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3 settembre 2025

 

Agostino d’Ippona De Trinitate

 

Mercoledì scorso Cesare e io abbiamo discusso di alcune cose importanti. Siamo partiti dalle origini, siamo partiti dal peccato originale, notando che il peccato originale, che è all’origine di tutto, ci mostra che tutto il cristianesimo, tutta la religione si fonda su un divieto. All’origine c’è il divieto, più ancora che all’origine era il verbo, all’origine era il divieto. Questo divieto ha costituito il fondamento della religione, del cristianesimo, dei vari monoteismi, naturalmente - il politeismo dei greci è tutt’altra cosa, non c’entra niente - perché soltanto se c’è un divieto c’è il crimine, se c’è il crimine c’è il peccato, se c’è il peccato occorre mondarlo; quindi, occorre qualcuno che salvi dal peccato. Se non c’è nessun divieto non c’è nessun crimine, non c’è nessun peccato, il salvatore non serve assolutamente a niente. In pratica, è come se ci avessero detto qual è lo scopo del verbo. Dio, un qualunque Dio, sarebbe totalmente inutile se non avesse questa funzione di salvatore. È importante perché dopo ciascuno ha assunto o ha tentato di assumere questa posizione che è quella di Dio nel racconto, di colui che salva. Salvare qui è da intendere salvarlo dalla sua ignoranza, dal fatto di non sapere come stanno esattamente le cose, è da questo che si salva qualcuno, perché non sapendo cade nell’errore. Se invece lo istruisco, allora si potrà salvare. Ma ciascuno mette in atto per sé questa posizione del salvatore, ciascuno deve sempre salvare qualcun altro, in questa accezione che dicevo, cioè, mostrare all’altro che ignora come stanno realmente le cose e che, quindi, la sua condotta non è adeguata, è errata, per cui deve modificarla a partire da alcuni principi. Come dire che il modo di rapportarsi all’altro è sempre un modo religioso, soteriologico. E qui sorge la domanda: ci si rapporta all’altro solo per salvarlo o c’è qualche altra intenzione? È una bella questione perché, se dovessimo seguire quanto detto fino ad adesso, parrebbe che l’obiettivo sia sempre esclusivamente salvare l’altro dalla sua ignoranza, rappresentata dal peccato. Questo, dicevo, ci porta a una serie di considerazioni. Intanto, che così come ciascuno ha la necessità di salvare qualcun altro, la stessa cosa riguarda Dio naturalmente, che ha bisogno dell’uomo per poterlo salvare da quel crimine che lui stesso ha inventato. È ben congeniata la cosa: io invento il crimine, dopodiché tu sei un criminale, ma io intervengo e ti salvo. Oppure, invento un’epidemia e poi ti salvo; io ti metto paura, ti dico che sei nel peccato, sei nell’errore, sei malato e poi arrivo io a salvarti. Questa operazione di salvare l’altro è stata messa in atto con una certa frequenza almeno negli ultimi tremila anni. In effetti, qui il godimento è, sì, certo, salvare l’altro, averlo quindi sotto controllo, ma viene soprattutto dall’idea di sapere che cos’è il bene. È l’anima bella di cui parlavamo qualche volta fa: io so che cos’è il bene, il bene assoluto non un bene relativo, parziale, e questo mi autorizza a intervenire su chiunque. È importante incominciare a riflettere su questo aspetto, cioè, sulla necessità di avere qualcuno da salvare sempre e comunque, perché, se non c’è nessuno da salvare, così come un qualunque Dio è assolutamente inutile, allora anch’io sono assolutamente inutile: se non ho nessuno da salvare, se non ho nessuno a cui mostrare il bene, divento inutile. E questo è un problema, perché soltanto se viene riconosciuto il bene che io rappresento allora questo bene è assoluto e determinante; quindi, mi devono riconoscere come il salvatore. D’altra parte, buona parte della teologia cristiana è andata in questa direzione, a fare riconoscere a tutti il Figlio del Padre, Gesù Cristo. Dicevo che se non c’è nessuno da salvare c’è il rischio che io non serva a nulla; cosa che tra l’altro accade ed è accaduto continuamente di ascoltare: quando una persona si sente inutile sta dicendo che non c’è nessuno per cui è utile, cioè, qualcuno da salvare, per dirla in modo un po’ spiccio. Anche nella Bibbia ciò che appare è che l’uomo ha bisogno di Dio almeno quanto Dio ha bisogno dell’uomo. Dunque, la soteriologia, la dottrina della salvezza. E qui interviene la Trinità, Dio uno e trino. La Trinità è composta ovviamente da tre elementi. I Greci avevano inteso bene la questione distinguendo tra πρότασις (protasis), πρόοδος (proodos) e ἐπιστροφή (epistrofé). La Trinità è stata ripresa pari pari: πρότασις è la protasi dell’inferenza, è ciò che si pone; πρόοδος è lo spostamento, l’andare verso qualche cosa; l’ἐπιστροφή è il ritorno. La Trinità ha questo andamento, che è poi quello di Hegel, che lo ha ripreso dal cristianesimo: è soltanto nel ritorno che c’è la salvezza. Questo lo diceva già Plotino: per salvarsi occorre tornare all’Uno, non possiamo andare avanti incontrando sempre altre cose, dobbiamo tornare all’Uno, perché lì c’è la salvezza, perché quello è l’Assoluto. Quindi, occorre un Dio Assoluto a cui tornare, perché questo Dio Assoluto è quello che ha eliminato i molti. Senza questo ritorno non c’è salvezza; in fondo, quando io salvo qualcuno dalla sua ignoranza tremendissima io lo riporto all’Uno, lo riporto alla verità. Diventa ciò che sei, diceva Nietzsche. Come ha sottolineato in modo appropriato Beierwaltes, Nietzsche era un neoplatonico. Dunque, tornare all’Uno; quindi, è necessario che ci sia un Uno Assoluto. Questo nei greci non c’era: la teologia greca è tutta fatta di supereroi, che vanno in giro a scorrazzare, ma non c’era, l’abbiamo detto tante volte ed è fondamentale, l’idea di assoluto, cioè, di ciò che è senza i molti, la verità assoluta. Per questo motivo Agostino nel De Trinitate lo dice con ragione: la conoscenza ha bisogno di Dio, sennò non c’è conoscenza. Capite subito il motivo: perché la conoscenza necessita della verità epistemica per potere affermare di conoscere qualcosa, sennò non conosco nulla: io lo racconto, lo abbozzo, lo descrivo, lo immagino, faccio una serie di cose, ma non lo posso porre come la verità, non posso dire di conoscerlo. La conoscenza, dice bene Agostino, prevede l’esistenza di Dio, senza Dio non c’è conoscenza. La conoscenza, dunque, è un retaggio religioso, conoscenza così come la intendiamo oggi, perché ha bisogno della verità epistemica, che, come sappiamo da Aristotele, è un’invenzione, non esiste e se non esiste la verità epistemica non esiste la conoscenza. Agostino vede questa cosa, anche se non la dice così ovviamente. È un po’ come faceva rispetto al linguaggio. Lui si accorge del problema del linguaggio, così come si accorge del problema della conoscenza: io conosco, sì, certo, conosco però attraverso che cosa? Attraverso le parole, attraverso il discorso, attraverso altre cose che non sono quella e, quindi, quando posso dire di conoscerla, chi mi garantisce che sia proprio quella? Dio, solo lui può farlo e per fare questo deve essere il Dio assoluto, non può essere anche lui corrotto dai molti, lui deve esserne privo, mondato dai molti, cioè, dal peccato, cioè, dal crimine della mela. Quindi, la conoscenza, dicevo, è un concetto religioso, necessita di Dio, perché sennò io non posso mai dire di conoscere qualcosa. Devo fissarla, devo fermarla, cioè, devo togliere i molti. E come li tolgo? Sappiamo bene che ogni operazione che punti a togliere i molti ne produce di più. E quindi non li toglierò mai, e quindi non conoscerò mai perché non esiste il significato univoco. Se non c’è significato univoco, non c’è verità epistemica, dunque, non c’è conoscenza. E la cosa interessante in Agostino è che lui si accorge di alcune cose e, quindi, vuole trovare il rimedio, così come ha fatto con il linguaggio: la parola è polivoca, non esiste un significato unico della parola, quindi, per poterla conoscere è necessario che ci sia qualcuno che la garantisce per quella che è. Ecco la parola interiore, che è la parola di Dio: io guardandomi dentro vedo Dio, questa parola viene da Dio, quindi è necessariamente quella che è, perché a questo punto anche lei è assoluta, non contaminata dai molti. I molti sono sempre un problema. Anche l’idea di salvare qualcuno da una qualunque cosa immagina che ciò da cui debba essere salvato in fondo siano i molti, perché io devo ricondurlo all’Uno e, quindi, devo sottrarlo ai molti che lo stanno contaminando, lo stanno alterando: i molti sono la perversione. La perversione è ciò che distrae, che porta via. D’altra parte, Platone è stato preciso: i molti sono il male, sono i cattivi. Quindi, salvare è sempre un ricondurre all’Uno. Cosa fa la persona che vuole salvare? Si mette al posto dell’Uno, anche solo provvisoriamente, però si mette al posto dell’Uno. Ed ecco: “Io ti salverò”. D’altra parte, sappiamo bene che le streghe venivano bruciate per essere salvate; il corpo andava in fumo, ma il corpo era cosa da poco, ma l’anima si salvava perché le fiamme purificano. Dunque, detto tutto ciò, cosa dice Agostino? Siamo al libro nove, 12.18. Le cose che si riproducono (reperiuntur), è come se si generassero (pariuntur); per cui sono simili ad una prole, e dove accade ciò se non nella conoscenza? Che cosa garantisce la conoscenza? È il fatto che le cose che pensiamo procedono da Dio come una prole e, quindi, sono generate. Là, infatti, come esprimendosi, vengono formate. Le cose che si producono nella conoscenza. Perché, se già esistevano le cose che la ricerca scopre, non esisteva tuttavia la conoscenza, che paragoniamo ad un figlio che nasce. /…/ Ed ecco una certa immagine della Trinità: lo spirito, la sua conoscenza che è la sua prole ed il verbo generato da esso e, in terzo luogo, l’amore;… L’amore per Agostino è la relazione, è ciò che tiene unito. …e queste tre realtà fanno una sola cosa ed una sola sostanza. Né è inferiore la prole allo spirito, fintantoché questo si conosce in maniera adeguata al suo essere; né è inferiore l’amore, fintantoché lo spirito si ama in misura adeguata alla conoscenza di sé e al suo essere. Quindi, queste tre cose, che fanno una cosa sola, riguardano effettivamente la conoscenza. La conoscenza è data da questi tre momenti, che prima indicavo utilizzando parole greche, πρότασις (protasis), πρόοδος (proodos) e ἐπιστροφή (epistrofé). L’ἐπιστροφή (epistrofé) è il ritorno, è l’amore che mette insieme, è l’Aufhebung che integra tutto insieme e fa uno, fa un tutto, un intero, senza aspettare che arrivino gli astratti. Libro decimo, 3.5. Qui parla dello Spirito. Quando poi cerca di conoscersi, esso si conosce già nell’atto di cercare. Esso si conosce già, dunque. Perciò non può affatto ignorare se stesso lo spirito che, anche quando si conosce come non conoscente se stesso, per questo stesso fatto si conosce. Se ignorerà che si ignora, non si cercherà per conoscersi. Per questo il fatto stesso che esso si cerca è la prova che esso è a se stesso più noto che sconosciuto. Per il fatto che si cerca, sta dicendo, vuole dire che non si ignora. 4-6. Dunque, si conosce tutto intero (lo Spirito). Infine, quando lo spirito cerca di conoscersi, sa già che è spirito, altrimenti ignorerebbe se cerca se stesso e cercherebbe forse una cosa in luogo di un’altra. Potrebbe darsi che essa non sia spirito e allora quando cercasse di conoscere lo spirito non cercherebbe se stesso. Come a dire che questo spirito, siccome si cerca, cercandosi sa di esistere per il solo fatto di cercarsi. Come fa a saperlo? Come fa a sapere che si cerca? Questo non è dato a sapere. 11.18. Qui parla di memoria, intelligenza e volontà. Sono sempre termini che cambiano un po’ ma alludono sempre alla stessa cosa: πρότασις, πρόοδος, cioè, lo spostamento su un’altra cosa, e poi il ritorno, che fa di questi tre elementi un tutto, lo Spirito assoluto, avrebbe detto Hegel. Dunque, queste tre cose: memoria, intelligenza e volontà, non sono tre vite, ma una vita sola; né tre spiriti, ma un solo spirito; di conseguenza esse non sono tre sostanze, ma una sostanza sola. La memoria, in quanto si dice vita, spirito, sostanza, si dice in senso assoluto;… Cioè, è quella che è, e tanto basta. …ma come memoria si dice in senso relativo. Lo stesso si può affermare per l’intelligenza e la volontà, perché anche l’intelligenza e la volontà ci dicono in senso relativo. Vedete che ritorna la distinzione che Agostino faceva già nel De Magistro, e Porfirio prima di lui, quando parlava della sostanza: ci sono due sostanze, una è assoluta e l’altra è relativa; una è assoluta perché viene dall’Uno, l’altra è relativa perché è quella che è determinata dalle categorie. È sempre esattamente la stessa cosa che si ripete. E queste tre cose sono una cosa sola, per la stessa ragione per la quale sono una sola vita, un solo spirito, una sola essenza. Ed ogni altra cosa che si dice di ciascuna di esse in senso assoluto, anche di tutte insieme, la si predica non al plurale, ma al singolare. Cioè, sono degli assoluti; il plurale prevede i molti, il singolare no. Invece, esse sono tre cose per la stessa ragione per cui sono in reciproca relazione tra loro. E se non fossero uguali, non solo ciascuna a ciascuna, ma anche ciascuna a tutte, esse non si includerebbero a vicenda. Infatti, non soltanto ciascuna è contenuta in ciascuna, ma anche tutte sono contenute in ciascuna. E questa è l’idea del tutto e dell’intero. In conclusione, quando queste tre cose si contengono reciprocamente, e tutte in ciascuna e tutte interamente, ciascuna nella sua totalità è uguale a ciascuna delle altre nella sua totalità e ciascuna di esse nella sua totalità è uguale a tutte considerate insieme e nella loro totalità. tutte e tre costituiscono una sola cosa, una sola vita, un solo spirito, una sola essenza. Quello che interessa qui notare è la necessità di fare sempre ritorno all’Uno, all’Assoluto. L’Assoluto è il riferimento necessario ed è il riferimento necessario perché senza l’Assoluto non c’è nessuna salvezza, perché io posso salvare solo a partire da un’idea di bene, che deve essere assoluta e non relativa ad altro, deve essere il bene assoluto, cioè, Dio, cioè, la verità epistemica. Quindi, tutta la dottrina della salvezza necessita di un Dio assoluto. E necessita anche, naturalmente, del divieto. Abbiamo visto che senza divieto non c’è peccato; senza peccato mi salvo da che? Senza peccato Dio non serve a niente, perché Dio è salvatore e redentore, redime, e se non c’è niente da redimere non c’è neanche… Infatti, era interessante notare questo aspetto: tutto il Genesi incomincia con il divieto. Questo divieto sta a indicare che è fondamentale per la costruzione di tutto ciò che ne è seguito; senza questo divieto non si costruisce il cristianesimo, cioè, il cristianesimo non ha più nessun senso senza questo divieto. Poi, nel racconto la mela sarebbe l’albero della conoscenza: non devi mangiare dall’albero della conoscenza, cioè, non devi sapere. E, infatti, dicevamo la volta scorsa, solo se sei ignorante come una zappa Dio ti ama. La curiosità intellettuale non va bene. Libro undicesimo. A motivo della nostra condizione di esseri mortali e carnali noi trattiamo le cose visibili in maniera più facile e in qualche modo più familiare che non le realtà intelligibili… Cioè, quelle che si possono solo pensare. …sebbene quelle siano esterne, queste interne, quelle sensibili al corpo, queste intelligibili allo spirito, e benché noi stessi non siamo anime sensibili, cioè corporee, ma intelligibili, perché siamo vita; tuttavia, come ho detto, la nostra familiarità con i corpi è divenuta così grande e la nostra attenzione, per uno strano scivolamento verso questi corpi, si proietta talmente all’esterno che una volta che si è tolta dall’incertezza del mondo corporeo per fissarsi, con una conoscenza molto più certa e stabile, nello spirito, fugge di nuovo verso i corpi e cerca la sua quiete là donde a tratto origine la sua debolezza. Il ritorno all’ente. Qui si sta dicendo qual è il problema del pensiero teoretico. Il pensiero teoretico non ha un grande pubblico, non interessa praticamente a nessuno, e questo per un motivo: perché non ha da salvare nessuno. E, quindi, il pensiero teoretico è assolutamente inutile, perché non salva nessuno: pensa se stesso ma non salva, cioè, non fornisce quella sensazione di conoscenza del bene assoluto, quindi della verità assoluta, che costituisce l’ήδονή, il godimento, il piacere, la soddisfazione. Ed è questo il motivo per cui è così difficile anche da praticarsi il pensiero teoretico, perché non offre l’ήδονή, perché non ha da salvare nessuno e, quindi, non offre questa sensazione di possedere il bene, di possedere la verità. Infatti, cosa accade per lo più? Ci si distrae immediatamente e si cercano immediatamente degli enti da salvare, da dominare, da fare tutte quelle operazioni che sappiamo. Ma il pensiero teoretico di per sé non ha nessuna attrattiva per questo motivo, perché non avendo da salvare nessuno non ha da affermare, da porre un bene assoluto, cioè, una verità assoluta. 3. 6. E così si produce una trinità… Quando dice trinità, naturalmente, è Dio, è il tutto, è l’intero. ...formata dalla memoria, dalla visione interna e dalla volontà che unisce l’una all’altra. In questo caso la volontà costituisce quell’elemento dell’ἐπιστροφή che, ritornando sulla memoria, rende questa memoria certa, perché io mi ricordo ma chi mi garantisce che questa memoria ricordi una qualunque cosa? E se fosse totalmente inventata? C’è anche questa eventualità. E, invece, no, questi tre elementi sono uniti dalla volontà, dalla volontà di fermare la cosa, naturalmente. In altri termini, dalla volontà di ricondurla all’Uno. Quando questi tre elementi si uniscono, in un solo tutto, questa riunione fa sì che questo tutto si chiami con il nome di pensiero. Quindi il pensiero qui è ricondotto al tutto: il pensiero viene da Dio e ricondotto al tutto, cioè, ricondotto a Dio, e d’altra parte è questo che garantisce la possibilità della conoscenza, Se non ci fosse questo Dio, a cui tutto quanto viene ricondotto, la conoscenza si disperderebbe nei molti, perché non potrebbe fissarsi né fermarsi su un significato unico. 5.8. Infatti, perfino nei loro peccati, le anime, con una libertà orgogliosa, pervertita e per così dire servile, non cercano altro che una certa rassomiglianza con Dio. Qui è Plotino, naturalmente, c’è il ritorno all’Uno: le anime cercano di tornare a Dio per una sorta di rassomiglianza. Così nemmeno i nostri primi genitori avrebbero potuto consentire al peccato se non fosse stato loro detto “sarete come dèi”. Dice che nemmeno gli antenati avrebbero mai acconsentito al peccato se non fossero stati indotti da questa illusione “sarete come dèi”; che è poi il crimine degli gnostici, erano loro a pensare una cosa del genere.

Intervento: Tutto era permesso tranne il mettersi al posto di Dio.

Sì, e infatti la mela famosa era questo, in fondo. Infatti, questa storia dello gnosticismo poi fu ripresa anche nel Rinascimento, da parte del neoplatonismo, cioè, come un atto di estrema ribellione e, quindi, come un atto rivoluzionario. 7.11. Qui è molto platonico. Essa (la trinità) infatti, esisteva infatti nella memoria anche prima che fosse pensata da noi, come il corpo esisteva nello spazio anche prima che fosse percepito per produrre la visione. Ma quando si pensa, l’immagine che la memoria conserva si riproduce nello sguardo del soggetto pensante e tramite il ricordo si forma quell’immagine che è quasi la prole di quella che la memoria conserva. Qui insiste molto su questa prole, cioè, sulla processione. Poi, lui deve riprodurre la sua trinità ovunque, dove c’è qualche cosa lui riproduce la trinità. Questo perché la trinità è il tutto, è Dio, è l’Assoluto. Perché lo sguardo dell’anima che è informato ad opera della memoria, quando ricordando pensiamo qualcosa, non procede da quella forma che ricordiamo d’aver vista; senza dubbio sarebbe impossibile ricordarci di quelle cose, se non le avessimo viste, ma lo sguardo dell’anima, che è informato ad opera del ricordo, esisteva anche prima che vedessimo il corpo di cui ci ricordiamo; a maggior ragione esisteva prima che se ne fissasse l’immagine nella memoria. Sebbene dunque la forma che si produce nello sguardo del soggetto che ricorda provenga da quella che è immanente alla memoria, tuttavia lo sguardo non trae da essa la sua origine, ma esisteva prima di ciò. Ne consegue così che, se quella non è vera genitrice, nemmeno questa è prole. Ma quella, che è quasi genitrice, e questa, che è quasi prole, suggeriscono qualcosa a partire da cui si possono vedere in maniera più certa e sicura delle realtà più interiori e più vere. Cioè, tutto ciò rimanda all’immagine di Dio, naturalmente, cioè, noi possiamo ricordarci qualche cosa, sì, perché abbiamo visto e la memoria le ha fissate e ce le ripropone, ma, è sempre la stessa questione, tutte queste cose procedono da Dio; senza di lui, infatti, non possiamo garantire niente, perché senza l’Assoluto, cioè Dio, tutte queste storie sono viziate dai molti, cioè, non sono significati unitari ma sono polivoci e, quindi, non garantiscono nessuna conoscenza. 7. 12. Vi sono, dunque, tante trinità di questo genere, quanti sono gli atti di ricordare, perché è impossibile alcun ricordo se non ci sono questi tre elementi, ciò che è latente nella memoria, anche prima che lo si pensi, ciò che si produce nel pensiero quando lo si guarda, e la volontà che unisce l’uno all’altro e che, terzo termine, aggiungentesi agli altri due, fa dell’insieme un tutto compiuto. Questa la sintesi del suo pensiero che riguarda la trinità: il terzo elemento che interviene fa dei due un tutto compiuto, l’intero. Sarebbe quel ἒν πάντα εἰναι che Diels ha tradotto: l’uno è il tutto. E qui è esattamente quello che dice Agostino. Dice perché è impossibile alcun ricordo se non ci sono questi tre elementi, ciò che è latente nella memoria, anche prima che lo si pensi, ciò che si produce nel pensiero quando lo si guarda, e la volontà che unisce l’uno all’altro e che, terzo termine, aggiungentesi agli altri due, fa dell’insieme un tutto compiuto. La volontà sarebbe l’amore e quello che chiama amore sarebbe la relazione tra i due, quello che fa di questi due un tutto, un intero. Questo è l’aspetto religioso: giungere al tutto, cioè all’Uno, a Dio, è il ritorno all’Uno. Il pensiero teoretico, invece, non compie questo passaggio. Nel pensiero teoretico manca il terzo elemento, l’ἐπιστροφή, il ritorno, vale a dire, manca la salvezza, perché solo nel ritorno c’è la salvezza, nel ritorno a Dio, nel ritorno all’Assoluto.