone ha visto questa aporia insormontabile e ha mostrato la via d’uscita: l’idea che sta lassù. Poi, però, è stato ripreso dai neoplatonici attraverso questo aggiramento della questione, e cioè l’Uno non è, certo, perché non è determinato, ma non è perché è al di sopra anche dell’essere, quindi, di qualunque determinazione. Questi concetti, ribaditi sotto forme diverse due volte, evidenziano che i concetti di tutto e di parte (dell’uno e dei molti) sono reciproci e relativi. Un processo di divisione all’infinito è possibile in quanto ogni parte di un tutto si rivela una. Infatti, partecipare dell’Uno è necessario sia all’intero sia alla parte… Sia l’intero che la parte partecipano dell’Uno, perché anche la parte è uno. Quello sarà un Uno-tutto, di cui le parti sono parti; l’altra, a sua volta, in quanto parte del tutto, sarà parte una è singolare del tutto: Ma così anche la parte è un tutto che subisce una continua scomposizione. Non si riesce a tenerlo insieme, questo uno si compone, si frammenta, incessantemente. Numerose antinomie, che segnano il Parmenide, non risultano più tali se vengono interpretate a partire da questo intreccio che consente a una parte di svelarsi come un tutto, e viceversa. In questo modo l’uno stesso acquista diversi sensi. Questo è un primo approccio della soluzione dell’uno che ha diversi sensi. L’argomento viene ripreso dal punto di vista temporale: prima si afferma che il tutto appare solo alla fine del processo di composizione delle parti. Una sorta di induzione, in fondo. Sembrerebbe, quindi, che prima siano le parti e poi il tutto. Ma Platone, già in questa trattazione (Parmenide), sottolinea ripetutamente che l’uno deve divenire secondo la propria natura. Non può frammentarsi, deve rimanere uno. Il problema è: come? Questo gli consente di riaffermare il primato del tutto. Infatti, l’Uno è compresente necessariamente in tutte le fasi di formazione di una realtà complessa, perché ogni parte che compone un tutto è una. Il processo non consiste nella somma delle parti, ma nell’unità delle stesse, stabilite dall’uno, che si compie alla fine ma è sempre presente. Inoltre, se le cose sono molteplici le une a un tempo, emerge un problema analogo a quello che avevamo già visto a proposito del rapporto tra idee e cose. Ecco il bel testo. Che, dunque, ne può essere qualcuna, che è parte dell’essere, ma che è nessuna parte? Come, infatti, potrebbe? Ma se è, credo che finché è necessariamente sia sempre una, ed è impossibile che sia nessuna, è necessario. in ogni singola parte dell’essere allora è presenti l’uno, che non manca ad alcuna, né alla più piccola, né alla più grande, né a nessun’altra. Allora, essendo uno, sarà contemporaneamente tutto intero in più luoghi? Dice Socrate: considera questo problema. L’altro dice: io lo considero e vedo che è impossibile. Allora, se non è intero sarà allora diviso in parti. L’uno in nessun modo potrà essere presente contemporaneamente in tutte le parti dell’essere, se non diviso in parti. È sempre il problema dell’uno e dei molti: togliere i molti a vantaggio dell’uno. Ma ciò che si divide in parti necessariamente è tante volte quante sono le sue parti. Cioè, i molti, l’uno è i molti, ἒν πάντα εἰναι, diceva Eraclito. Questa necessaria onnipresenza dell’uno ripropone un problema determinante. L’affermazione che l’essere divide l’uno nello stesso numero massimo possibile di parti che gli compete, che implica forse che l’uno stesso risulti realmente scisso in infiniti Uno diversi? Erano questi i problemi a quel tempo. Il problema posto da Parmenide e da Platone, come comporre l’uno con i molti, è un problema che è ancora presente oggi, perché, nel momento in cui si separano, immediatamente sorgono infinite aporie. La questione è ormai matura per una completa esplicitazione: le parti sono nel tutto, che è unita di molti, che però non sono parti dei molti né di tutti, ma di una certa idea e di un certo uno, che chiamiamo tutto... Qui compare l’idea. …che raggiunge la sua perfezione come unità di tutti. Di questo la parte sarà parte. La motivazione è in termini diversi la stessa di prima: la parte, se fosse parte dei molti, sarebbe parte di ciascuno e quindi sarebbe parte di sé. Altro problema. Tutto il Parmenide di Platone è una continua aporia. Il tutto non è riconducibile all’insieme delle parti, è una totalità presupposta alle parti. Di qui si costituisce il fine e raggiunge la sua perfezione proprio nell’unificarle. Questo passo è importante. Dice: il tutto non è riconducibile all’insieme delle parti, come voleva Aristotele, l’universale si ha per induzione del particolare, ma è una totalità presupposta. Quindi, io presuppongo l’uno. E questa unità presupposta è anche il fine, il τέλος. Questo tutto ha una sua logica, è un’idea. Ecco, questo tutto è un’idea, non è un qualche cosa che, quindi, ha le parti, ecc., no, è un’idea. Pertanto, il rapporto tra parti è tutto non è descrivibile in termini fisicisti, come può avvenire nel messo tra parte e parti; ancora meno lo è rapporto tra idea e cose che ne partecipano. Questo ci consente di liquidare uno dei problemi che erano alla base delle obiezioni di Parmenide a Socrate, a proposito della partecipazione. L’idea che unifica interessa e coinvolge realmente le parti perché, senza questo principio unificante, queste non sarebbero quelle parti. Essa però non può essere nelle parti perché il più, che è solo nel tutto, nell’unificazione, non è nel meno. Qui il problema è agli esordi, però, il tentativo è sempre quello di ricondurre all’uno. È qui che nasce il tentativo di ricondurre i molti all’uno, non esisteva prima, incomincia con Platone. Il Parmenide è il caso più evidente di questo tentativo da parte di Platone di stabilire l’uno come prioritario rispetto ai molti. Poi, dirà che l’uno è il bene e i molti sono il male. Si delinea così un processo verticale che garantisce l’assoluta unità delle idee rispetto al livello in cui sono poste. Ogni termine è se stesso, rigorosamente uno rispetto a una sottostante molteplicità, che a lui si rivolge proprio per avere unità… E qui c’è già Plotino. D’altra parte, fino all’ultimo passaggio questo stesso intero si presenta come una delle parti di un altro intero, che richiede la propria ragion d’essere in una unità superiore. In conclusione, l’unità è unità di molteplice e la molteplicità è una. Ma i due termini sono in relazione verticale. L’idea di cavallo è unità dei cavalli realmente esistenti, così come una metaidea è principio di una unità delle idee. L’idea è quella cosa che unifica. Quindi, c’è prima l’idea, l’idea è prima dei molti. Poi, se viene schematizzato il vero problema del divenire, del movimento, se ciò che diviene passa per il presente nel presente non diviene, ma è quello che sta divenendo, allora, quando e come diviene? In una prima fase, Platone si limita a dire che ciò che diviene ha due contatti, uno con il presente e uno con il futuro, per cui ogni realtà diviene in un tempo intermedio tra i due. Qui sorge la difficoltà. Un momento che non è né presente, né passato, né futuro, delinea qualcosa che non si riesce a definire, stante il fatto che il tempo si compone di presente, passato e futuro e che lo stesso Platone ha rimarcato che nel divenire il presente non può assolutamente essere saltato. Tutto questo implica un approfondimento del tema a partire dalla domanda di fondo: quando si diventa? Se non si diventa nel passato, nel presente e future, allora quando si diventa? Non si diventa, infatti, né quando si è in quiete né quando ci si muove. Ma, poiché in un determinato momento ogni realtà o è in quiete o in movimento, si diviene fuori del tempo, in una sorta di stato straordinario che è l’istante, posto, per così dire, in mezzo tra movimento e immobilità. Ma se l’istante configura uno stato, un modo d’essere, si scopre un altro fatto mirabile: l’uno che è nell’istante risulta fuori del tempo, ma, dato il nesso fra tempo, essere, divenire e tutte le altre metaidee, emerge che l’uno, in quanto è nell’istante, è totalmente al di fuori di tutto questo sistema categoriale. Cioè, non c’è praticamente. Emerge con chiarezza una dimensione dell’uno radicalmente diversa da quella che noi abbiamo esaminata. La conclusione della seconda tesi aveva attribuito all’Uno-che-è tutte le determinazioni che sono riferibili a tutti gli enti. Infatti, questo uno, di cui sono stati analizzati molteplici sensi, costituisce la stessa realtà complessiva. Invece, tale affermazione appare impossibile per quest’uno che in senso proprio non è. Vedete, Platone ha già preparato la strada a Plotino, dicendo che questo Uno-uno non è, non c’è, non può esserci; se c’è possiede l’essere, ma se possiede l’essere non è più l’Uno. Non c’è perché è fuori del tempo e, quindi, totalmente estraneo a tutte le categorie che del tempo sono proprie. Questo è l’unico accenno che in qualche modo delinea quanto Platone pensava sullo stato della dualità originaria. È questo proprio il diretto collegamento con la tematica del divenire secondo due processi contrapposti. In questa chiave appare comprensibile e condivisibile il fatto che Platone ha valorizzato questo passaggio con una ripresa particolare, tanto sottolineata da far pensare a vari commentatori che questo brano costituisca una tesi autonoma. Cosa che comunque pare non sia. Vedete, dunque, una serie di aporie, una dopo l’altra, rispetto all’uno e ai molti, che è poi l’aporia del linguaggio. Il linguaggio è aporetico: per affermare sé deve affermare altro. Ma si chiede ancora. Che cosa può essere questo altro principio, dopo tante affermazioni tese a dimostrare che uno è altro, uno è altri, uno e non-uno si dividono l’ambito del reale, se non l’uno stesso, principio di determinazione, unica fonte di quel limite che riguarda gli altri stessi nel rapporto tra le parti, tra le parti e l’intero e tra l’intero e le parti? Solo l’Uno ci può garantire, solo l’esistenza dell’Uno ci può garantire questa unità. In fondo, l’esistenza dell’Uno è quella cosa che garantisce l’unità dell’idea, che garantisce cioè la possibilità stessa dell’idea; perché l’idea unifica, ma per unificare ci vuole l’idea di Uno. Ecco, quindi, che l’idea di Uno è al di sopra di tutto. Da qui poi parte Plotino, naturalmente. Questa è una citazione dal Parmenide. È evidente che per partecipare all’uno deve essere altro dall’uno; in caso contrario non parteciperebbe all’uno ma sarebbe lo stesso uno. Ora, a eccezione dell’Uno-in-sè è impossibile a qualsiasi realtà essere uno. Come dire che di Uno ce n’è uno. Ma questo uno non può essere quello condannato fin dall’inizio della trattazione nella prima tesi. Platone ci dà un segno di questa diversa semantizzazione per certi versi straordinario nella trattazione sulla diversità della seconda tesi: prima si afferma che l’uno preso per sé esclude da sé la diversità… L’uno deve essere identico a sé per forza, deve escludere la diversità. ...affermazione già fatta per l’Uno-uno, e come tale è molto particolare e quasi sospetta; ma questo secondo uno, che esclude la diversità, è anche il rapporto parte-tutto, è identico a sé e, pertanto non è Uno-uno, che non è né identico né diverso ad alcunché, ma non è nemmeno l’Uno-che-è, il quale per definizione ammette parti e tutto… Perché, se è l’Uno-che-è, c’è l’essere. …allora questo uno è una sorta di uno preso per sé, una natura dell’uno non meglio definita ancora. Il tema della diversità, esclusa per l’uno, è decisivo anche per il rapporto dei principi. Quando si parla dell’Uno e dell’essere si afferma che occorre la diversità per distinguerli. Se io distinguo una cosa da un’altra occorre un concetto di diversità. Invece, poco dopo, quando in modo del tutto esterno all’argomentazione che riguarda l’identità tra uno e altri, si parla del non-uno, la presenza della diversità è del tutto esclusa, fino all’affermazione che uno e non-uno si sottraggono a qualunque differenza reciproca. Questo, però, non comporta affatto l’identità. Se non c’è differenza, posso pensare che Uno e non-Uno siano la stessa cosa, cioè, che l’uno e i molti diventano la stessa cosa. Questo, però, non comporta affatto l’identità tra i due termini, poiché in questo caso il non-uno parteciperebbe dell’uno. Che è un grossissimo problema. L’Uno non ha contatto con se stesso, perché in questo caso sarebbe due… Se si toccano vuole dire che sono due. …nemmeno è possibile rapporto con il non-uno, qui presentato nella forma di altri, assolutamente opposti all’Uno, tanto da escludere il numero. Tutto questo svolgimento consente infine a Platone un’affermazione dell’uno principio abbastanza esplicita, mentre gli altri partecipano dell’uno, ma proprio per questo non sono uno, solo l’Uno è uno. Quindi, c’è un Uno che è soltanto uno. Però, come ci si arriva a questa cosa? Qui cita Parmenide. Diciamo che gli altri dall’uno non sono né uno né partecipano di quello, perché sono altri. Allora, negli altri non c’è numero, poiché in essa non c’è uno. Gli altri allora non sono né uno né due né possono essere designati con un qualche altro numero. Allora, solo l’Uno è uno e non ci sarà il due. Quindi, non c’è contatto perché non c’è il due. Ecco, questa è l’argomentazione di Platone. Questo argomento ci dice che l’uno non è materiale. Infatti, è posto come un’idea, in quanto non può avere contatto né con sé né con il non-uno. La motivazione, che è espressa in modo drammatico, per il contatto con sé - ma, come abbiamo visto, vale anche per il rapporto con il non-Uno - è riferita alla stessa natura dell’uno, una stessa … impedisce quindi all’Uno sia di essere due, sia di avere contatto con se stesso. Principi immateriali. Cosa dice qui Platone? Sottolinea la rilevanza di questa idea generalissima, l’essere è premessa necessaria per qualsiasi attribuzione. Anche la semplice affermazione che l’uno uno implica la partecipazione all’essere, altrimenti l’uno risulta indefinibile, ma questo uno non è l’uno platonico, che opera in una bipolarità originaria, cioè uno-molti, che non partecipa dell’essere, da cui anzi l’essere dipende… Perché è al di sopra. E qui, di nuovo, c’è già tutto Plotino. Possiamo pertanto affermare che il Parmenide ci offre un esempio perfettamente adeguato sul piano della scrittura di quel lavoro orale… Ecco le dottrine non scritte. …che doveva caratterizzare la scuola platonica. Sorge, però, a questo punto un interrogativo di fondo. Se il Parmenide è opera tanto complessa da poter essere considerata incompiuta, per definizione, perché mai fu scritta? Quale intenzione, positiva o negativa, poteva mai spingere il suo autore a compiere uno sforzo così complesso e condurlo a termine con tanta attenzione per i particolari? È una domanda che si pone, evidentemente per l’intera opera scritta di Platone, ma che raggiunge la vetta proprio nel Parmenide, data la natura prototipica di questo dialogo. Se la produzione platonica è rimasta incompresa o è stata fraintesa, il nostro dialogo è davvero il prototipo di questa difficoltà. Il fallimento è qui del tutto evidente, tanto più quanto più cominciamo a comprendere il senso dello scritto platonico. Se l’autore voleva avviare con quest’opera il lettore alla scoperta della necessità della seconda tappa, la seconda navigazione per procedere verso i principi, ha totalmente fallito nel suo tentativo. La drammatica riprova è costituita dal fatto che coloro che soli si sono inerpicati su questo sentiero, i neoplatonici, hanno fatto dire al dialogo proprio il contrario di quello che esplicitamente Platone asserisce: l’uno non può essere il principio, occorre una molteplicità di principi che ha alla base la bipolarità originaria. Questo lo abbiamo detto tante volte: per Platone questa bipolarità, uno-molti, è ineliminabile. Infatti, lui dice che l’uno è il bene e i molti sono il male, ma non toglie questa bipolarità, questa compresenza di uno e molti; si rende conto che rimane e, rimanendo, comporta un’aporia. Perché, invece, i neoplatonici hanno fatto dire a Platone cose che lui non ha detto? Occorre partire da una visione del periodo storico, platonici si situano nella delicatissima fase di passaggio da una tradizione orale a una scritta. La sua esperienza era quella di una meditazione attenta del testo, per lo più, come vediamo in questo stesso dialogo, a proposito di Zenone, ricondotto a un’esposizione orale, ad una lettura ad alta voce che consentiva di non perdere le sfumature del discorso. Questa attitudine, questa attenzione al particolare, che è proprio del linguaggio parlato… Nel linguaggio parlato ci sono le inflessioni, i timbri, il tono, cose che nello scritto scompaiono. …il quale comunica sempre più di quanto non resti nello scritto. Tutta la poetica platonica, spinta ai livelli più alti e con forti significazioni ermeneutiche. Ma questa attitudine non è una destinata a conservarsi. Si entra, nel giro di pochi decenni, in un contesto fortemente centrato sullo scritto, una cultura in cui il libro diventa il vero punto di riferimento e le tecniche di lettura subiscono rapidi stravolgimenti. La stessa suddivisione del sapere nei sottosaperi, tipici della classificazione di stampo aristotelico, rendeva quasi impossibile una rilettura adeguata del testo platonico, che è sempre assolutamente trasversale a questa settorializzazione. Basta pensare alla organizzazione che ebbero i dialoghi platonici e alle indicazioni fuorvianti dei sottotitoli. Mai nessuno potrebbe collegare in questo contesto il Fedone o Dell’anima, morale, con il Parmenide o Delle idee, che è logico. /…/ La molteplicità esiste perché si riferisce all’unità... Qui la questione è fondamentale. …e questa è tale in quanto unifica un molteplice, senza che questo divenga uno in senso proprio e l’uno molteplice. I molti esistono perché esiste l’Uno. Questa è la differenza sostanziale tra Platone e Aristotele. Per Aristotele l’uno c’è in quanto costruito dai molti, l’uno non è altro che ciò che i molti (le categorie) dicono dell’uno, la sostanza. Quindi, questo uno, di fatto, risulta una costruzione, un’invenzione, non esiste prima dei molti, cosa che invece è stata per Platone. Per Platone c’è prima l’Uno, l’idea dell’Uno, ed è questa idea che consente di unificare i molti. Chiaramente, c’è una distanza assoluta, incolmabile tra i due. Il riferimento per Platone è a una struttura piramidale: c’è l’Uno, e da lì poi l’Uno-che-è, quindi i molti, ecc. In Aristotele no, anche se non ne parla, per lui è una struttura orizzontale: l’uno e i molti si compartecipano, non c’è prima uno e poi l’altro. Aristotele lo dice bene quando parla nella Fisica, a proposito di δύναμις, di ἐνέργεια: non c’è prima l’uno e poi l’altro, si coappartengono; quindi, sono in una posizione, per così dire, orizzontale, paritetica. Per Platone no, è una gerarchia. Poi, in Plotino, questa gerarchia è diventata: Uno, Intelletto, Anima. Il tutto non è mai riconducibile a ciò che è inferiore, alle molte parti. Ecco, l’uno non è mai riconducibile alle parti. Per Aristotele, invece, è esattamente così: il tutto, cioè l’uno, l’universale, non è tanto che è riconducibile alle parti, “è” le parti, lo è letteralmente. C’è un plus o un minus ontico che non ha nulla a che vedere con il rapporto fisico delle parti che costituiscono i molti. Questo esclude immediatamente il terzo uomo. Nella processione si è eliminato il problema di Aristotele, il problema del terzo uomo. Ci sono io e c’è Gabriele. Di Gabriele c’è l’idea che io ho di Gabriele, ma tra me e quest’idea che io ho di Gabriele, cosa c’è? C’è un’altra idea, che è l’idea che io ho dell’idea che ho di Gabriele, e così via all’infinito. Sarebbe l’infinito attuale. Nella processione, invece, il problema del terzo uomo scompare, perché non c’è più quel salto che Aristotele aveva aggirato parlando dell’ύμάρχειν, una decisione, un salto logico. Anche nell’implicazione “se A allora B” non c’è nulla che connetta i due, che consente il passaggio dall’uno all’altro, c’è un salto. Qui il salto non c’è più, ed è il terzo uomo. In fondo, il terzo uomo è la teoria dei limiti. Le idee sono strutturalmente unità del molteplice e questo è possibile perché l’unità è a un livello superiore della molteplicità, che pure risulta da quella unificata. Tale procedimento logico consente di risalire fino al fondamento unico di tutto, che non è una struttura semplice ma la bipolarità originaria. Questo in Platone: bipolarità uno-molti. All’origine c’è questa bipolarità; però, grazie all’idea dell’Uno, possiamo avere anche il molteplice, perché è dall’Uno che muove tutto, è dall’Uno che si traggono i molti. In Aristotele no, l’uno è i molti.