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4 giugno 2025

 

Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo

 

Agostino illustra la assolutezza del numero creativo e ordinatore, così come aveva fatto per le nozioni di misura un’espressione numerus sine numero. Pertanto, il Creatore è summus numerus, ma non nel senso di una quantità suprema pensabile, la quale sarebbe ancora, in quanto cattiva infinità, sempre oltrepassabile, Bensì come numero che in sé non si può più numerare, cioè, che non si può più cogliere con un numero, vera infinità. Questa infinità deve essere pensata a prima vista in modo paradossale, come determinata o delimitata, nel senso che si deve accettare che Dio comprende la sua propria infinità. E del resto il comprendere equivale sempre, anche per Dio, al termine finire. Quindi, la vera infinità di Dio per noi è incomprensibile poiché non è determinabile in un concetto, mentre per lui stesso è determinata perché è sempre già compresa. La questione del numero. C’è numero che ci serve per fare di conto, e poi c’è “il numero”. Questo sistema è quello inventato da Porfirio, quando legge le Categorie di Aristotele: c’è una sostanza, che è quella di cui parla Aristotele, che sono le categorie, ma c’è un’altra sostanza, perché la sostanza, che alla fine è Dio, non può essere un prodotto di un calcolo proposizionale, e quindi c’è un’altra sostanza. La stessa cosa viene qui ripetuta da Agostino - ecco qui il neoplatonismo - con il numero: c’è un numero, quello con cui, per esempio, si fanno i conti, ma poi c’è “il numero”, con il quale non possiamo averci a che fare, perché è una pura astrazione, è al di là di ogni comprensione. Inoltre, dice che Dio è l’infinità. Sì, però questa infinità, per essere tale, non è determinata, quindi, come può lui stesso, Dio, pensarsi come infinità? Per pensarsi come infinità deve pensarsi in modo determinato, cioè, deve pensarsi come finitezza. Come la risolve Agostino? Dice così, che per lui stesso, per Dio, l’infinità è determinata, perché è sempre già compresa, e bell’e fatto. L’essere è numero unificato, l’ente è numero esplicato; lo spirito è numero che si muove in se stesso. È modalità di comprendere la tripartizione, cioè, la teologia trinitaria: il primo, l’essere, è il numero unificato, trasformato in Uno, il Padre; poi, c’è il Figlio, che è il numero esplicato, è il numero che si dice; infine, lo Spirito, che è quello che ci muove, quello che dà vita, l’anima, quello che anima le cose, che le fa esistere. Ora, ciò che Agostino ci sta dicendo ci offre il destro per un’altra cosa. Se l’ordine è l’integrazione di ogni ente in sé differente in uno stato di quiete... Ordine e la quiete. …allora la non quiete, ossia il movimento, è ordine in misura minore, in quanto ha ancora un fine da raggiungere, cioè questo acquietamento, che ha ormai percorso tutti i possibili movimenti del pensare, del tendere a qualcosa. Qui, in effetti, ha fatto un riassunto del problema del linguaggio. Qual è il problema del linguaggio? È che il significato non è univoco. Se il significato non è univoco non posso determinare, quindi, non posso unificare, cioè, non posso fare quella cosa, che abbiamo visto in tutte le pagine che precedono, che invece Agostino, e dopo di lui tutti i padri della Chiesa, hanno disperatamente voluto ottenere: l’unificazione, il tornare all’Uno. Da qui l’invenzione, appunto, del ritornare all’Uno, come se si fosse partiti dall’Uno, dando questa idea come implicita. Per Hegel è ancora così. Se torna all’Uno è perché l’Uno gli manca, e allora vuole tornare all’Uno. Perché l’Uno è l’ordine, è la quiete, e ciascuna cosa vuole mantenere la quiete, mentre, in realtà, Eraclito, detto il saggio, diceva πόλεμος, la madre di tutte le cose, cioè, il movimento, per dirla così, i molti. Dunque, la necessità di unificare, di fare Uno, fino alla Trinità, che pone il tre, quindi i molti, ma come? Rimanendo Uno. Ma perché rimane Uno? Perché questi molti sono sempre l’Uno. È già presente in Plotino questa storia: le varie ipostasi procedono dall’Uno, l’Intelletto e l’Anima procedono dall’Uno, quindi, sono consustanziali, hanno la stessa sostanza, non sono altro, cioè, non sono molti, sono sempre Uno. La necessità dell’Uno di unificare: senza questo Uno non è possibile, non è pensabile, neanche la verità epistemica; l’idea che ci sia da qualche parte una verità assoluta non è pensabile. Le realtà disordinate sono inquiete, quando vengono ordinate si acquietano. Questa è l’idea di Agostino. Per l’uomo questo significa che Dio è la quiete che placa l’inquietudine specifica che c’è nell’uomo. Qual è l’inquietudine? Sono i molti, naturalmente sono i molti, è il movimento che dà inquietudine. Ma, retoricamente, una cosa è chiamarla inquietudine, altra è chiamarla movimento. E sappiamo che Agostino era un retore. Cambio le parole e cambia il senso, la direzione che prende il discorso: il senso inteso come direzione. Con questo suo presupposto ontologico, pertanto la ben nota frase non può essere male interpretata in senso psicologico: il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te. Se avesse detto “il nostro cuore è in movimento finché non riposa in te”, sarebbe stato totalmente differente, ma Agostino era un retore e uomo d’onore. Dunque, l’uomo è ordinato a trovare quiete in Dio. Qui dal passaggio dal movimento alla quiete si è passati ancora all’idea che l’uomo, che è inquieto, debba trovare la quiete in Dio. La pace agostiniana indica il corrispondente stato del mondo in senso cosmologico, etico, sociale, religioso, che però è stato informato dalla legislazione, dall’ordine e dalla quiete, posti o consentiti da Dio. La pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. È esattamente il contrario di quello che diceva Eraclito: il πόλεμος è lo scontro di molti che producono tutto. Qui la quiete, naturalmente, è l’Uno; quando si parla di Dio si parla dell’Uno. Questo per giustificare la necessità di eliminare i molti; finché ci sono i molti c’è l’inquietudine, il disagio, lo stare male, la nevrosi. Quindi, se togliamo i molti, che poi è quello che l’uomo desidera in cuor suo, la quiete, la pace in Dio, a costo di ammazzare tutti quelli che non sono d’accordo. Esso (l’Uno) non ha bisogno di altro da sé... Infatti, parla di autarchia. …l’altro dall’Uno è articolato e mosso in funzione dell’Uno. Non è che si muove da sé, come nel caso del πόλεμος, per cui le cose si muovono, creano altre cose, in quanto sono i molti in relazione tra loro; qui no, l’altro è mosso ed è in funzione dell’Uno. …in quanto suo fine e causa. Per potere affermare questo, l’Uno è fine e causa, deve avere fatto il discorso precedente, e cioè che l’inquietudine vuole la quiete, vuole la pace; quindi, l’inquietudine, i molti, devono unificarsi, devono trovare la loro pace nell’Uno. È questo che giustifica la frase successiva, che dice appunto che l’Uno è il fine e causa di ogni ente. Il movimento dell’umano trascendersi con la dialettica e l’ascesi trova proprio in lui la sua quiete. L’autosufficienza dell’Uno è ciò che ha in sé maggior valore. Quindi, su di Lui, in quanto misura universale, anche per ogni ipostasi che viene dopo di lui si fonda l’esigenza che sia sufficiente per essa rimanere in sé medesima, riposare in sé medesima e non disperdersi nel molteplice, occupata dai molti, giacché, rimanendo sempre in sé medesima, è anche concentrata sulla sua origine. Con rimanendo in sé medesima chiaramente allude al fatto di avere già eliminato i molti: solo a questa condizione può rimanere in sé medesima, cioè identica a sé. Ogni estraniamento da sé comporta infatti una qualche distruzione di sé. E qui c’è Severino, e cioè il cambiamento, l’alterazione, la modificazione comporta sempre, diceva Severino, una distruzione, uno sbranamento diceva lui: se qualcosa cambia vuole dire che questa cosa è stata dilaniata, non è più la stessa, è stata distrutta in quanto tale. È esattamente quello che dice Agostino. Quindi, il divenire comporta la distruzione di ciò che diviene, perché non è più lo stesso. Qui naturalmente si potrebbe domandare quando mai è stato lo stesso, a quali condizioni, come lo sappiamo? Ma tutto questo in Severino non c’è. Agostino tenta quindi di comprendere in modo più profondo la bellezza. Dopo avere parlato della necessità dell’unificazione, ci dice anche che l’unificazione è il bello, oltre a essere il bene è anche il bello. Chi sosteneva che il bello è il vero era la Scuola di Chartres. La bellezza in quanto implicazione strutturale ovvero in quanto essenza della forma, e di distinguerla dalle altre categorie attraverso le nozioni di similitudo, convenientia, congruentia, corrispondentia, armonia, qualitas e numerus. Somiglianza, convenienza, corrispondenza, armonia, uguaglianza, risultano essere nozioni che indicano la realtà e stato di cose che deve essere raggiunto o che è già pronto, a partire dalla condizione della molteplicità. Quindi queste belle cose devono essere raggiunte dalla molteplicità; quindi, dalla molteplicità occorre unificare. Ciò è caratterizzato essenzialmente dalla differenza o dissomiglianza del singolo rispetto agli altri e rispetto alla sua origine, nonostante il rapporto che nondimeno sussiste e nonostante la somiglianza. Regio dissimilitudinis, il luogo della dissomiglianza, e non agostiniano-platonico per un aspetto, ma la tesi Omnia in Unum tendunt (tutte le cose tendono all’Uno) vale per gli altri. In generale, questo è prevalente nella misura del possibile rispetto alla molteplicità svariata, come anche rispetto alla tendenza al nulla, ontologica ed etica. Se uguaglianza, corrispondenza, convenienza, somiglianza, indicano il carattere ontologico del singolo… Cioè, appartengono al singolo, al particolare. …allora essi, per quanto singolo, accentuano la relazione delle parti o elementi costitutivi con una unità. Perché, in primo luogo, la corrispondenza o la convenienza delle parti rispetto ad un tutto unitario costituisce una forma che ora può essere pensata ed espressa come bella, sulla base della sua interna relazionalità e unità. Quindi, già pone una questione importante: il bello è l’Uno. È l’unificazione che consente il bello. Questa relazionalità interna è già il presupposto per la bellezza esterna, percepibile con i sensi; armonia delle parti con una certa dolcezza del colore, convenienza razionale delle parti; la proporzionalità coglibile matematicamente, per esempio, è la ragione per la quale le figure geometriche appaiono belle. Vedete, la sua abilità retorica sta anche in questo, cioè, questa relazionalità interna alla cosa, a una qualunque cosa, dice, è già il presupposto per la bellezza esterna. Cioè, questa relazione che lui ha all’interno, una relazione che punta all’Uno è la condizione per la bellezza esterna, quella che si vede; e in questo, dice, questa relazione accentua la bellezza dell’unità. E, infatti, dice alla fine che questa relazionalità interna è già il presupposto per la bellezza esterna; questa relazionalità interna, cioè, il tendere di tutte le varie parti all’Uno. Alla radice di questa relazione fondamentale di ciò che appare bello sta la simmetria. In quanto categoria estetica, che non deve essere intesa come mera disposizione esterna delle parti, bensì deve essere ricondotta ad un principio formale interno, vale a dire intelligibile, ideale, quale è quello che viene fondato dall’unità dinamica di un intero. Insomma, in questa simmetria, come condizione del bello, abbiamo di fatto già questa sorta di ideale che, come dice lui, viene fondato dall’unità dinamica di un intero. Quindi, unità dinamica di un intero; cioè, un intero che è fatto, sì, di parti, però queste parti tendono all’Uno. Questa è la condicio sine qua non, perché, se non tendessero all’Uno, allora sarebbe un problema perché questa bellezza non sarebbe più possibile, perché lui parte dall’idea che la bellezza muova dall’Uno, perché tutte le cose tendono all’Uno, vogliono ricondursi all’Uno. Pertanto, il simmetrico può sì essere indicato come bello, ma piuttosto il bello deve anzitutto venire prima di esso. E qui c’è Platone: l’idea di bello precede il mio giudizio sul bello. Ma questo vuol dire che la simmetria è bella in virtù della bellezza e non che la bellezza è bella in virtù della simmetria. Ciò che sopravviene, o che fonda la simmetria come bella, è la forma vivificante interna e quindi intelligibile, che unifica di volta in volta il molteplice, in quanto luce incorporea che illumina e costituisce grazie sua intelligibilità, λόγος kai εἶδος (parola e forma). Le nozioni di uguaglianza, corrispondenza, convenienza, somiglianza, con cui Agostino determina il bello, sono storicamente realmente comprensibili a partire da una discussione che riporti alle riflessioni genuinamente platoniche. Platone discute in Filebo la domanda su come, a partire dal principio o elementi diversi, possa determinarsi una unità. Come bella si deve però intendere una mescolanza o unità in cui ogni parte sia compatibile con il resto. Da qui tutta la questione, che credo in buona parte riprenda da Proclo, quella della somiglianza, della similitudine e dell’uguaglianza in alcuni casi. Questa compatibilità è la misura dell’unità, il suo metron o simmetron. Senza misura danneggia sé medesima. L’essere bello, vitale mescolanza, si fonda quindi sul bene. L’essere buono, così come l’essere bello di ogni mescolanza, è dunque costituito tramite la misura o la misurabilità, la convenienza e la corrispondenza. La natura del bene (sta citando Platone nel Filebo) ci è ora sfuggita nella natura del bello; la misura e la simmetria, infatti, sono bellezza e virtù. Questa fuga o questo convertirsi del bene nel bello, una formulazione dell’identità, viene sviluppata ancora una volta; e, quindi, non possiamo afferrare il bene con una sola forma (idea) per coglierlo con tre, ossia con tre forme, con bellezza, simmetria e verità, così vogliamo dire che questi sono la causa per la quale la mescolanza può essere detta buona. Qui naturalmente Agostino gioca anche sulla connessione stretta, già posta da Platone, tra il bello e il buono. Tutte queste cose, anche il bene naturalmente, corrispondono all’unificazione all’Uno, per Platone all’idea, per Agostino alla unificazione dei molti in Dio. Dalla prima proposizione risulta chiara che la bellezza indica tanto lo sguardo esterno quanto la situazione interna, άρετή (la virtù). Ciò implica ciò che riguarda la vita e lo spirito o anima. Ma la simmetria significa la totale armonia, ovvero, l’interna e quindi anche esterna armonia di una determinata forma in se stessa tramite la misura. E la misura ovviamente misura, quindi unifica. La prima cosa che si presenta come il constituens dell’unità in questa elaborazione concettuale è pertanto la misura, μέτρον; la seconda è la corrispondenza delle parti, simmetria; la terza in cui si determina la verità è il νούς, giudicato in base all’essere della cosa, ovvero, la ragione è il realizzarsi della misura nel pensiero. Il pensare è misurato a buon diritto, cioè, a buona ragione. La misura comporta sempre la calcolabilità, quindi la possibilità di ricondurre i molti all’Uno: è il principio base di tutto. Perché solo in questo modo, dice, la bellezza, in quanto determinazione razionale, è identica alla verità. La bellezza è la verità perché è la perfetta simmetria delle parti che si unificano. Per unificarsi devono avere delle somiglianze, per unificarsi devono quindi tutte tendere verso l’Uno naturalmente, anche se non dice in che modo queste parti si unificano. Tendono all’Uno, tendono al bene. I concetti utilizzati da Agostino per la definizione del bello e della bellezza, cioè somiglianza, convenienza, corrispondenza, armonia, uguaglianza, si riferiscono analogamente alle riflessioni di Platone, in quanto concetti assolutamente relativi alla nozione di unità o di Uno. Ciò anzitutto in un senso relativo, come unità o unificazione del singolo, ma anche in senso assoluto. Il singolo uno, infatti, viene determinato dall’unità assoluta e collegato ad essa. C’è qui l’idea di Platone, perché questa unificazione non potrebbe farsi se non ci fosse l’idea dell’Uno. È l’idea dell’Uno che consente di pensare l’Uno in quanto numero e, quindi, tutto il resto. Bellezza è diventare forma o compressione di unità, ovvero, l’unità è la misura della bellezza. Da qui risulta comprensibile perché l’origine divina viene pensata come la stessa bellezza e insieme come la forma assoluta. La forma bella è quella che unifica varie cose, in relazione fra loro, la relazione di somiglianza e tutte quelle cose che elenca qui e che si raggruppano e fanno Uno. Mentre æqualitas, nell’ambito della finitezza temporale, si manifesta sempre e solo adombrata, vale a dire, insieme alla disuguaglianza, e similitudo si deve affermare sempre in contrapposizione alla dissomiglianza. Dio è invece la pura uguaglianza, ovvero la pura somiglianza con sé medesimo, che esclude ogni dissomiglianza. Esclude ogni mutevolezza, esclude ogni divenire, esclude, cioè, per dirla alla Severino, di essere smembrato dal divenire. Dio, in quanto pieno rapporto trinitario, pensante e amante di questa uguaglianza, è una unità che si esplica nella similitudo e si ricomprende nell’unità, nella forma o bellezza dell’unità. Dio, dice, in questo rapporto della Trinità, è definito come amante di questa uguaglianza, ed è una unità che si esplica nella similitudo, cioè nella analogia. Sappiamo bene che cosa dice Aristotele: l’analogia è ciò che con cui si crea l’universale, cioè, l’assoluto: l’assoluto è il risultato dell’analogia e l’analogia è la doxa. Questa tri-unità, essendo la forma assoluta e perfettissima, è insieme fondamento e paradigma di ogni unità relativa e del suo essere bella. Qui, forse, Beierwaltes avrebbe dovuto articolare un po’ di più la questione, perché questa tri-unità come forma assoluta e perfettissima, sì, è l’Uno, lo sappiamo, l’Uno che però ha trovato il modo di gestire i molti attraverso la Trinità. Ma come li gestisce? Attraverso la processione: i molti procedono dall’Uno, hanno la stessa sostanza dell’Uno, non sono altro, sennò sarebbe un’irruzione del molteplice nella Trinità. Invece, in questo modo questa tri-unità può essere definita forma assoluta e perfettissima perché è come se contenesse in sé l’Uno e i molti, ma perfettamente integrati. Dopo tutto, era l’obiettivo di Hegel. L’agire creative e conservativo dell’unità si concretizza nel numero. L’affermazione “l’unità è la misura della bellezza” può essere precisata con l’affermazione “il numero determina la bellezza”. Perché la bellezza riguarda la forma, questa forma riguarda la relazione e la relazione riguarda il numero. Per una comprensione adeguata di questo pensiero è assolutamente basilare non intendere il numero solo come un elemento di unità logico-formale, nel senso dell’aritmetica moderna, o come un’indicazione astratta ed esterna di una realtà. Il numero è comprensibile a partire dall’unità del pensiero matematico e metafisico, e non a partire dalla sua divergenza, di una divergenza, come viene reclamata al giorno d’oggi dall’estetica matematica di Max Bense. Le categorie estetiche come bello, piacere estetico, vengono ridotte a codificazioni e l’arte, di conseguenza, per mezzo di una postulata e chiara desoggettivizzazione, è portata al livello di una raffigurazione formalistica e tecnologica... Quindi, il numero lo si può comprendere soltanto a partire dall’idea di numero, cioè, dall’Uno. La numerazione, il calcolo, è possibile solo a partire dall’idea di Uno di Plotino. Il prossimo capitolo si intitola così: Il numero come costitutivo della forma. Nell’orizzonte di pensiero neoplatonico e neopitagorico, di cui si avvale Agostino, il numero, contrariamente alla posizione formalistica delineata, quella odierna, si deve pensare come fondamento ontologico a priori, determinante qualitativamente e, quindi, costituente forma. Il numero è, nell’ambito del sensibile e dell’intelligibile, il fondamento intelligibile e in virtù del quale ogni realtà risulta conoscibile e distinguibile l’una dall’altra. È chiaro che anche Agostino non può fare finta che non ci sia il numero. Come abbiamo visto, anche nel caso del numero lui risolve il problema per evitare tutte le aporie dei sofisti: pone da una parte il numero come contabile e dall’altra, il numero come assoluto, e quello non può essere toccato, è ineffabile ed è la condizione dell’altro numero. Qui cita Agostino, dal De libero arbitrio. Se, quindi, guarderai qualcosa di mutevole o con i sensi del corpo o con una riflessione della mente, potrai cogliere solo ciò che ha racchiuso in una forma numerica, tolta la quale esso precipita nel nulla. La relativa unità dei numeri e la sua relativa differenza… C’è unità e differenza. …cioè, la sua identità e differenza strutturata ontologicamente costituiscono l’identità e differenza qualitativa dell’essere stesso. Il numero è uno ed è molti perché il numero è quello, il 5 è il 5, non è un altro numero, ma è al tempo stesso molti numeri, almeno cinque. Il problema è che se l’essere è possibile e conoscibile solamente come forma e la forma è determinata dall’azione immanente dei numeri e non niente, e inoltre l’essere formato degli enti caratterizzato dalla somiglianza, convenienza, corrispondenza, armonia e uguaglianza, deve essere pensato come sua bellezza, allora, in fin dei conti, l’unità costitutiva per i numeri è il presupposto ontologico della bellezza. I numeri sono il presupposto ontologico della bellezza, perché la bellezza sorge appunto della somiglianza, dalla convenienza, tutte cose misurabili, che sono tali in quanto misurabili: più somigliante, meno somigliante, ecc., insomma, dal più e dal meno. Questi numeri in mente divina sono identici alle idee in quanto forme atemporali, preesistenti rispetto alla realtà creata. Se il numero determina la bellezza, allora l’origine divina si può anche determinare come bellezza assoluta a partire dalla nozione di numero. La nozione di numero che sta lassù. Il numero che sta lassù ordina la bellezza che sta lassù. Alla base sta il numero, in quanto principio e forma che piace in ciò che appare bello e le cose belle piacciono in virtù del numero. Numero che è determinato appunto dall’armonia, corrispondenza, uguaglianza ecc. Non c’è nulla di queste cose sensibili che non ci piaccia per l’uguaglianza o per la somiglianza; infatti, dove c’è uguaglianza o somiglianza c’è una struttura numerica. Quindi, qualcosa ci piace perché tende all’Uno, perché ci mostra l’Uno: questa è la sua funzione, potremmo dire anagogica, cioè, che ci innalza verso l’Uno. L’anima deve ricomprendersi sulla sua struttura numerica razionale. L’anima, in verità, distaccandosi da ciò che percepisce con il corpo, diventa migliore quando si distoglie dai sensi carnali e si riforma come con i numeri divini della sapienza. Questo ritorno alla struttura numerica interna ha un significato centrale per il compimento etico e, quindi, anche religioso dell’esistenza umana, tutta la nostra vita si converte al piacere nei numeri della ragione restituita a Dio, non hanno corpo i numeri della salvezza e non prendendo da esso il godimento, questo accadrà quando sarà distrutto l’uomo esteriore e sarà trasformato in meglio. Quindi, tutta la questione del numero in Agostino serve a fondamento di quelle caratteristiche che sono quelle che poi tendono all’unificazione, cioè, al numero assoluto, perché tutte queste cose, che sono i molti tendono all’Uno. Il fatto che tendano all’Uno significa anche che tendono al bene. Da qui la connessione tra il bene e il bello: ciò che è bello è ciò che è unificato perché nella sua relazione interna le varie parti comportano questo tendere verso l’Uno. Quindi, queste relazioni che si pongono in essere diventano Uno ed ecco che allora appare bello. Se solo ciò che è ordinato e bello, se noi amiamo solo il bello, e questo determina in noi godimento a piacere, allora in esso noi amiamo la misura, la forma e l’ordine, ovvero il numero come il principio che determina la misura, forma e ordine. Tutte queste operazioni, che sta facendo Agostino, hanno anche una funzione non solo filosofica, etica, ma anche politica. L’ordine viene da Dio, l’ordine è tendere verso l’Uno: è Dio che vuole l’ordine, perché solo con l’ordine c’è il bello e c’è il buono, quindi, le cose devono essere ordinate, e per essere ordinate devono essere una Trinità, Padre, Figlio e Spirito. C’è un ordine in questa tripartizione, non sono messi a caso Padre, Figlio e Spirito, non sono intercambiabili; c’è un ordine: c’è il Padre da cui si parte, l’Uno, che è quello che consente l’ordine, perché dal Padre procede il Figlio e dal Padre e dal Figlio procede lo Spirito. Questa processione rappresenta la forma ideale di ordine; per questo prima parlava della Trinità come bellezza, come assoluta bellezza, perché è l’ordine assoluto questa priorità: Padre, Figlio e Spirito. Ma è un ordine. Nel pensiero di Eraclito, quando dice ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose, quale ordine è pensabile? E con Democrito dove mettiamo l’ordine? Impossibile, non c’è nessun ordine, nessuna gerarchia. Non è possibile costruire una gerarchia qualsivoglia, non c’è, cioè, non è possibile dominare, Dio non può dominare se non ordina le cose, se non le mette in ordine. Dio e poi gli uomini. il numero come il principio che determina la misura, forma e ordine, questo è posto dall’atto creativo della misura assoluta, come la salvezza di ogni realtà particolare... Salvezza da che cosa? Dai molti. …come ciò che singolarmente buono, ma anche come la teleologia immanente del tutto. Cioè, là dove tutto tende. La ragione per cui la singolarità molteplice si collega con il tutto, con fortissimi vincoli di amore. Ecco che interviene l’amore, finalmente. È l’amore che tiene insieme, lo dirà tra poco. L’amore è ciò che tiene insieme. La vera e propria unità, ovvero il principio di ogni di ogni unità manifesta, è accessibile soltanto alla mens; la vediamo, infatti, con la mente. Così dice nel De vera religione. Questa affermazione basilare implica il fatto che chi desidera giudicare sulla bellezza in modo conveniente, legittimo e quindi appropriato, in quanto misura a priori di questo giudizio, deve avere la conoscenza della vera unità e, quindi, della bellezza suprema o interiore. Chi vuole giudicare deve avere la conoscenza della vera unità, cioè, della verità. Ne parlavamo la volta scorsa a proposito del monoteismo. Soltanto il monoteismo, in fondo, consente di giudicare a partire da una verità unica, sola, indiscutibile e soprattutto ineffabile, che è la condizione per potere giudicare su tutto e su tutti, soprattutto. Meta di questo processo, il sollevarsi dell’anima verso l’Uno, questo processo di astrazione, è il reale principio verso cui corriamo. Il piacere della superiorità, della tranquillità, immobile, atemporale e uguaglianza, è il peso motore dell’anima. Questo vuol dire: l’anima compie l’astrazione indicata nell’orizzonte di una generale tendenza ontologica, quindi immanente in ogni realtà, verso l’unità. In ogni realtà c’è questa cosa, immanente in lei, che la spinge verso l’unità. Questo è il principio reale dell’inizio temporale di un ritorno dell’anima pensante in sè medesima, che è insieme risalita verso lo stesso principio atemporale, l’Aufhebung. Il movimento quindi, in termini metaforici, va da fuori verso dentro e da dentro verso sopra. Hegel praticamente è tutto qui. Quindi, il piacere della superiorità, della tranquillità, immobile, atemporale e uguaglianza è questo tendere dell’anima verso l’Uno, che però deve essere consapevole. Chi non lo sa deve essere raddrizzato.