3 dicembre 2025
Gabriella Zanoletti Il bello come vero alla scuola di Chartres
L’estetica di Hegel è, secondo Heidegger, quanto di meglio sia mai stato scritto intorno all’arte e alla sua storia. Per Hegel che cos’è il bello? Perché l’estetica punta a questo, a stabilire che cos’è il bello. Ora, Hegel naturalmente non poteva ignorare tutto ciò che ha scritto nella Fenomenologia dello spirito e nella Scienza della logica, né meno che mai poteva contraddirla. Dunque, dobbiamo pensare che il bello per Hegel non sia che un’applicazione all’arte della sua dialettica, e cioè di un ritorno di qualche cosa che punta all’assoluto, di un qualche cosa che quindi si pone come integrazione, come il tutto. Questo è ciò che si può ipotizzare, semplicemente tenendo conto del pensiero di Hegel. Vediamo se è così. Dice dunque Hegel, siamo all’ultima pagina. Con l’esame dei vari generi in cui si sviluppa la commedia, siamo giunti effettivamente alla fine della nostra trattazione scientifica. Partimmo dall’arte simbolica, ecc. Ma questo culmine, la commedia, conduce al contempo alla dissoluzione dell’arte in generale. Il fine di tutte le arti è l’identità prodotta dallo spirito, in cui viene rivelato per l’animo, per la rappresentazione e per la nostra intuizione esterna, In apparenza e forma reale l’eterno, il divino, ciò che è in sé e per sé, vero. Esattamente come abbiamo ipotizzato, né più né meno. Cioè, l’arte, il bello, non è altro che l’itinerario dell’anima a Dio. Ora, questo naturalmente ha delle implicazioni notevoli, perché riguarda il piacere, il bello, e come per ciascuno si struttura il bello, come si pone di fronte al bello. Intanto, che cos’è il bello? Questo già Hegel ce lo ha detto: il bello è la convergenza dei molti all’uno, la riduzione all’uno dei molti. Questo è il bello, questa è l’estasi mistica: eliminare tutti i molti e giungere all’uno, all’assoluto, a Dio, è il sillogismo perfetto. Quindi, ecco l’interesse per questa questione, perché, questo già Aristotele lo sapeva bene, ciascuno tende alla soddisfazione, all’ήδονή. C’è anche la λύπη, certo, già Aristotele si era accorto che non c’è l’ήδονή senza la λύπη. Ma il bello, questa idea del bello assoluto, che è poi l’idea di Platone, può esistere solo come idea - per questo Platone l’ha posta come idea: l’idea del bello - che naturalmente non esiste in natura, esiste come idea, come fantasia, e cioè come l’idea di averee eliminato i molti, di aver eliminato la λύπη, il dispiacere; e il dispiacere non è che l’irruzione dei molti nell’uno. Quindi, il bello è il vero, perché per ciascuno ciò che è bello, ciò che gli piace, è vero, non è finto, è il vero per antonomasia. Adesso leggiamo alcune cose di questo testo. La penetrazione del pensiero di Aristotele avrebbe dovuto provocare scompiglio. In realtà, la lentezza dell’assimilazione e il fatto che le opere di questo pagano, di un gesto in Europa attraverso la mediazione musulmana e con evidenti limitazioni derivanti da una incompleta conoscenza del latino da parte dei traduttori, attutirono l’esperienza, l’asprezza delle reazioni. Dimentica di citare Porfirio, che ha avuto la sua parte. A pag. 55. In questo senso Giovanni, Giovanni di Salisbury... Che è stato uno dei principali artefici della scuola di Chartres. ...può essere visto come uno degli iniziatori della moderna genetica psicologica. Dapprima appare la sensazione che ha in sé il germe del giudizio, di poi l’immaginazione con un ulteriore sviluppo del giudizio in direzione della valutazione dell’esperienza, dal quale nasce il piacere e il dolore, la base del desiderio. Dalla immaginazione nasce la conoscenza razionale... Il piacere e il dolore sono la base del desiderio: non direi, perché mai? Sì, questa, in effetti, è la versione psicologica, ma il desiderio - lei non lo dice ma lo dicono i padri della Chiesa - è sempre necessariamente il desiderio di Dio, cioè della bontà, del bello, del vero: questo è l’unico desiderio. A pag. 68. Anche la musica, osserva Giovanni nel Policraticus, abbraccia l’universo riconciliando la moltitudine delle cose, diverse e dissonanti, per mezzo della legge di proporzione. Per mezzo di questa legge le sfere celesti sono armonizzate e anche il cosmo è altrettanto ben governato. La bellezza della musica e dell’eloquio sono tali in quanto riportano la divina semplicità dell’Uno. In questo senso la venustas eloqui, la bellezza musicale e la bellezza spirituale del saggio divengono esemplari di una bellezza nascosta, posta come finalità. A pag. 69. L’unità è ciò che è in esso persistente e immutabile, eterno; la molteplicità è la ragione delle metamorfosi che alterano le cose qualitativamente e quantitativamente. Il regno delle creature molteplici e mutevoli è governato dal numero, creatio numerorum rerum est creatio. L’alterità, molteplicità, promana dall’unità, e Dio che è l’unità similis, rebus forma essendi. Cioè, non fa che ripetere in effetti che il bello è l’unità, è l’uno. A pag. 70. Nel Commentario del Timeo, testo chiave per intendere l’ideologia della scuola di Chartres, la bellezza e la bontà lavorano insieme in un ordine celeste e insieme sono legate nella conoscenza dell’animo umano. Il bello in se stesso è eterno, immateriale e uno, qualcosa che è al di là del fenomenico di una bellezza che va mutando. L’estetica chartriana si è imposta dunque su questa enfatizzazione della matematica, soprattutto della geometria, al punto che Teodorico di Chartres sperò di poter dimostrare l’esistenza della Trinità per mezzo di una dimostrazione geometrica e precisamente del triangolo equilatero. Qui la logica è già imperante. A pag. 77. Se Abelardo ha applicato la logica alla grammatica... Erano tre le arti del trivio, logica, grammatica, retorica, mentre quelle del quadrino erano musica, astronomia, geometria, aritmetica. ...è perché esiste intrinseca affinità tra la scienza dei simboli verbali e quella dei concetti e dei giudizi. L’ars disserendi era considerata nel medioevo l’equivalente di conversare, usare la propria ragione, considerata qui come iudex discepatrix facente parte del discorso, non astratta secondo la lezione di Cicerone... A pag. 80. Come la logica medioevale ha molti punti di contatto con la logica formale di oggi, altrettanti ne dimostra con l’interesse odierno per la costruzione di un linguaggio formale. Il linguaggio formale è quello che ha eliminato i molti, ha eliminato tutti gli errori. Gli studiosi di entrambe le ere riguardano il linguaggio come una specie di mappa, la cui funzione è di darci una rappresentazione simbolica degli aspetti basici della realtà. L’informazione può essere data in molti modi ma soltanto il linguaggio sembra darci le necessarie informazioni in tale forma, che qualsiasi ulteriore conoscenza può legittimamente essere inferita da questa prima conoscenza da noi ottenuta. Questo fatto dà un significato pratico al linguaggio perché esso dà agli esseri umani la possibilità di evitare o cambiare gli avvenimenti probabili prima che essi si verifichino. Ma, soprattutto, la logica dà la possibilità al linguaggio di sbarazzarsi degli errori, cioè, dei molti. A pag. 82. D’altra parte, la responsabilità di un possibile errore sta nella realtà stessa, rappresenta la molteplicità che deve essere ricondotta all’unità, ma per la sua natura varia e diversa sfugge il principio unitario di cui rappresenta l’antitesi. Unità e molteplicità, ecco il contrasto. L’intelletto deve discendere verso la realtà molteplice ed accettarla. A lato della verità probabile sorge dunque la necessità di un’altra forma, la fede, come risultato dell’operazione predicativa, quale l’intelletto che è nel mondo del molteplice e deve adattarsi. A pag. 86. Questa fedeltà al rigore scientifico è una delle cause per le quali gli uomini sentono il bisogno di restare insieme per aiutarsi e correggersi gli uni con gli altri, essere e co-essere. È in questa comunione di saggi che l’intelletto potenziale che è in ciascuno di noi aumenta il proprio potere per il numero dell’esperienza, la vigilanza assidua delle stesse... È l’avere attitudine umana di cercare l’immateriale e al di là della materia sentire la forma assoluta ed essere nella stessa. Dove cercare l’immateriale? A pag. 100. Consideriamo che il procedimento a cui ricorre Giovanni è in sintesi questo: X è il predicato di Y, non è un’affermazione fortemente probabile circa la realtà sensibile. Poiché siamo totalmente sicuri che esista una totale inerenza tra i termini X e Y, dobbiamo inventare un medio termine che li unirà come estremi della conclusione di un sillogismo. Dice: poiché siamo totalmente sicuri che esista una totale inerenza. Da dove arriva questa sicurezza? Chi gliel’ha fornita? E allora, certo, scegliamo il termine Z, del quale X è il predicato e che è relato ad Y come la specie è relata al genus. Il seguente sillogismo può essere così costruito: Z è predicato di Y ma X è predicato di Z, per cui X è predicato di Y. Va bene, ma come siamo totalmente sicuri che esista una tale inerenza? Siamo sicuri perché c’è la processione, siamo sicuri perché è la Trinità che ci dà questa certezza, cioè, il fatto che dal Padre si procede al Figlio e allo Spirito e che questa processione è divina. Questa è la nostra sicurezza, sennò, come diceva Aristotele, è una decisione, ύπάρχειν, un comando, niente di più. A pag. 101. Per la limitazione della nostra immaginazione e sensazione, Giovanni non pensa che possiamo arrivare alla verità fondamentale con le nostre asserzioni intorno alla realtà sensibile, ma possiamo costruire argomentazioni, la probabilità delle cui conclusioni sarà garantita dalle massime topiche. Queste topiche della ragione probabile sono gli unici che possiamo pienamente comprendere nella nostra debolezza di uomini. Cioè, noi possiamo basarci soltanto sull’induzione, sull’analogia, che ci dà una probabilità, una possibilità, ma mai la certezza. Quindi, per avere la certezza, tenendo conto che è l’unico strumento che abbiamo, dobbiamo santificare l’induzione, cioè, l’analogia. A pag. 123. Secondo la sua coscienza (dell’uomo) ogni coppia di termini antitetici pare esigere una sintesi che abbraccia i due contrari fusi insieme. Questo è Hegel, è l’Aufhebung. Secondo la sua coscienza: quindi, è la sua coscienza che dice che i due termini antitetici vengono abbracciati e integrati insieme. Ma, intanto, la coscienza di chi? La mia, la tua, la sua? A pag. 127. L’uomo, allorché accetta di farsi spirito, deve volgersi dal divenire all’essere, trascendere il tempo e rifugiarsi nell’eternità. L’artista deve esprimere plasticamente tale trascendenza. Quindi, questo è il compito dell’artista, quindi, dell’arte: mostrare la trascendenza. Da qui il gotico, le chiese che si innalzano verso il cielo, costringendo il credente ad alzare gli occhi in alto e, quindi, a volgerli verso Dio. A pag. 128. Ufficio dell’arte è quello di mettere in evidenza l’aritmetica della creazione. Così facendo, l’artista non solo provoca in noi l’impressione di una bellezza eterna, ma inversamente le leggi numeriche vengono a rivestire un senso più profondo, metafisico, e ci immettono nella contemplazione dell’ordine universale. Un numero porta verso la trascendenza, quindi, verso Dio. Certo, qui ci sarebbe da dire: mettere in evidenza l’aritmetica della creazione. Parlare di aritmetica della creazione già, nonostante sia cattolica, è un problema, perché significa che la creazione è misurabile, è computabile. Ma se è computabile allora sono diversi i tre e, quindi, crolla tutta la dottrina trinitaria. E, quindi, già qui c’è un’eresia. A pagina 130. Troviamo in Maritain (filosofo francese, fine ‘800, inizio ‘900) che il bello è lo splendore della forma, perché la forma, il principio che costituisce la perfezione propria di tutto ciò che è, che costruisce le cose nella loro essenza e nella loro qualità, che è infine, se così si può dire, il segreto ontologico che portano in sé… C’è sempre un richiamo al segreto, all’ineffabile, non ci rinunciano mai. ...è prima di tutto il principio di intelligibilità o la claritas propria di ogni cosa. Perciò ogni forma è un vestigio o un raggio dell’intelligenza creatrice impresso nel cuore dell’uomo creato. È ciò che i padri della Chiesa vanno ripetendo incessantemente: ogni cosa rimanda a Dio. Ma questo rimando a Dio è garantito dal fatto che lo abbiamo già dentro di noi, sennò non potremmo saperlo mai. A pag. 136. Sull’unità e la consonanza del mondo sulla sua organicità garantita dalla presenza dell’anima universale, che non è solo principio di vita ma anche di tutta la struttura matematica... Quindi, a fondamento della matematica c’è l’anima universale. …torna più volte il pensiero dei maestri di Chartres. Il loro cosmo è sviluppo, attraverso gli scritti aritmetici di Boezio, del principio agostiniano secondo il quale Dio dispone ogni ordine et mensura, e si ricollega strettamente al concetto classico di kosmos, sorretta da un principio divino che anima e provvidenza. Lo stesso concetto sta alla base della scuola di Chartres, la ricerca delle forme e dei rapporti armonici è infatti il fondamento della delectatio. Come dice De Bruyne, quelli di Chartres godono del mondo attraverso un sistema matematico che loro ci hanno proiettato. Ci mettono dentro il sistema matematico e poi ne godono tutti contenti. Il numero viene perciò a essere il principio ideale capace di spiegare la struttura fisica e la bellezza della natura. Ecco cosa fa il numero. A pag. 137. L’interesse che Giovanni fra tutte le arti accorda alla musica è da ascriversi allo stesso principio. La musica, egli osserva, infatti abbraccia l’universo, riconciliando la moltitudine delle cose dissidenti e dissonanti per mezzo della legge di proporzione, per mezzo della quale le sfere celesti sono armonizzate e il corso governato. Perché alla fine si tratta di questo, di governare tutte le cose. Ecco, il bello è ciò che è governato. Quindi, l’estasi mistica è quella condizione in cui ci si trova quando c’è l’idea, la supposizione, la certezza che tutto sia governato: allora c’è l’estasi mistica: tutti gli errori sono eliminati. A pag. 147. È per Sant’Agostino il misterioso occhio dell’anima e per Al Ghazali, il persiano mistico dell’undicesimo secolo, come una percezione immediata... Sta parlando dell’idea di Platone. ...come se un uomo toccasse l’oggetto con una mano; eppure, secondo le parole di San Bernardo può essere definita come la vera intuizione dell’anima, la sicura apprensione della verità. Cioè, la sicura apprensione della verità: ciò che si sente. Qualunque altra cosa è meno sicura, meno certa, perché è il prodotto di un’argomentazione. Ecco perché non deve essere argomentato, quindi non deve essere interrogato nulla di tutto ciò. E l’estasi mistica non può essere interrogata, mai per nessun motivo, perché se la si interroga cessa di essere un’estasi mistica, diventa altro, cioè non è più governata. A pag. 150. Si tratta di affrontare un problema preliminare a ogni tentativo metafisico. L’uomo può raggiungere gli esseri e l’essere nella sua piena realtà? Di quale strumento dispone nella sua ricerca? Che valgono le parole dell’umano linguaggio? Possono scoprire il reale o, meglio, possono tradurre ogni sorta di reale? Più di un pensatore del XII secolo si è posto questo interrogativo e così anche Giovanni, poiché egli ha coscienza dell’immensa virtualità del linguaggio; ha anche una coscienza sicura dell’inadeguatezza delle parole in rapporto alla realtà che devono dedurre. Egli si contenta di invitare i suoi lettori a trovare il meglio per tradurre la verità che si presenta e afferma che se la conoscenza delle cose non accompagna sempre la conoscenza delle parole, la scelta delle parole non accompagna sempre la conoscenza delle cose. Ecco dunque l’inizio di una critica del linguaggio il cui imperativo obbliga alla precisione terminologica e allo sforzo purificatore quando dovrà applicare a Dio i concetti e le parole di cui l’uomo si serve per parlare dell’uomo. Ecco, quindi, a cosa serve la logica. La logica è quello strumento che purifica, purifica il linguaggio dalle imperfezioni, cioè, degli errori. Questo è quello che fa la logica. Perché ci si chiede: che cosa fa la logica? Per cosa l’abbiamo inventata? Per potere eliminare tutti gli errori che intervengono parlando. E gli errori cosa sono? Sono i molti, cioè quelli che incrinano, che impediscono di capirci, impediscono di darmi ragione. A pag. 152. Per passare dal sensibile all’intellegibile, profittando degli aspetti del reale, l’inadeguatezza del linguaggio umano è sentita più fortemente allorché si devono applicare a Dio le parole dell’uomo... Che già di per sé, secondo la teologia negativa, applicare le parole dell’uomo a Dio potrebbe apparire una blasfemia, perché non possiamo dire che cos’è, ma solo ciò che non è. Si tratta dunque di usare l’analogia. L’impegno del concetto che orienta verso un’altra realtà è giustificato. La conoscenza che ne dà è legittima e valevole, ma la sua esattezza si accresce allorché si ricorda che l’oggetto che egli evoca resta trascendente all’espressione che egli ne dà. Sì, l’analogia è sacra, però non è Dio. Giovanni non fa la filologia dell’analogia... E fa malissimo, perché se l’avesse fatta... ...la mette in opera... Che è quello che si fa sempre: non si sa che cos’è, ma lo si usa. Per quanto riguarda i concetti, uno non sa di cosa sta parlando esattamente, però li usa nel discorso continuamente. ...sapendo che serve per meglio filosofare. Per spiegare questa analogia, la ragione è arrivata all’estremo delle sue possibilità. Tutto nell’autore si è mobilitato per comprendere ciò in cui crede. La ragione ha il suo posto molto importante e la sua funzione nettamente determinata, che la esercita liberamente. Quindi, siamo arrivati in pratica alla santificazione dell’analogia, che a questo punto è perfettamente giustificata. Quindi, ecco il passo, su cui ci sarebbe da soffermarsi a lungo, per trovare anche altri elementi, però non lo fa. Perché santificare l’analogia significa fornire al pensiero la giustificazione della ipostasi dell’universale, perché sappiamo già da Aristotele, prima che lo leggessero i neoplatonici, che l’universale è tale perché è il risultato dei molti. L’universale da solo non esiste, lo si raggiunge, dice anche Aristotele, per induzione, cioè per analogia, quindi attraverso i molti. Però, il fatto che si raggiunga attraverso i molti non fornisce all’universale alcun criterio di validità. Se, invece, noi facciamo dell’analogia una sorta di percorso divino, cioè diamo all’analogia una portata quasi santa, quasi salvifica, ecco che allora l’analogia costruisce l’universale, ma a questo punto l’universale è garantito dalla santa analogia. Questo passo è importante: avere posta l’analogia come qualcosa di assolutamente giustificato, di legittimo, quindi, valevole; mentre sappiamo bene che l’analogia non è altro che una somiglianza, una similitudine: questo somiglia a quello, ecc. Però, già qualche padre della Chiesa, che adesso mi sfugge, aveva posto l’accento sull’importanza della somiglianza. È come se avesse risolto il problema dell’analogia, perché l’analogia è quella cosa che non consente di stabilire l’universale. Se non c’è l’universale non è possibile dedurre niente e tutta la logica va a catafascio. Ma se l’analogia diventa giustificata, assoluta e legittima, ecco che allora ciò che l’analogia costruisce diventa altrettanto legittimo, santo, ecc., e quindi l’universale che costruisce, che di fatto non esiste se non come prodotto, come un risultato dei molti, anche l’universale acquista una sua validità intrinseca, interna, e quindi possiamo fare affidamento sull’universale. In caso contrario no. A pag. 150. La situazione è quindi sempre quella del mondo in fieri, realtà occasionalmente disposta perché la nostra esistenza la modifichi e la faccia sua. Ottemperando il compito di esistere essendo, si pensa particolarmente al proprio essere, ma l’attività psichica mediante la quale affermo che qualcosa è mia non è il sapere ma è il credere. È il credere che fa diventare mio qualche cosa; io credo in questa cosa, quindi di questa cosa è come se me ne impossessassi in un certo senso, ma solo se ci credo Se ci credo allora è assolutamente vera, se è assolutamente vera è l’assoluto, se è l’assoluto non mente, perché è la verità assoluta. A pag. 155. L’ordine estetico si raggiunge con l’unificazione delle cose e delle azioni multiple e diverse in uno stesso insieme. Consiste nella unità, nella varietà. La molteplicità è varietà di cose e azioni diverse e causa materiale dell’ordine. L’ordine segue la molteplicità in quanto si ordina. La unità ha la sua ragione formale, la proporzione è l’eguaglianza delle relazioni di quantità, sia di estensione continua sia di numero. L’armonia risulta dalle relazioni di qualità, cioè somiglianza. /.../ La bellezza come una specie di bontà si fonda su quella speciale perfezione che consiste nella consonanza armonica delle parti. E ancora, il buono come luce e armonia, la bontà di Dio come causa, l’idea del bello come espressione dell’essenza dell’essere. Il buono e il bello hanno la stessa struttura e si equiparano come portatori dei principi dell’essere. Alla fine ci sono piccoli brani tratti dagli scritti di Giovanni di Salisbury, questo dal Metalogicon, Liber Secundus. Tutti, infatti, si gloriano di essere logici, non solo quelli che con qualche blandizia si accaparrano la scienza, ma anche coloro che ancora non l’hanno salutata dalla loro soglia. Tutti vogliono essere logici. Per queste ragioni è nata la scuola dei peripatetici, la quale affermò che il bene più alto della vita dell’uomo è la conoscenza della verità. Perciò, sottoposero a osservazione la natura di tutte le cose per sapere ciò che in essa è da fuggire come male, che cosa bisogna tenere in poco conto come non buono, che cosa va ricercato come semplicemente buono o preferito come bene maggiore, che cosa infine assuma nome di bene o di male dalle circostanze. Qui parla di aristotelici, ma sempre letti attraverso il neoplatonismo. Sono nate, quindi, due parti della filosofia, la naturale e la morale, l’etica e la fisica, ma poiché, a motivo dell’imperizia nello sviluppare il ragionamento i filosofi accumulavano molti inconvenienti, Epicuro, secondo il quale il mondo nacque dagli atomi e dal vuoto senza intervento divino, e gli stoici che immaginavano la materia coeterna a Dio e altri errori equivalenti, fu necessario ricercare e far riconoscere una scienza che sapesse distinguere con cura termini e significati e dissipasse le ombre delle menzogne. Ecco la logica. Proprio questa, come afferma Boezio nel secondo commento a Porfirio, è l’origine della disciplina denominata logica. La logica serve a questo, a emendare gli errori, cioè, a emendare le eresie. Era indispensabile una scienza che distinguesse il vero dal falso e insegnasse quale tipo di ragionamento segue la via giusta nel disputare, quale è una via che assomiglia a quella giusta, quale è sicuro e quale deve essere ritenuto sospetto; altrimenti, la verità non potrà mai essere scoperta per mezzo del ragionamento.
Intervento: …
Sì, certo, Platone. Occorre riferirsi alla paideia platonica, cioè alla formazione, alla formazione dei fanciulli. Si sa che per Platone i fanciulli dovevano essere educati al bello e gli uomini si avvicinavano, si accostavano, si accompagnavano ai fanciulli perché belli. Ma questo doveva condurre il fanciullo stesso al di là del bello sensibile e portarlo verso il bello intelligibile, poi al bello assoluto che è l’idea.
Intervento: …
Sì, esatto. Qui aveva ragione Giovanni di Salisbury: solo se lo controllo mi piace, soltanto se ne ho il controllo totale e io vedo una certa cosa e finalmente riesco a cogliere qualche cosa che mi permette di controllarla, cioè di trasformarla nell’uno. Allora mi piace, allora c’è l’estasi mistica, la contemplazione. Come dire, contemplo ciò che posso controllare; se non lo posso controllare, allora non c’è l’estasi mistica. Devo darmi da fare per trovare quel punto che mi consente di controllare tutto, cioè di ricondurre i molti all’uno.